Titolo: De Profundis
Autore: Oscar Wilde
Anno di Pubblicazione: 1905
Genere: Epistola
Recensione di: Chiara Bortolin
Caro Bosie dopo lunga e sterile attesa ho deciso di scriverti io, per il tuo bene come per il mio, poiché non vorrei proprio ammettere d'essere passato attraverso due lunghi anni di prigionia senza mai ricevere un solo rigo da te, una qualsiasi notizia, un semplice messaggio, tranne quelli che m'arrecarono dolore.
Il De Profundis ti coglie di sorpresa. Se leggi i romanzi di uno come Kafka, già sai che la sua visione del mondo non è improntata all'ottimismo; quindi nella Lettera al Padre può magari
stupirti che esprima liberamente considerazioni sulla sua vita privata,
ma che il taglio sia pesantemente negativo non ti sorprende affatto.
Da Wilde invece non te lo aspetti. Se conosci le sue
opere hai l’idea di uno scrittore molto originale, che preferisce
l’ironia alla critica diretta, che sublima nell'estetica le bruttezze
che pure esistono. Se conosci Wilde per le biografie patinate, è il dandy
per eccellenza: un uomo votato alla bellezza, dissipatore di patrimoni,
inventore di uno stile del tutto nuovo; un divo dei suoi tempi, come diceva di lui il Principe di Galles: Non conosco il Signor Wilde e non conoscere il Signor Wilde significa non essere conosciuti.
Ancora oggi di Wilde si citano gli aforismi, oramai diventati dei classici: C’è solo una cosa peggiore del far parlare di sé: il non far parlare di se oppure Posso resistere a tutto, tranne che alle tentazioni o anche Esperienza è il nome che diamo ai nostri errori. Ce ne sono a centinaia, si trova sempre qualcosa di intelligente da dire, con una citazione di Wilde.
Quando apri il De Profundis,
il Wilde dei salotti letterari porta indosso una divisa da carcerato;
lo sfarzo delle sue stanze si è tramutato in fetore di una cella umida; la passione per i cibi prelibati ha ceduto il passo alla
denutrizione.
Noi
che siamo in carcere, e nelle cui esistenze non c’è alcun avvenimento,
eccetto il dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della
sofferenza e la ricapitolazione dei momenti amari.
Wilde
scrive una lunga lettera, che solo dopo molte vicissitudini viene
pubblicata nella sua integralità. Il destinatario è Lord Douglas, un
uomo molto più giovane di lui, con cui aveva intrattenuto una turbolenta
relazione, e che viene indicato da Wilde come la causa prima della sua
rovina.
La
rovina a cui Wilde allude assume molti connotati diversi: è una rovina
morale, per la depravazione in cui si è lasciato trascinare;
naturalmente una rovina familiare, sebbene la moglie abbia continuato a
nutrire affetto e ammirazione per lui; una rovina letteraria, perché
questa cattiva compagnia influenza molto negativamente la produzione di
Wilde; una rovina economica, per lo sperpero del patrimonio prima e per i
costi del processo poi.
Lascio i dettagli delle riflessioni di Wilde su questa vicenda a lui stesso. Certo la profondità della caduta corrisponde a una profondità d’animo che i riflessi delle paillettes, a cui ben volentieri l’Autore si esponeva, avevano celato.
E in fondo sarebbe stato anche giusto così: l’immagine pubblica non deve necessariamente corrispondere alla realtà
privata. Ma in un’epoca come quella vittoriana, in cui la sessualità viene codificata anche attraverso la Legge e non solo attraverso la
morale, l’omosessualità di Wilde, una volta resa di pubblico dominio,
viene bollata come gross indecency e viene punita con la carcerazione e i lavori forzati.
Wilde
non si riprende mai del tutto da questa tragedia: nonostante l’aiuto di
fedeli amici e della famiglia, la disperazione prevale e i momentanei
periodi di ripresa sembrano sempre precedere una peggiore ricaduta. Così
si consuma la fama, l’intelligenza e la bravura di uno dei più brillanti
scrittori anglosassoni di fine Ottocento. Così
scandalosa la sua colpa, che i giornali dell’epoca preferiscono
omettere la notizia, il nome di Wilde semplicemente scompare.
Volete
sapere qual è stato il grande dramma della mia vita? E'ce ho messo il
mio genio nella mia vita; tutto quello ho messo nella mie opere è il
mio talento.
Nessuno
all'epoca indaga sull'immoralità dell’uomo che aveva causato tanto
danno: era sufficiente, per la pubblica opinione, sapere che era un
uomo. Che fosse anche indegno, pavido e crudele resta un aspetto privato
tra Oscar Wilde e Lord Alfred Douglas, figlio del nono marchese di
Queensberry, Sir John Sholto Douglas.
E’ una lezione che la storia continua ripetere: quando una maggioranza perbenista, intollerante e monolitica,
fa della propria misera morale Legge, inevitabilmente ci sarà almeno un
uomo, degno di essere chiamato tale, il cui genio, la cui intelligenza e
forse anche la vita, vengono annientate inutilmente. E questa non è una faccenda privata.
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