Autore: John Dickie
Anno di Pubblicazione: 2004
Genere: saggio
Perché la parola mafia ha un significato
Mafia una parola. L’Autore, inglese, ci ricorda nell’introduzione al suo saggio che questo termine insieme a pizza e opera e spaghetti identifica l’italianità nel mondo.
Una parola questa che conosciamo tutti, ma se dovessimo spiegarla, probabilmente finiremmo impantanati in una serie di altre parole: sabbie mobili di significati. Allora apriremmo un dizionario e scopriremmo che anche lì, la definizione sembra incerta, perché incespica nel rigorismo, finendo con sconfortante ambiguità nel nostro stesso pantano.
E’ questo uno dei radi casi in cui il significante sembra troppo stretto per il significato. Un’altra parola che mi sovviene, di cui tutti noi sappiamo il senso, ma di cui nessuno riesce dare una definizione precisa, curiosamente, è dignità.
E’ talmente magmatico il significato della parola mafia che per anni moltissime persone hanno sostenuto, in buona o cattiva fede, che non esistesse, ipotizzando che fosse un’invenzione di politici subdoli o una frottola per i magistrati carrieristi: una specie di demonio di cui parlavano certi preti idealisti.
Invece la mafia è ed è un fenomeno storico, culturale e sociale molto complesso. Tanto complesso che il suo potere si disperde come da un fiume, in mille rivoli di episodi, colpe e responsabilità.
Lo spiega con anglosassone distacco e britannico fair play il Professor John Dickie che offre in questa Storia della Mafia Siciliana una ricostruzione di grande precisione.
Questo è ciò che fa uno storico: mette i fatti uno in fila all’altro. Date, nomi, luoghi. E questa è già un’operazione fondamentale, ma certamente piuttosto onerosa dal momento che una ricerca documentaristica richiede per definizione dei documenti e i documenti non si redigono su ciò che era definito inesistente.
Il secondo aspetto interessante di questo saggio è che l’Autore riesce a ricostruire, parallelamente all’evoluzione storica, l’evoluzione culturale che la mafia ha rappresentato. I fatti di mafia sono cambiati perché i tempi sono cambiati e pochi, meglio dei mafiosi, sono riusciti a essere così contemporanei ai propri tempi!
La presenza di una violenza endemica in un ambiente così moderno andava contro una delle credenze predilette degli uomini di governo italiani: ossia che il progresso economico, il progresso sociale e il progresso politico marciassero pari passo. Franchetti cominciò a chiedersi se i principi di giustizia e libertà che avevano tanto a cuore non fossero “altro che discorsi ben architettati per coprire magagne che l’Italia è incapace di curare, una vernice per lustrare i cadaveri.
Altro aspetto di grande pregio di questo libro è la capacità dello Storico di rendere le sfumature dei significati, che diventano comportamenti, che diventano connivenze, favoreggiamenti con diverse intensità e colpe.
L’opinione pubblica italiana era rassegnata e scettica: le notizie concernenti la criminalità organizzata in Sicilia venivano accolte dalla popolazione con un senso di apatia e di disgusto. Si dava per scontato che la morte del Sindaci di Corleone fosse una faccenda di mafia e che molto probabilmente nessuno sarebbe mai stato chiamato a risponderne.
Questa Storia della Mafia Siciliana non ha nulla di retorico, nulla di sentimentale; nulla tantomeno di politico. Ma proprio per questo suo essere semplicemente ciò che dovrebbe, ovvero un saggio asettico, una visione super partes, la dimensione del fenomeno mafia emerge nella sua lapidaria crudezza.
Lapidario è certamente l’aggettivo più adeguato, se si considera la carrellata di nomi che compaiono nel libro e che oggi possiamo leggere scolpiti sulle lapidi.
Tra poco ricorrerà l’anniversario della morte di Giovanni Falcone e io mi aspetto già il consolidato carosello di dichiarazioni o le promesse di impegno e infine di I like su Facebook.

Se pensi che sia caduta nel retorico, chiedilo ai morti. Chiedilo ai vivi che vivono come morti.
Avvenne così che il 31 gennaio 1992, dopo due mesi di udienze, la Cassazione rovesciò la sentenza della Corte d’Assise d’Appello sul maxiprocesso, confermando le tre tesi centrali contenute nella sentenza istruttoria redatta da Falcone e Borsellino: che Cosa Nostra esisteva ed era un’organizzazione unitaria; che i membri della Commissione erano tutti congiuntamente responsabili degli omicidi compiuti in nome dell’organizzazione: e che le testimonianze fornite dai pentiti di mafia erano valide. (…). Dopo 130 anni lo Stato Italiano aveva finalmente dichiarato che la mafia siciliana costituiva una sfida organizzata - una sfida mortale - al suo diritto a governare.