Autore: Peter Handke
Anno di pubblicazione: 1966
Genere: Romanzo
Quella volta, disse mio fratello, io ero seduto davanti alla stufa e fissavo il fuoco.
Lui era arrivato sul poggio da dietro, prima dell’alba, mentre ancora pioveva; senza guardare, s’era introdotto nel campo attraverso il recinto di fil di ferro e il fil di ferro gli aveva graffiato il viso (…)
Che l’assegnazione del Premio Nobel a Handke non abbia ragioni politiche è dubbio presto fugato. Basti ricordare il suo sostegno alla causa serba, che culminò con il discorso in occasione del funerale di Slobodan Milošević, che già nel 1999 gli aveva fatto guadagnare il titolo di coglione internazionale dell’anno, affibbiatogli senza tante cerimonie da Salman Rushdie.
Se di Nobel si tratta, deve per forza essere per la letteratura per il suo lavoro influente che con abilità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana.
Ora, ammetto che la motivazione pare tanto vaga quando tautologia: di che esperienza dovrebbe trattare la letteratura se non di quella umana? E paiono davvero poco esaustive anche le scarne righe dedicate da alcune sinossi a una presunta indagine della realtà.
Che cosa sia la realtà è da secoli oggetto di diatribe filosofiche: non si sa. O per lo meno, si sa quale sia la realtà contestualmente a chi la indaga se è vero che nella realtà Platone scopre l’anima, Anselmo da Aosta trova Dio con un intrigante se lo penso esiste e i più recenti Berkleleyniani, con pragmatismo tutto anglosassone, sostengono che esiste solo ciò che si vede. Bisogna allora fare un passo indietro e cercare le motivazioni là dove si possono trovare, ovvero nel testo.
Ho definito I Calabroni un romanzo, perché la sensazione è di aver di fronte una storia, un intreccio, direbbero i critici, eppure fin dalla prima riga si intuisce che si è lontani dal rassicurante Era una notte buia e tempestosa.
Punto numero uno: il testo è in prima persona. Molto strano per chi si occupa di realtà, perché il Realismo necessita di un narratore onnisciente che racconta in terza persona, perché sa ciò che il lettore e i personaggi non sanno. Se si tratta di realtà, ma è narrata in prima persona, non può che essere una lettura soggettiva e quindi parziale della realtà. Punto secondo: la suddivisione del testo non corrisponde a nessun ordine logico: non si tratta di lettere, non è una successione cronologica di fatti, non è un diario. Ogni capitolo è un frammento di pensieri del protagonista che sembrano casualmente fermati sulla carta, senza per altro che si dica come. C’è stato un prima e ci sarà un dopo, quello che è raccolto nel testo è una parentesi all’interno del quale il lettore di dibatte per capire.
Di primo impatto, da lettore, si vuole ricostruire la storia, chiaro. Allora si prova a mettere insieme i frammenti: un fratello morto e la causa della morte, la cecità del protagonista, un ambiente rurale di fatica e povertà. Di lì in poi altri frammenti che lasciano più dubbi che risposte: che fine ha fatto il terzo fratello? Cosa ha causato la cecità del protagonista? Le indagini sono ancora aperte? Ma sarà vero che il fratello è morto nel modo incui il protagonista racconta? La sorella, il padre, la donna del padre, qualcuno sa la verità?
A un quadro completo, di fatto non si arriva. Il lettore si trova a incespicare tra i frammenti che il narratore sparge, ma con il proseguire della lettura, si fanno largo i altri dubbi. Perché il narratore non racconta tutto quello che sa? Parrebbe proprio che lui sappia più di quanto riveli. E’ dunque anche il narratore reticente? Forse ha qualcosa da nascondere? Forse non conosce? E quando riporta le versioni degli altri riporta ciò che loro effettivamente hanno detto o ciò che lui comprende? E chi può dire se anche gli altri, ammesso che non stiano mentendo, stiano riportando un fatto e un’interpretazione o una ricostruzione plausibile? La lettera del terzo fratello esiste? Se esiste, preannuncia davvero il ritorno di questo con la corriera?
Forse allora non è questo che si deve cercare nel testo, non è la storia il centro. Forse il centro è rappresentato dalla frammentarietà con cui il protagonista si esprime, quando per esempio nomina gli oggetti: gli animali fanno questo verso, che si chiama così; la bicicletta fa questo rumore che si chiama così o così a seconda che sia in movimento o sia ferma; il vento si dice che fischi o gonfi o risalga a seconda delle situazioni. Un tentativo costante di conoscere e riconoscere il mondo attraverso quello che i neuroscienziati definiscono processo cognitivo: per conoscere una cosa devo poter dare un nome.
Il rumore della tendina nel vento viene chiamato uno stormire; può anche essere paragonato al sibilare del fuoco che si consuma in una stufa; se la tendina è di stoffa più solida, il suo rumore nel vento viene chiamato un garrire; questa espressione è usata anche per le bandiere. Il rumore della sabbia che il vento fa battere contro il vetro viene chiamato un crepitare; è possibile anche il paragone, con il fine picchiettio di una pioggia su un tetto di lamiera; un più intenso picchiettio della pioggia sul tetto di lamiera viene chiamato un tambureggiare.
E’ forse per questo che il protagonista non si rivolge agli altri personaggi per nome, ma secondo il loro rapporto di relazione familiare o sociale: il padre, il maniscalco, il lattaio. Essi hanno un nome, chiaramente, il lettore lo sa, ma essendo altro dal protagonista non possono essere conoscibili.
A fronte di questa alterità le spiegazioni del titolo che vorrebbero indicare ne I Calabroni i parenti pungenti e negativi paiono poco convincenti. Per altro, è opinione del lettore che i parenti siano negativi, con una sensibilità alla famiglia molto contemporanea e urbana, lontana dal giudizio del protagonista, che si lamenta del padre irascibile, ma va altresì in ansia davanti alla gentilezza della donna del padre, sostituta domestica di una madre morta.
No, i Calabroni sono i frammenti che si agitano nella testa del protagonista, questi pensieri ossessivi e pericolosi, che si addensano nel tentativo di comprendere il mondo creando solo ulteriore frastuono. Succede in fondo a tutti: esistono i fatti, le interpretazioni, le menzogne, le verità parziali, le opinioni. La realtà chiara, semplice e oggettiva è appannaggio di pochissime situazioni, il più delle volte ci si accontenta di una realtà parziale, plausibile, lacunosa.
Bisogna dire che l’Autore ha realizzato un capolavoro nel rendere così agevole la lettura di tanta complessità che anzi si deve quasi frenare lo scorrere delle parole, per non perdere qualche elemento sostanziale nel fluire leggero della scrittura.
Altrettanto si deve riconoscere una grande maestria nell’illusione creata che, a pensarci, non è proprio credibile che un contadino poco più che alfabetizzato possa esprimere come il protagonista.
O forse anche questa è l’ennesima dimostrazione che vuole dare l’Autore che la realtà non esiste come univoca, esiste come parziale conoscenza di un mondo a cui ciascuno si approccia e di cui conosce quello che può, per come lo vede o lo sente, più in metafora che in pratica.
Curioso è anche un altro fatto, se di fatto si può parlare, in questo magma interpretativo. Il libro venne pubblicato nel 1966. Di lì a poco compariranno i moniti dei Sartre e dei Marcuse: la società come struttura sociale o economica annulla l’individuo nell’omologazione, nei consumi, nel conformismo e la libertà dell’individuo sarà spazzata via dal pensiero forte della società di massa.
Handke va in direzione opposta: l’individuo è incapace di integrarsi, fa parte di una società perché ha in essa un ruolo, ma poiché non è in grado di comprendere la realtà ne è di fatto avulso, è egli stesso un frammento in un racconto di cui non si conosce la trama.
A decenni di distanza si può dire che i peggiori timori di entrambe le parti si sono realizzati: una società di massa, meglio di gregge, in cui come pecoroni si segue ciò che è ritenuto conoscibile, facile, in cui troppo spesso i calabroni che girano per la testa dei singoli vengono scambiati per realtà universale, ovvero per verità, senza neppur più avere il dubbio che ciò che si pensa possa essere solo una parte infinitamente piccola della realtà, magari anche sbagliata.
Non hai bisogno di mostrare che cammini su un sentiero polveroso. Non c’è bisogno che gli spettatori riconoscano la natura del sentiero. Basta che ti vedano camminare.
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