Autore: Salvatore Satta
Anno di pubblicazione:1977
Genere: romanzo
C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici perché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci siano che ti raccolga, ti risusciti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale.
Parole di preghiera o d’ira sibilano tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita,vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno della loro memoria.
Il compito che si affida Satta è proprio richiamare dalle tombe questi spettri e tentare di restituire loro un’esistenza, un’essenza, nel senso proprio di recuperare una consistenza in questo scorrere senza moto del tempo.
Il mondo, il resto del mondo, che non si conosce, che sta oltre la discesa del cimitero, oltre i trenta chilometri che vanno alla spiaggia, il mondo cambia, ma non Nuoro. Arrivano le macchine a vapore, l’illuminazione artificiale, la guerra, come detriti sputati dalle onde sulla battigia e come scarti dunque trattati dai questi nuoresi che vivono ogni mutamento con l’ostilità caparbia che non ha nemmeno consapevolezza di sé, perché così si trattano le cose del mondo.
Eppure Satta richiama alla vita Don Sebastiano, Donna Vincenza, Pietro Ciatte, Giggia e affibbia loro dei pensieri, li costringere a vestire le proprie vite e ad affrontare, in un postumo essere se stessi, il giorno del giudizio.
La narrazione recupera questi personaggi, offre loro un contesto, la casa, il lavoro, i figli, le campagne, il vino. Ecco: adesso i personaggi hanno una loro vita e in qualche modo l’obbligo di viverla. L’Autore offre ai Suoi personaggi dei pensieri, delle scelte, dei sentimenti. Ed essi, come spettri, compaiono al lettore, nella diafana immobilità di una città popolata di generazioni che si avvicendano.
La verità che Don Sebastiano non voleva confessare era che la famiglia alla quale aveva dato tutto se stesso gli era rimasta estranea. Chi lavora come egli aveva lavorato ha diritto di essere amato, ma non ha tempo per amare.
Che i nuoresi non siano stati contenti della pubblicazione del romanzo non stupisce, ma ciò che Stata esprime ha Nuoro per contesto, ma è la scusa di chi, non essendo uno scrittore di mestiere, tratta di realtà che conosce. Il romanzo avrebbe potuto essere ambientato in altre mille città italiane, on cui l’immobilismo è stato ed è l’unica cultura condivisa. Poveri, ma di una povertà nota. Una resistenza al cambiamento divenuta mentalità che genera e riproduce e poi fa scomparire generazioni di ignoti.
Bisogna essere grati ai Satta che soffiano la polvere dalle lapidi e con un dito tracciano nell’aria le sagome di questi esseri a somma zero. Bisogna essere grati alla Famiglia Satta che, ritrovando questo scritto tra le carte del congiunto, le ha presentate al mondo. Satta non le aveva mai pubblicate.Lui, d’altronde, non era uno scrittore, era un giurista e aveva già provato a cambiare il mondo, Suo e dei Suo contemporanei, attraverso la Legge. E pazienza se il Suo non essere uno scrittore trapela, in qualche ingenuità che una penna consumata avrebbe ammantato di iperboli. La precisione è dei professionisti, non aggiunge nulla alla bellezza, tantomeno toglie al talento.
Il Giorno del Giudizio è un romanzo di onesta e crudele bellezza. La bontà è dell’Autore che regala una storia a chi non ha avuto una vita. Non è verità storica, non è fantasia letteraria. L’inquietudine è tuta qui: nella veridicità della paralisi nel verosimile dell’esistenza.