venerdì 26 febbraio 2016

Visita algi Uffizi

Chiedo scusa ai miei Lettori per aver saltato l’appuntamento del venerdì, la scorsa settimana, ma ho, a mia parziale discolpa, l’essermi recata a lavare i panni in Arno, per dirla come Manzoni.
Firenze per me non è solo un luogo fisico che ha sedimentato e conservato nei secoli la bellezza, Firenze è un luogo ideale, un locus amoenus, che rappresenta l’eccellenza dell’ingegno umano, Firenze è per antonomasia la Cultura.
Tale e tanta è la meraviglia che essa offre che quasi calpestarne i marmi mi pare una profanazione! Tale e tanta è la meraviglia che avvolge, che questi potrei sentirmene sopraffatta. Qui ha camminato Dante, lì ha lavorato Michelangelo, in una stanzetta Kafka scriveva lettere ai familiari.
Se pensassi, nel guardarmi attorno, a tutto ciò che dovrei sapere e non so e, peggio ancora, a ciò che nemmeno so che dovrei sapere, potrebbe prendermi lo sconforto. Potrebbe, scrivo, perché, per mia fortuna, esistono gli Uffizi, la cui Direzione si prodiga con ogni mezzo al fine di far sentire anche il Visitatore meno qualificato a proprio agio.
Entro agli Uffizi e indolenti controllori sollecitano le persone a non perdere tempo in coda anche se il metal detector suona: probabilmente il mio volto trasognato rassicura del fatto che, se anche volessi, non sarei in grado di arrecare danni!
Procedo verso una serafica biglietteria, che non è in grado, anche volendo, di offrire una piantina della Galleria: comprendere se esista un ordine cronologico o logico delle opere, non sembra prioritario.
Con un po’ di disagio, mi appello all’ausilio dell’audioguida, che naturalmente ha un costo a parte e che, come tutto il resto, risulterà poco esaustiva, incompleta e non sempre corrispondente a quanto dichiarato dai numeri accanto ai quadri.
Salgo le scalinate e mi preparo psicologicamente ad accedere al sancta sanctorum della Storia dell’Arte italiana: ad accogliermi un pubblicano sfuggente che strappa il biglietto senza neanche guardarmi, mentre discute dei turni con un altro un degno collega.
Vestiti a proprio gusto, senza un segno distintivo di appartenenza agli Uffizi, accasciati sulle sedie o in crocchio a ciarlare, si può solo pensare la Galleria sia costretta ad avvalersi di personale volontario al quale non si può, ovviamente, richiedere la stessa prestazione che si pretenderebbe da personale retribuito.
Mi guardo attorno smarrita: questo sarebbe il Museo più prestigioso d’Italia? Che sia una pinacoteca mi viene confermato dai quadri, che pretendono, con la potenza della loro straordinaria bellezza, di essere guardati. A quelli famosi va bene, via, son loro a fare la voce grossa. Per gli altri, provo solo gran pena, a vedere quattro righe stampate su carta comune e infilate in etichette di plastica che del tempo portano lo sporco e non il pregio.
D’altronde se a sorvegliare le sale sono preposti soggetti che, con tutta evidenza, esiterebbero nel distinguere un affresco da una decalcomania, focalizzarsi sui vetri sporchi è pignoleria da pedanti.
A metà percorso la mia ansia da lacune è sconfitta dall’incuria che mi circonda. Salgo di un piano, perché lo fanno tutti e confido che sia questa la strada da percorrere.  Dopo la caffetteria indosso la giacca, convinta che la visita sia finita, invece inciampo nell’ala dedicata ai pittori stranieri, che solo nel 2011 è stata aperta e per la quale, annuncia l’audioguida, non si è ancora potuto provvedere a inserire tutte le informazioni.
In fondo, resta sempre il book shop in cui potrei comprare un libro, per rendermi edotta delle meraviglie che ho visto. Ma poi mi guardo attorno, scrollo le spalle ed esco all’aria aperta, tra ali di plastica che delimitano un cantiere.
Tutto questo è imbarazzante. Come Cittadino Italiano, di fronte ai Cittadini Stranieri, che vedono di quanta incuria noi si sia capaci! Come lavoratore, di fronte alla negligenza di chi dovrebbe considerare un onore prendersi cura del Patrimonio Collettivo, invece trascorre il tempo a controllare il proprio smartphone! Come minuscolo proprietario di ogni opera: perché se i Beni Culturali sono dello Stato, allora un sessantamilionesimo di ogni quadro che è in questa Galleria mi appartiene e io ho il dovere di sentirmi umiliata di fronte a questo trattamento!

Firenze non è solo la Galleria degli Uffizi, chiaramente. Ho visitato un molto ben allestito Palazzo Pitti, ho ammirato le bellezze di San Miniato e apprezzato la cura del piccolo Museo dell’Opificio delle Pietre Dure. E’ pur vero che la Galleria degli Uffizi è un simbolo di bellezza, di accesso democratico alla cultura, dell’umanità nelle sue espressioni più alte. Questo è nell’immaginario di tutti. Nella realtà abbiamo appeso un Botticelli nell’androne di casa.

giovedì 11 febbraio 2016

The Waste Land - La Terra Desolata

Autore: Thomas Eliot

Titolo: The Waste Land - La Terra Desolata

Anno di pubblicazione: 1922

Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin



Anch’io ero in attesa dell’ospite atteso. 
Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso, 
Impiegato d’una piccola agenzia di locazione, sguardo ardito, 
Uno di bassa estrazione a cui la sicurezza 
S’addice come un cilindro a un cafone rifatto. 
Ora il momento è favorevole, come bene indovina, 
Il pasto è ormai finito, e lei è annoiata e stanca, 
Lui cerca d’ impegnarla alle carezze 
Che non sono respinte, anche se non desiderate. 
Eccitato e deciso, ecco immediatamente l’assale; 
Le sue mani esploranti non incontrano difesa; 
La sua vanità non pretende che vi sia un’intesa, ritiene 
L’indifferenza gradita accettazione. 



Immagina un assolato mattino di maggio, a un mese dalla maturità, la Prof di Inglese che scandisce devuoesssssssssstllllannnnnnddddd e accompagna la pronuncia con un gesto della mano che sta a significare che le lettere si devono sciogliere lentamente: Se non capite la pronuncia, vuol dire che non avete capito un accidente del significato poetico.

E in effetti io non avevo capito un fico secco del contenuto dei brani letti, anche se per imitazione, come una scimmia, avevo imparato la pronuncia, ma siccome alla maturità mi chiese Wordsworth ana Coleridge, rimandai il problema.

Per l’esame di Letteratura Norda Americana lo rilessi, nella versione del 1922, quella data alle stampe dopo le sforbiciate di Puond, con le note critiche che, bontà sua, Eliot stesso scrisse, e con tanto di altre note esplicative a piè di pagina.

So che ne è stata edita anche la versione originale di Eliot, lunga quasi il doppio, ma, dicono i maligni, senza valere il doppio. D'altronde, Ezra Pound di poesia ne capiva e se ha messo mano allo scritto di Eliot e questo ha dato il suo assenso alla versione rivista, dico, a buon senso, un motivo ci sarà.

La mia conclusione è questa: The Waste Land, preso sul serio, è incomprensibile. Per avere una possibilità di capirlo, bisogna sedersi a un tavolo, con un blocco degli appunti vicino, prendere verso per verso, andare a vedere se esiste un precedente, capire a chi appartenga la citazione e cercare di rimettere insieme i pezzi.  

Eliot in questo poemetto mette di tutto e tu ti trovi ad annaspare tra un rimando a Dante e una distorsione di Shakespeare, se va bene! Quando inciampi nell’antropologia della ritualistica, beh lì ti arrendi e ti dedichi ad altro.

Esiste però un altro modo di leggere The Waste Land, del tutto non ortodosso, vale a dire leggerlo e basta. Lasciare che scorra, giù tutto d’un fiato, come si beve la tequila, alla goccia. Quello che resta, chiaramente, non è comprensione, ma una vaga idea, come il ricordo di un sogno, familiare anche se non ben definito.

E pensare che la desolazione è un fenomeno piuttosto ricorrente. Per esempio: vai a una riunione di lavoro, in cui speri vengano affrontate tematiche cruciali, invece ti rendi conto che ci si perde in chiacchiere a cui tutti attribuiscono un gran significato, tranne te. Questo senso di disagio è desolazione.

Rivedi dei cugini dopo tanto tempo, ti rechi all'incontro con allegria perché credi che sarà piacevole, invece trovi persone della tua età che sembrano invecchiati di botto, che ti rovesciano addosso tutte le loro disgrazie, con una dovizia di particolari. Questo senso di noia è desolazione.

Incontri per strada la tua vicina di banco alle Superiori, che detestavi cordialmente perché oltre a essere bella era anche intelligente e simpatica: scopri che fa un lavoro qualunque, che ha sposato un bastardo qualunque e che non si è nemmeno laureata. Questo senso di sconfitta è desolazione.

Eliot racconta esattamente questo: che la desolazione esiste, non solo dopo la Prima Guerra mondiale, quando Lui scrive; non solo nella malattia mentale, che forse lo ispira; ma nei secoli, negli uomini. Solo che Lui crea una sorta di contraltare tra la mediocrità massificata e alcuni episodi di eccellenza dell’ingegno umana.

Il risultato di questo eccentrico poemetto è che fa sentire un po’ meno soli, un po’ meno esclusi, un po’ meno rari nella diversità. E offre anche un’eccellente via di fuga quando, all'ennesimo discorso straniante ti viene chiesto Tu cosa ne dici?


Aria seria, sguardo profondo da chi la sa lunga: devuoesssssssssstllllannnnnnddddd. Ricordati di accompagnare la pronuncia con il gesto della mano, prima di levare i tacchi, restituendo al tuo interlocutore la sua desolazione.

giovedì 4 febbraio 2016

De Profundis

Titolo: De Profundis
Autore: Oscar Wilde
Anno di Pubblicazione: 1905
Genere: Epistola
Recensione di: Chiara Bortolin

Caro Bosie dopo lunga e sterile attesa ho deciso di scriverti io, per il tuo bene come per il mio, poiché non vorrei proprio ammettere d'essere passato attraverso due lunghi anni di prigionia senza mai ricevere un solo rigo da te, una qualsiasi notizia, un semplice messaggio, tranne quelli che m'arrecarono dolore.

Il De Profundis ti coglie di sorpresa. Se leggi i romanzi di uno come Kafka, già sai che la sua visione del mondo non è improntata all'ottimismo; quindi nella Lettera al Padre può magari stupirti che esprima liberamente considerazioni sulla sua vita privata, ma che il taglio sia pesantemente negativo non ti sorprende affatto.

Da Wilde invece non te lo aspetti. Se conosci le sue opere hai l’idea di uno scrittore molto originale, che preferisce l’ironia alla critica diretta, che sublima nell'estetica le bruttezze che pure esistono. Se conosci Wilde per le biografie patinate, è il dandy per eccellenza: un uomo votato alla bellezza, dissipatore di patrimoni, inventore di uno stile del tutto nuovo; un divo dei suoi tempi, come diceva di lui il Principe di Galles: Non conosco il Signor Wilde e non conoscere il Signor Wilde significa non essere conosciuti.

Ancora oggi di Wilde si citano gli aforismi, oramai diventati dei classici: C’è solo una cosa peggiore del far parlare di sé: il non far parlare di se oppure Posso resistere a tutto, tranne che alle tentazioni o anche Esperienza è il nome che diamo ai nostri errori. Ce ne sono a centinaia, si trova sempre qualcosa di intelligente da dire, con una citazione di Wilde.

Quando apri il De Profundis, il Wilde dei salotti letterari porta indosso una divisa da carcerato; lo sfarzo delle sue stanze si è tramutato in fetore di una cella umida; la passione per i cibi prelibati ha ceduto il passo alla denutrizione.
Noi che siamo in carcere, e nelle cui esistenze non c’è alcun avvenimento, eccetto il dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza e la ricapitolazione dei momenti amari.

Wilde scrive una lunga lettera, che solo dopo molte vicissitudini viene pubblicata nella sua integralità. Il destinatario è Lord Douglas, un uomo molto più giovane di lui, con cui aveva intrattenuto una turbolenta relazione, e che viene indicato da Wilde come la causa prima della sua rovina.

La rovina a cui Wilde allude assume molti connotati diversi: è una rovina morale, per la depravazione in cui si è lasciato trascinare; naturalmente una rovina familiare, sebbene la moglie abbia continuato a nutrire affetto e ammirazione per lui; una rovina letteraria, perché questa cattiva compagnia influenza molto negativamente la produzione di Wilde; una rovina economica, per lo sperpero del patrimonio prima e per i costi del processo poi.

Lascio i dettagli delle riflessioni di Wilde su questa vicenda a lui stesso. Certo la profondità della caduta corrisponde a una profondità d’animo che i riflessi delle paillettes, a cui ben volentieri l’Autore si esponeva, avevano celato.

E in fondo sarebbe stato anche giusto così: l’immagine pubblica non deve necessariamente corrispondere alla realtà privata. Ma in un’epoca come quella vittoriana, in cui la sessualità viene codificata anche attraverso la Legge e non solo attraverso la morale, l’omosessualità di Wilde, una volta resa di pubblico dominio, viene bollata come gross indecency e viene punita con la carcerazione e i lavori forzati.

Wilde non si riprende mai del tutto da questa tragedia: nonostante l’aiuto di fedeli amici e della famiglia, la disperazione prevale e i momentanei periodi di ripresa sembrano sempre precedere una peggiore ricaduta. Così si consuma la fama, l’intelligenza e la bravura di uno dei più brillanti scrittori anglosassoni di fine Ottocento. Così scandalosa la sua colpa, che i giornali dell’epoca preferiscono omettere la notizia, il nome di Wilde semplicemente scompare.

Volete sapere qual è stato il grande dramma della mia vita? E'ce ho messo il mio genio nella mia vita; tutto quello ho messo nella mie opere è il mio talento.

Nessuno all'epoca indaga sull'immoralità dell’uomo che aveva causato tanto danno: era sufficiente, per la pubblica opinione, sapere che era un uomo. Che fosse anche indegno, pavido e crudele resta un aspetto privato tra Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas, figlio del nono marchese di Queensberry, Sir John Sholto Douglas.

E’ una lezione che la storia continua ripetere: quando una maggioranza perbenista, intollerante e monolitica, fa della propria misera morale Legge, inevitabilmente ci sarà almeno un uomo, degno di essere chiamato tale, il cui genio, la cui intelligenza e forse anche la vita, vengono annientate inutilmente. E questa non è una faccenda privata.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero