domenica 17 gennaio 2021

Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro


Titolo: Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro

Autore: Ivan Giménez 

Anno di pubblicazione:2017

Genere: saggio


A partire dalla Prima Rivoluzione Industriale, l’introduzione della tecnologia ha portato a profondi cambiamenti nella struttura del lavoro. Nella seconda metà del XX secolo, i robot si sono fatti largo nella produzione industriale, anche se si è dovuto attendere il nuovo millennio, con i progressi delle tecnologie digitali, per rendersi conto del loro reale potenziale di trasformazione.


Il tema, sarai d’accordo con me, è di pressante attualità che, se pur trascurato momentaneamente dai media, mai come ora sarebbe da affrontare, dal momento che la pandemia ha portato in evidenza una distinzione, già presente, dirai, tra mansioni che si possono svolgere da casa, in smart working, come si è imparato a dire, e lavori che vanno svolti in presenza.


Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro è una breve e utile guida per fare chiarezza in questo complesso argomento. Come è buona pratica, l’Autore fa principiare la sua sintesi dalla Storia. 

Come la tecnologia incida sul mondo del lavoro è dibattito datato e ha avuto inizio con la cosiddetta Prima Rivoluzione Industriale, quando per la prima volta l’uomo potè produrre non più solo attraverso strumenti, ma attraverso macchine. 


Già all’epoca, per intenderci, il 1760, con l’introduzione della spoletta e della macchina a vapore, entusiasmo e timori trovarono i loro seguaci. Se da un lato l’introduzione delle macchine aveva prodotto inimmaginabili vantaggi, indubbiamente aveva provocato anche spiacevoli conseguenze, tra cui, nell’immediato, una brusca riduzione dell’occupazione. 

Lo stesso accadde in occasione della Seconda Rivoluzione Industriale, quando, nel 1870, comparvero la ferrovia e i primi sistemi di telecomunicazione globali, e nella Terza Rivoluzione, più vicina a noi, a metà del ‘900, con l’introduzione dei primi sistemi di automazione.


L’Autore riassume i passaggi di queste rivoluzioni ed è Suo pregio riuscire a unire sintesi e chiarezza di esposizione, senza per questo rinunciare alla completezza di informazione. 

Per quanto attiene alla rivoluzione che impensierisce, oppure no, i giorni nostri, l’Autore rappresenta due possibili scenari. Naturalmente, sia tu sia io abbiamo chiaro che stiamo parlando della Rivoluzione Digitale, ma come inserirla nel percorso storico? Come definirla? Le scuole di pensiero sono al momento due: la maggioranza degli Studiosi è propenso a definire l’avvento della tecnologia informatica come la Quarta Rivoluzione Industriale o Industria 4.0. Una prate minoritaria sarebbe più propensa a definirla come Prima Rivoluzione Digitale. Nel testo trovi indicati gli argomenti a favore di una o dell’altra visione, per cui potrai farTi una tua idea o di modificarla L’Autore assumerà, per le pagine successive, la definizione più condivisa, personalmente propendo per la seconda, ma il bello del pensiero è che ciascuno può costruirsene uno proprio.


Dagli inizi dell’industrializzazione, spesso le macchine sono state percepite come una minaccia per il lavoro dell’uomo. Oggi, il costante espandersi delle loro abilità ha dato maggior risonanza alle voci di chimere in guardi dai pericoli della disoccupazione tecnologica.


Successivamente, l’Autore presenta il dibattito, che segue tutte queste rivoluzioni, rimanendo per così dire costante nel tempo, vale a dire se la tecnologia influisca positivamente o negativamente sul lavoro. Anche in questa seconda perte del libro, l’Autore presenta con chiarezza e semplicità l’arcobaleno delle posizioni che, dai detrattori più accaniti conduce ai sostenitori più accesi.


E’ importante notare come, nel tempo, le posizioni, pur aggiornandosi, non siano state modificate e che anzi, alcune definizioni fondamentali, come disoccupazione tecnologica, coniata da Adam Smith, sia ancora oggi in uso per identificare la conseguenza in termini occupazionali dell’introduzione di innovazioni tecnologiche.


La necessità della sintesi non consente all’Autore di approfondire alcuni temi, sebbene abbia la correttezza di enunciarli. Ne cito alcuni: la sicurezza sul lavoro, che certamente l’automazione ha migliorato; la produzione più rapida ed economica, con conseguenze positive e negative; l’impatto di massa delle nuove tecnologie, anche questo con conseguenze poliedriche. 


Tema centrale, su cui l’Autore si sofferma, è l’impatto sull’occupazione delle nuove tecnologie. La tecnologia produce o erode posti di lavoro? La risposta è complessa e non univoca. Le innovazioni tecnologiche hanno sempre comportato, al loro inserimento nella produzione, una perdita massiccia di posti di lavoro; è però altrettanto vero che, negli anni successivi, ha portato un allargamento delle opportunità di lavoro, migliori salari, migliori condizioni. Questo dice la Storia, del breve e del lungo periodo, ma questa rivoluzione, quella che stiamo vivendo, quali conseguenze avrà? 


L’Autore non offre una risposta, ma molti scenari possibili, ipotesi, previsioni. Di sicuro a oggi si può dire che molti posti di lavoro siano andati persi nel manifatturiero, ma molti ne siano stati creati in altri settori, come nella cura della persona o nella logistica. Altrettanto di sicuro, si può dire che molte professioni siano una novità assoluta nell’economia, pensa per esempio agli influencer o agli esperti di marketing digitale o ancora alle mansioni della cosiddetta GIG economy, lavori spot di basso profilo professionale ma di ampia capacità di impiego, come gli addetti al delivery.


Insomma, la faccenda è complicata, ne converrai, e certamente né tu né io saremo degli esperti per aver letto questo piacevole saggio, ma forse avremo qualche strumento in più per capire questo mondo che cambia rapidissimamente.


Una considerazione è interessante, l’Autore dedica più passaggi, seppur con garbo. Una costante di tutte le rivoluzioni industriali è stata che le conseguenze peggiori sono state subite da coloro che avevano un grado di istruzione basso. Ancora oggi, a trar maggior vantaggi dei cambiamenti sono coloro i quali, per titolo di studio, sono in grado di essere protagonisti delle innovazioni o sono sufficientemente strutturati da potervisi riadattare. Questo vuol dire che chi oggi ha la responsabilità di prendere decisioni, per se stesso, ma soprattutto per altri, dovrebbe avere contezza che, oggi più che mai l’istruzione dovrebbe essere il centro delle preoccupazioni verso i giovani, naturalmente, ma anche verso tutti coloro che, nel mondo del lavoro, dovranno sperare di restarci per il futuro prossimo.


Non è questa un’indicazione dell’Autore, non apertamente quantomeno, ma se si investe del tempo per fare cultura, è da credere che possa essere un pensiero condiviso: l’unico modo per affrontare il cambiamento è non subirlo e l’unico strumento è lo studio. Lo si comprende leggendo un libro di storia, stampato o digitale che sia.


L’intelligenza artificiale sarà la migliore o la peggiore cosa mai successa all’umanità. (S.Hawking)


mercoledì 6 gennaio 2021

I Calabroni


Titolo: I Calabroni

Autore: Peter Handke

Anno di pubblicazione: 1966

Genere: Romanzo



Quella volta, disse mio fratello, io ero seduto davanti alla stufa e fissavo il fuoco.

Lui era arrivato sul poggio da dietro, prima dell’alba, mentre ancora pioveva; senza guardare, s’era introdotto nel campo attraverso il recinto di fil di ferro e il fil di ferro gli aveva graffiato il viso (…)



Che l’assegnazione del Premio Nobel a Handke non abbia ragioni politiche è dubbio presto fugato. Basti ricordare il suo sostegno alla causa serba, che culminò con il discorso in occasione del funerale di Slobodan Milošević, che già nel 1999 gli aveva fatto guadagnare il titolo di coglione internazionale dell’anno, affibbiatogli senza tante cerimonie da Salman Rushdie.


Se di Nobel si tratta, deve per forza essere per la letteratura per il suo lavoro influente che con abilità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana.

Ora, ammetto che la motivazione pare tanto vaga quando tautologia: di che esperienza dovrebbe trattare la letteratura se non di quella umana? E paiono davvero poco esaustive anche le scarne righe dedicate da alcune sinossi a una presunta indagine della realtà. 


Che cosa sia la realtà è da secoli oggetto di diatribe filosofiche: non si sa. O per lo meno, si sa quale sia la realtà contestualmente a chi la indaga se è vero che nella realtà Platone scopre l’anima, Anselmo da Aosta trova Dio con un intrigante se lo penso esiste e i più recenti Berkleleyniani, con pragmatismo tutto anglosassone, sostengono che esiste solo ciò che si vede. Bisogna allora fare un passo indietro e cercare le motivazioni là dove si possono trovare, ovvero nel testo.


Ho definito I Calabroni un romanzo, perché la sensazione è di aver di fronte una storia, un intreccio, direbbero i critici, eppure fin dalla prima riga si intuisce che si è lontani dal rassicurante Era una notte buia e tempestosa


Punto numero uno: il testo è in prima persona. Molto strano per chi si occupa di realtà, perché il Realismo necessita di un narratore onnisciente che racconta in terza persona, perché sa ciò che il lettore e i personaggi non sanno. Se si tratta di realtà, ma è narrata in prima persona, non può che essere una lettura soggettiva e quindi parziale della realtà. Punto secondo: la suddivisione del testo non corrisponde a nessun ordine logico: non si tratta di lettere, non è una successione cronologica di fatti, non è un diario. Ogni capitolo è un frammento di pensieri del protagonista che sembrano casualmente fermati sulla carta, senza per altro che si dica come. C’è stato un prima e ci sarà un dopo, quello che è raccolto nel testo è una parentesi all’interno del quale il lettore di dibatte per capire.


Di primo impatto, da lettore, si vuole ricostruire la storia, chiaro. Allora si prova a mettere insieme i frammenti: un fratello morto e la causa della morte, la cecità del protagonista, un ambiente rurale di fatica e povertà. Di lì in poi altri frammenti che lasciano più dubbi che risposte: che fine ha fatto il terzo fratello? Cosa ha causato la cecità del protagonista? Le indagini sono ancora aperte? Ma sarà vero che il fratello è morto nel modo incui il protagonista racconta? La sorella, il padre, la donna del padre, qualcuno sa la verità? 


A un quadro completo, di fatto non si arriva. Il lettore si trova a incespicare tra i frammenti che il narratore sparge, ma con il proseguire della lettura, si fanno largo i altri dubbi. Perché il narratore non racconta tutto quello che sa? Parrebbe proprio che lui sappia più di quanto riveli. E’ dunque anche il narratore reticente? Forse ha qualcosa da nascondere? Forse non conosce? E quando riporta le versioni degli altri riporta ciò che loro effettivamente hanno detto o ciò che lui comprende? E chi può dire se anche gli altri, ammesso che non stiano mentendo, stiano riportando un fatto e un’interpretazione o una ricostruzione plausibile? La lettera del terzo fratello esiste? Se esiste, preannuncia davvero il ritorno di questo con la corriera? 


Forse allora non è questo che si deve cercare nel testo, non è la storia il centro. Forse il centro è rappresentato dalla frammentarietà con cui il protagonista si esprime, quando per esempio nomina gli oggetti: gli animali fanno questo verso, che si chiama così; la bicicletta fa questo rumore che si chiama così o così a seconda che sia in movimento o sia ferma; il vento si dice che fischi o gonfi o risalga a seconda delle situazioni. Un tentativo costante di conoscere e riconoscere il mondo attraverso quello che i neuroscienziati definiscono processo cognitivo: per conoscere una cosa devo poter dare un nome.


Il rumore della tendina nel vento viene chiamato uno stormire; può anche essere paragonato al sibilare del fuoco che si consuma in una stufa; se la tendina è di stoffa più solida, il suo rumore nel vento viene chiamato un garrire; questa espressione è usata anche per le bandiere. Il rumore della sabbia che il vento fa battere contro il vetro viene chiamato un crepitare; è possibile anche il paragone, con il fine picchiettio di una pioggia su un tetto di lamiera; un più intenso picchiettio della pioggia sul tetto di lamiera viene chiamato un tambureggiare.


E’ forse per questo che il protagonista non si rivolge agli altri personaggi per nome, ma secondo il loro rapporto di relazione familiare o sociale: il padre, il  maniscalco, il lattaio. Essi hanno un nome, chiaramente, il lettore lo sa, ma essendo altro dal protagonista non possono essere conoscibili.


A fronte di questa alterità le spiegazioni del titolo che vorrebbero indicare ne I Calabroni i parenti pungenti e negativi paiono poco convincenti. Per altro, è opinione del lettore che i parenti siano negativi, con una sensibilità alla famiglia molto contemporanea e urbana, lontana dal giudizio del protagonista, che si lamenta del padre irascibile, ma va altresì in ansia davanti alla gentilezza della donna del padre, sostituta domestica di una madre morta. 


No, i Calabroni sono i frammenti che si agitano nella testa del protagonista, questi pensieri ossessivi e pericolosi, che si addensano nel tentativo di comprendere il mondo creando solo ulteriore frastuono. Succede in fondo a tutti: esistono i fatti, le interpretazioni, le menzogne, le verità parziali, le opinioni. La realtà chiara, semplice e oggettiva è appannaggio di pochissime situazioni, il più delle volte ci si accontenta di una realtà parziale, plausibile, lacunosa.


Bisogna dire che l’Autore ha realizzato un capolavoro nel rendere così agevole la lettura di tanta complessità che anzi si deve quasi frenare lo scorrere delle parole, per non perdere qualche elemento sostanziale nel fluire leggero della scrittura.


Altrettanto si deve riconoscere una grande maestria nell’illusione creata che, a pensarci, non è proprio credibile che un contadino poco più che alfabetizzato possa esprimere come il protagonista.


O forse anche questa è l’ennesima dimostrazione che vuole dare l’Autore che la realtà non esiste come univoca, esiste come parziale conoscenza di un mondo a cui ciascuno si approccia e di cui conosce quello che può, per come lo vede o lo sente, più in metafora che in pratica.


Curioso è anche un altro fatto, se di fatto si può parlare, in questo magma interpretativo. Il libro venne pubblicato nel 1966. Di lì a poco compariranno i moniti dei Sartre e dei Marcuse: la società come struttura sociale o economica annulla l’individuo nell’omologazione, nei consumi, nel conformismo e la libertà dell’individuo sarà spazzata via dal pensiero forte della società di massa.


Handke va in direzione opposta: l’individuo è incapace di integrarsi, fa parte di una società perché ha in essa un ruolo, ma poiché non è in grado di comprendere la realtà ne è di fatto avulso, è egli stesso un frammento in un racconto di cui non si conosce la trama.

A decenni di distanza si può dire che i peggiori timori di entrambe le parti si sono realizzati: una società di massa, meglio di gregge, in cui come pecoroni si segue ciò che è ritenuto conoscibile, facile, in cui troppo spesso i calabroni che girano per la testa dei singoli vengono scambiati per realtà universale, ovvero per verità, senza neppur più avere il dubbio che ciò che si pensa possa essere solo una parte infinitamente piccola della realtà, magari anche sbagliata. 



Non hai bisogno di mostrare che cammini su un sentiero polveroso. Non c’è bisogno che gli spettatori riconoscano la natura del sentiero. Basta che ti vedano camminare.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero