sabato 11 marzo 2017

Una Stagione all'Inferno

Titolo: Una Stagione all’Inferno
Autore: Arthur Rimbaud
Genere: Poesia
Anno di pubblicazione: 1873
Recensione di: Chiara Bortolin


A volte parlava, con una sorta di strano dialetto addolcito, della morte che fa pentire, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano attorno bestie da miseria. Rialzava gli ubriachi nei vicoli bui. Aveva la pietà di una  cattiva madre per i bimbi piccoli. - Andava  in giro con la grazia di una fanciullina al catechismo. - Si fingeva esperto di tutto, commercio, arte, medicina. - Io lo seguivo. dovevo!


Se tu mi chiedessi cosa sia la poesia, io ti risponderei recitandoti questo passo. Come diceva Hausman, non so cosa sia la poesia, ma quando la riconosco quando la sento. 
Non ci sono rime, va bene. Non ci sono i tipici a capo, i versi, pazienza. Non c’è una metrica. Eppure io ti dico che questa, mia caro, è poesia e della migliore qualità.
Lo so che sui manuali di letteratura sono scritte pagine e pagine di critica in cui ti spiegano che la poesia è fatta così e cos e che ci sono delle regole che indicano cosa sia la poesia e sono tutte affermazioni vere, innegabili. Ma sono limitate, come vedere un panorama da un binocolo, ne vedi solo un dettaglio.
La poesia è una faccenda complessa: c’è la tecnica, c’è l’uso maniacale delle parole e della loro disposizione, ma tutto questo è lo strumento tramite cui il poeta trasmette il concetto. Non si fa poesia solo con le parole. Si può scrivere un romanzo che non ha un significato, si può scrivere una storia coerente, che non vuol dire niente, ma non si può fare poesia senza un concetto.
Come un poeta arrivi a elaborare un concetto è un processo lungo, fatto di esperienza, di coscienza, di talento, di interiorizzazione. Il poeta vive in una dimensione altra, profonda come l’anima, leggera come l’esistenza. Per questo non si sceglie di fare il poeta, lo si è o non lo si è. Il poeta vive la poesia e poi, se è anche generoso, la restituisce in un brano come questo con cui ti regala la bellezza sublimata e rarefatta delle parole.
Prendi Rimbaud, prendi questo passo. Dimmi che non hai mai pensato, almeno una volta, con struggimento, al pentimento sul letto di morte, al momento in cui un uomo rende l’anima alla polvere e realizza di aver sprecato la possibilità di, che so, porre rimedio a un danno, chiedere scusa, dire a una persona cara ti voglio bene.
Dimmi che non hai mai pensato a chi per campare fa lavori orribili, che straziano il copro, che ottundono il cervello, che abbruttiscono il carattere, che svuotano la coscienza o che sottraggono un padre all’amore dei figli.
Dimmi che non hai mai avuto compassione per un bimbo maltrattato dalla madre o che non hai guardato con insospettata dolcezza una ragazzina che cammina leggere con un libro in mano e l’innocenza nel cuore.
Dimmi che non ti sei fatto incantare da una persona che veramente conosce gli uomini e non ti sei fatto strappare confidenze come se fossi una margherita in mano a un bambino.
Dimmi che non hai saputo provare pietà per un infelice. 
Anzi, non dirmi nulla di tutto questo, perché se davvero non hai mai pensato a una di queste situazioni, temo di doverti dire,amico mio, che l’ultimo dei tuoi problemi è capire cosa sia la poesia. 

Se invece, come spero, hai avuto uno di questi pensieri, anche solo come un fugace moto dell’anima, allora puoi capire cosa sia la poesia, puoi leggere Rimbaud e soprattuto puoi essergli grato perché è riuscito a dire in modo meraviglioso ciò che tu hai solo potuto intuire in un guizzo di umanità.

sabato 4 marzo 2017

I Buddenbrocks

Titolo: I Buddenbroocks - Decadenza di una famiglia
Autore: Thomas Mann
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 1901
Recensione di: Chiara Bortolin

Questo è uno dei pilastri della letteratura moderna e con questo non intendo lasciare spazi a spiritosaggini da buontempone circa il suo volume in edizione cartacea. Scrivo che è un pilastro perché proprio come l’elemento architettonico offre garanzia di solidità e quindi di sicurezza.
Prendi in mano I Bundderbroocks e hai delle certezze. Prima di tutto sai che dal punto di vista letterario la struttura è ineccepibile: una scrittura pulita, con qualche fregio barocco, che non eccede nel rococò; uno stile austero, armonico e bilanciato; un lessico ricercato, ma senza ostentazione.
In seconda battuta sai che la narrazione non ha crepe: i personaggi hanno profondità psicologica, ma esemplarità sociale; l’intreccio si muove su una linea chiara, una situazione di equilibrio, poi un’evoluzione, un apice e la chiusura; l’ambientazione talmente curata da sembrare più descrittiva che contestuale.
Infine, sai già che tipo di storia viene raccontata, una tragedia, l’Autore lo dichiara subito nel titolo, che sia chiaro.
Se poi hai letto qualche altro romanzo del genere, sai che non può che essere così. Gli autori di fine Ottocento non potevano che raccontare del declino, non dell’apocalisse, quello tocca agli Autori del Novecento, non dell’ottimismo, quello era toccato al settecento. Nell’Ottocento si scrive della decadenza. 
Il mondo sta cambiando, le società europee stanno cambiando, con lentezza, ma senza possibilità di rimedio, gli assetti sociali mutano e gli Intellettuali, come Cassandre senza età, cercano di avvisare. Le folle sono in tumulto, il potere politico non è più on grado di dare risposte certe, una nuova classe di ricchi sta prendendo in mano la situazione, eliminando senza tante smancerie un’aristocrazia che può solo preparare le proprie memorie in pinacoteche autocelebrative.
Tutto questo è molto rassicurante. Un romanzo diventa un classico quando il contenuto che espone è sufficientemente sedimentato da poter essere considerato un sapere comunemente acquisito.
Per questo I Bundderbroocks, non fanno più paura. Nessuno di noi, per esempio, teme di morire per un ascesso o impiega giorni per attraversare uno stato o scrive con una penna d’oca. La povertà, la fame, il freddo, ormai non riguardano nessuno più le società occidentali. Allo stesso modo non si teme un potere oppressivo che in virtù di credenze governa la vita dei più. Tutto ciò è passato, per questo i classici appaiono così rassicuranti.
Certo, se volessi andare oltre, se appena appena volessi vedere sotto l’intonaco, come certe donne imbellettate di pirandelliana memoria, potresti pensare che forse non è tutto superato. Potresti pensare che al solido palazzo della Storia si sia fatto un frettoloso restauro, ma che certe crepe non siano state riparate, che certi danni strutturali siano stati rattoppati alla meno peggio.
O forse potresti pensare che c’è un paradosso: nei romanzi classici non c’è mai ansia. Nonostante le pagine scorrano portandosi appresso un crescendo di sconfitta, la tragedia è semplicemente inesorabile e, nella sua ineluttabilità, offre una certa sicurezza. Andrà tutto male, punto. 
L’ansia è una novità regala dal benessere. Se non hai niente da perdere, non hai tempo per avere paura. Se puoi morire per una febbre, se sei destinato a sposare chi non ami, se l’obbligo sociale è superiore a ogni beneficio individuale, non ha nessun motivo per essere in ansia, sarà comunque una tragedia.
Ma se puoi scegliere, se hai la libertà di essere felice, se hai qualcosa da perdere o da vantare, allora puoi permetterti il lusso di avere l’ansia, puoi sentirti insicuro di fronte al mondo, puoi avere paura.
Leggere I Bundderbrocks è una garanzia di leggere un romanzo di eccezionale qualità, ma è anche un’occasione per ricordare che certe scemenze come si stava meglio quando si stava peggio non si trovano scritte nemmeno nei dolcetti della felicità . 

La Storia e la Letteratura offrono una possibilità impareggiabile: terre insegnamento dagli errori altrui senza sperimentarli in prima persona. Oscar Wilde sosteneva che Esperienza è il nome che diamo ai nostri errori. Come molti aforismi, divertente, ma non esaustivo.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero