domenica 17 gennaio 2021

Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro


Titolo: Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro

Autore: Ivan Giménez 

Anno di pubblicazione:2017

Genere: saggio


A partire dalla Prima Rivoluzione Industriale, l’introduzione della tecnologia ha portato a profondi cambiamenti nella struttura del lavoro. Nella seconda metà del XX secolo, i robot si sono fatti largo nella produzione industriale, anche se si è dovuto attendere il nuovo millennio, con i progressi delle tecnologie digitali, per rendersi conto del loro reale potenziale di trasformazione.


Il tema, sarai d’accordo con me, è di pressante attualità che, se pur trascurato momentaneamente dai media, mai come ora sarebbe da affrontare, dal momento che la pandemia ha portato in evidenza una distinzione, già presente, dirai, tra mansioni che si possono svolgere da casa, in smart working, come si è imparato a dire, e lavori che vanno svolti in presenza.


Il futuro del lavoro e il lavoro del futuro è una breve e utile guida per fare chiarezza in questo complesso argomento. Come è buona pratica, l’Autore fa principiare la sua sintesi dalla Storia. 

Come la tecnologia incida sul mondo del lavoro è dibattito datato e ha avuto inizio con la cosiddetta Prima Rivoluzione Industriale, quando per la prima volta l’uomo potè produrre non più solo attraverso strumenti, ma attraverso macchine. 


Già all’epoca, per intenderci, il 1760, con l’introduzione della spoletta e della macchina a vapore, entusiasmo e timori trovarono i loro seguaci. Se da un lato l’introduzione delle macchine aveva prodotto inimmaginabili vantaggi, indubbiamente aveva provocato anche spiacevoli conseguenze, tra cui, nell’immediato, una brusca riduzione dell’occupazione. 

Lo stesso accadde in occasione della Seconda Rivoluzione Industriale, quando, nel 1870, comparvero la ferrovia e i primi sistemi di telecomunicazione globali, e nella Terza Rivoluzione, più vicina a noi, a metà del ‘900, con l’introduzione dei primi sistemi di automazione.


L’Autore riassume i passaggi di queste rivoluzioni ed è Suo pregio riuscire a unire sintesi e chiarezza di esposizione, senza per questo rinunciare alla completezza di informazione. 

Per quanto attiene alla rivoluzione che impensierisce, oppure no, i giorni nostri, l’Autore rappresenta due possibili scenari. Naturalmente, sia tu sia io abbiamo chiaro che stiamo parlando della Rivoluzione Digitale, ma come inserirla nel percorso storico? Come definirla? Le scuole di pensiero sono al momento due: la maggioranza degli Studiosi è propenso a definire l’avvento della tecnologia informatica come la Quarta Rivoluzione Industriale o Industria 4.0. Una prate minoritaria sarebbe più propensa a definirla come Prima Rivoluzione Digitale. Nel testo trovi indicati gli argomenti a favore di una o dell’altra visione, per cui potrai farTi una tua idea o di modificarla L’Autore assumerà, per le pagine successive, la definizione più condivisa, personalmente propendo per la seconda, ma il bello del pensiero è che ciascuno può costruirsene uno proprio.


Dagli inizi dell’industrializzazione, spesso le macchine sono state percepite come una minaccia per il lavoro dell’uomo. Oggi, il costante espandersi delle loro abilità ha dato maggior risonanza alle voci di chimere in guardi dai pericoli della disoccupazione tecnologica.


Successivamente, l’Autore presenta il dibattito, che segue tutte queste rivoluzioni, rimanendo per così dire costante nel tempo, vale a dire se la tecnologia influisca positivamente o negativamente sul lavoro. Anche in questa seconda perte del libro, l’Autore presenta con chiarezza e semplicità l’arcobaleno delle posizioni che, dai detrattori più accaniti conduce ai sostenitori più accesi.


E’ importante notare come, nel tempo, le posizioni, pur aggiornandosi, non siano state modificate e che anzi, alcune definizioni fondamentali, come disoccupazione tecnologica, coniata da Adam Smith, sia ancora oggi in uso per identificare la conseguenza in termini occupazionali dell’introduzione di innovazioni tecnologiche.


La necessità della sintesi non consente all’Autore di approfondire alcuni temi, sebbene abbia la correttezza di enunciarli. Ne cito alcuni: la sicurezza sul lavoro, che certamente l’automazione ha migliorato; la produzione più rapida ed economica, con conseguenze positive e negative; l’impatto di massa delle nuove tecnologie, anche questo con conseguenze poliedriche. 


Tema centrale, su cui l’Autore si sofferma, è l’impatto sull’occupazione delle nuove tecnologie. La tecnologia produce o erode posti di lavoro? La risposta è complessa e non univoca. Le innovazioni tecnologiche hanno sempre comportato, al loro inserimento nella produzione, una perdita massiccia di posti di lavoro; è però altrettanto vero che, negli anni successivi, ha portato un allargamento delle opportunità di lavoro, migliori salari, migliori condizioni. Questo dice la Storia, del breve e del lungo periodo, ma questa rivoluzione, quella che stiamo vivendo, quali conseguenze avrà? 


L’Autore non offre una risposta, ma molti scenari possibili, ipotesi, previsioni. Di sicuro a oggi si può dire che molti posti di lavoro siano andati persi nel manifatturiero, ma molti ne siano stati creati in altri settori, come nella cura della persona o nella logistica. Altrettanto di sicuro, si può dire che molte professioni siano una novità assoluta nell’economia, pensa per esempio agli influencer o agli esperti di marketing digitale o ancora alle mansioni della cosiddetta GIG economy, lavori spot di basso profilo professionale ma di ampia capacità di impiego, come gli addetti al delivery.


Insomma, la faccenda è complicata, ne converrai, e certamente né tu né io saremo degli esperti per aver letto questo piacevole saggio, ma forse avremo qualche strumento in più per capire questo mondo che cambia rapidissimamente.


Una considerazione è interessante, l’Autore dedica più passaggi, seppur con garbo. Una costante di tutte le rivoluzioni industriali è stata che le conseguenze peggiori sono state subite da coloro che avevano un grado di istruzione basso. Ancora oggi, a trar maggior vantaggi dei cambiamenti sono coloro i quali, per titolo di studio, sono in grado di essere protagonisti delle innovazioni o sono sufficientemente strutturati da potervisi riadattare. Questo vuol dire che chi oggi ha la responsabilità di prendere decisioni, per se stesso, ma soprattutto per altri, dovrebbe avere contezza che, oggi più che mai l’istruzione dovrebbe essere il centro delle preoccupazioni verso i giovani, naturalmente, ma anche verso tutti coloro che, nel mondo del lavoro, dovranno sperare di restarci per il futuro prossimo.


Non è questa un’indicazione dell’Autore, non apertamente quantomeno, ma se si investe del tempo per fare cultura, è da credere che possa essere un pensiero condiviso: l’unico modo per affrontare il cambiamento è non subirlo e l’unico strumento è lo studio. Lo si comprende leggendo un libro di storia, stampato o digitale che sia.


L’intelligenza artificiale sarà la migliore o la peggiore cosa mai successa all’umanità. (S.Hawking)


mercoledì 6 gennaio 2021

I Calabroni


Titolo: I Calabroni

Autore: Peter Handke

Anno di pubblicazione: 1966

Genere: Romanzo



Quella volta, disse mio fratello, io ero seduto davanti alla stufa e fissavo il fuoco.

Lui era arrivato sul poggio da dietro, prima dell’alba, mentre ancora pioveva; senza guardare, s’era introdotto nel campo attraverso il recinto di fil di ferro e il fil di ferro gli aveva graffiato il viso (…)



Che l’assegnazione del Premio Nobel a Handke non abbia ragioni politiche è dubbio presto fugato. Basti ricordare il suo sostegno alla causa serba, che culminò con il discorso in occasione del funerale di Slobodan Milošević, che già nel 1999 gli aveva fatto guadagnare il titolo di coglione internazionale dell’anno, affibbiatogli senza tante cerimonie da Salman Rushdie.


Se di Nobel si tratta, deve per forza essere per la letteratura per il suo lavoro influente che con abilità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell’esperienza umana.

Ora, ammetto che la motivazione pare tanto vaga quando tautologia: di che esperienza dovrebbe trattare la letteratura se non di quella umana? E paiono davvero poco esaustive anche le scarne righe dedicate da alcune sinossi a una presunta indagine della realtà. 


Che cosa sia la realtà è da secoli oggetto di diatribe filosofiche: non si sa. O per lo meno, si sa quale sia la realtà contestualmente a chi la indaga se è vero che nella realtà Platone scopre l’anima, Anselmo da Aosta trova Dio con un intrigante se lo penso esiste e i più recenti Berkleleyniani, con pragmatismo tutto anglosassone, sostengono che esiste solo ciò che si vede. Bisogna allora fare un passo indietro e cercare le motivazioni là dove si possono trovare, ovvero nel testo.


Ho definito I Calabroni un romanzo, perché la sensazione è di aver di fronte una storia, un intreccio, direbbero i critici, eppure fin dalla prima riga si intuisce che si è lontani dal rassicurante Era una notte buia e tempestosa


Punto numero uno: il testo è in prima persona. Molto strano per chi si occupa di realtà, perché il Realismo necessita di un narratore onnisciente che racconta in terza persona, perché sa ciò che il lettore e i personaggi non sanno. Se si tratta di realtà, ma è narrata in prima persona, non può che essere una lettura soggettiva e quindi parziale della realtà. Punto secondo: la suddivisione del testo non corrisponde a nessun ordine logico: non si tratta di lettere, non è una successione cronologica di fatti, non è un diario. Ogni capitolo è un frammento di pensieri del protagonista che sembrano casualmente fermati sulla carta, senza per altro che si dica come. C’è stato un prima e ci sarà un dopo, quello che è raccolto nel testo è una parentesi all’interno del quale il lettore di dibatte per capire.


Di primo impatto, da lettore, si vuole ricostruire la storia, chiaro. Allora si prova a mettere insieme i frammenti: un fratello morto e la causa della morte, la cecità del protagonista, un ambiente rurale di fatica e povertà. Di lì in poi altri frammenti che lasciano più dubbi che risposte: che fine ha fatto il terzo fratello? Cosa ha causato la cecità del protagonista? Le indagini sono ancora aperte? Ma sarà vero che il fratello è morto nel modo incui il protagonista racconta? La sorella, il padre, la donna del padre, qualcuno sa la verità? 


A un quadro completo, di fatto non si arriva. Il lettore si trova a incespicare tra i frammenti che il narratore sparge, ma con il proseguire della lettura, si fanno largo i altri dubbi. Perché il narratore non racconta tutto quello che sa? Parrebbe proprio che lui sappia più di quanto riveli. E’ dunque anche il narratore reticente? Forse ha qualcosa da nascondere? Forse non conosce? E quando riporta le versioni degli altri riporta ciò che loro effettivamente hanno detto o ciò che lui comprende? E chi può dire se anche gli altri, ammesso che non stiano mentendo, stiano riportando un fatto e un’interpretazione o una ricostruzione plausibile? La lettera del terzo fratello esiste? Se esiste, preannuncia davvero il ritorno di questo con la corriera? 


Forse allora non è questo che si deve cercare nel testo, non è la storia il centro. Forse il centro è rappresentato dalla frammentarietà con cui il protagonista si esprime, quando per esempio nomina gli oggetti: gli animali fanno questo verso, che si chiama così; la bicicletta fa questo rumore che si chiama così o così a seconda che sia in movimento o sia ferma; il vento si dice che fischi o gonfi o risalga a seconda delle situazioni. Un tentativo costante di conoscere e riconoscere il mondo attraverso quello che i neuroscienziati definiscono processo cognitivo: per conoscere una cosa devo poter dare un nome.


Il rumore della tendina nel vento viene chiamato uno stormire; può anche essere paragonato al sibilare del fuoco che si consuma in una stufa; se la tendina è di stoffa più solida, il suo rumore nel vento viene chiamato un garrire; questa espressione è usata anche per le bandiere. Il rumore della sabbia che il vento fa battere contro il vetro viene chiamato un crepitare; è possibile anche il paragone, con il fine picchiettio di una pioggia su un tetto di lamiera; un più intenso picchiettio della pioggia sul tetto di lamiera viene chiamato un tambureggiare.


E’ forse per questo che il protagonista non si rivolge agli altri personaggi per nome, ma secondo il loro rapporto di relazione familiare o sociale: il padre, il  maniscalco, il lattaio. Essi hanno un nome, chiaramente, il lettore lo sa, ma essendo altro dal protagonista non possono essere conoscibili.


A fronte di questa alterità le spiegazioni del titolo che vorrebbero indicare ne I Calabroni i parenti pungenti e negativi paiono poco convincenti. Per altro, è opinione del lettore che i parenti siano negativi, con una sensibilità alla famiglia molto contemporanea e urbana, lontana dal giudizio del protagonista, che si lamenta del padre irascibile, ma va altresì in ansia davanti alla gentilezza della donna del padre, sostituta domestica di una madre morta. 


No, i Calabroni sono i frammenti che si agitano nella testa del protagonista, questi pensieri ossessivi e pericolosi, che si addensano nel tentativo di comprendere il mondo creando solo ulteriore frastuono. Succede in fondo a tutti: esistono i fatti, le interpretazioni, le menzogne, le verità parziali, le opinioni. La realtà chiara, semplice e oggettiva è appannaggio di pochissime situazioni, il più delle volte ci si accontenta di una realtà parziale, plausibile, lacunosa.


Bisogna dire che l’Autore ha realizzato un capolavoro nel rendere così agevole la lettura di tanta complessità che anzi si deve quasi frenare lo scorrere delle parole, per non perdere qualche elemento sostanziale nel fluire leggero della scrittura.


Altrettanto si deve riconoscere una grande maestria nell’illusione creata che, a pensarci, non è proprio credibile che un contadino poco più che alfabetizzato possa esprimere come il protagonista.


O forse anche questa è l’ennesima dimostrazione che vuole dare l’Autore che la realtà non esiste come univoca, esiste come parziale conoscenza di un mondo a cui ciascuno si approccia e di cui conosce quello che può, per come lo vede o lo sente, più in metafora che in pratica.


Curioso è anche un altro fatto, se di fatto si può parlare, in questo magma interpretativo. Il libro venne pubblicato nel 1966. Di lì a poco compariranno i moniti dei Sartre e dei Marcuse: la società come struttura sociale o economica annulla l’individuo nell’omologazione, nei consumi, nel conformismo e la libertà dell’individuo sarà spazzata via dal pensiero forte della società di massa.


Handke va in direzione opposta: l’individuo è incapace di integrarsi, fa parte di una società perché ha in essa un ruolo, ma poiché non è in grado di comprendere la realtà ne è di fatto avulso, è egli stesso un frammento in un racconto di cui non si conosce la trama.

A decenni di distanza si può dire che i peggiori timori di entrambe le parti si sono realizzati: una società di massa, meglio di gregge, in cui come pecoroni si segue ciò che è ritenuto conoscibile, facile, in cui troppo spesso i calabroni che girano per la testa dei singoli vengono scambiati per realtà universale, ovvero per verità, senza neppur più avere il dubbio che ciò che si pensa possa essere solo una parte infinitamente piccola della realtà, magari anche sbagliata. 



Non hai bisogno di mostrare che cammini su un sentiero polveroso. Non c’è bisogno che gli spettatori riconoscano la natura del sentiero. Basta che ti vedano camminare.

mercoledì 24 giugno 2020

Il Trionfo della Borghesia 1848 - 1875


Titolo: Il Trionfo della Borghesia
Anno di pubblicazione: 1975
Genere: saggio


(…) V’era quindicina differenza fondamentale tra il movimento per la fondazione di stati - nazione e il nazionalismo. L’uno era un programma di costruzione di un manufatto politico che pretendeva di bassi sull’altro. Indubbiamente molliche si ritenevano a questo o a quel fine “tedeschi” non credevano che ciò implicasse un solo Stato tedesco, uno Stato tedesco di unito specifico, non diciamo poi uno comprendente tutti i tedeschi (…) 


Che nell’epoca dell’iper-soggettivismo lo studio della Storia sia bistrattato non stupisce. Stupisce di più che contestualmente i lillipuziani del sapere tentino di nobilitare le proprie gesta attingendo proprio dalla Storia. Tutto un fiorire di cittadini, giacobini, stati generali, nazionalisti. Che poi, se questi nani avessero l’intelligenza di aprire, non dico un libro, ma wikipedia, prima di attribuire a se stessi certi appellativi, forse si renderebbero conto che, quasi tute queste citazioni, più che a illustri paragoni, assomigliano a infelici profezie. 

E pensare che la Storia è una materia accessibile anche ai non addetti ai lavori! Come dice il Prof. Barbero, storico con passione per la divlgazione: “Ho sentito molti chimici o fisici appassionati di storia, non ho mai sentito di storici appassionati di chimica o fisica”. La Storia è per tutti, basta trovare i libri giusti.

Fu il trionfo di una società convinta che lo sviluppo economico poggiasse sull’intraprendenza privata concorrenziale, sul successo nel comprare ogni cosa (compresa la forza - lavoro) sul mercato meno caro e nel venderla sul più caro. 

Il testo di Hobsbawm presenta una serie di caratteristiche che lo rendono nello tesso tempo attendibile e fruibile. L’attendibilità è data dall’Autore, storico inglese, divenuto famoso per aver teorizzato il concetto di secolo breve, ovvero una lettura del ‘900 come un secolo iniziato nel 1914, con il la Prima Guerra Mondiale, e chiuso nel 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica.

L’attendibilità delle fonti è data della lunghissima bibliografia, dalle numerose note, dai rimandi ad altri Autori, che il lettore può approfondire e verificare, se lo desidera, ma che può anche saltare, senza perdere nulla del contenuto.

La fruibilità è data dall’impostazione del testo. Il saggio si concentra su un periodo molto preciso che viene analizzato da diversi punti di vista, ciascuno dei quali è esposto in un capitolo. Questo consente al lettore di affrontare agevolmente la lettura e man mano di approfondire alcuni aspetti: politica, economia, società, religione.
Il secondo pregio è la scrittura di Hobsbawm che, da buon inglese, privilegia il pragmatismo all’eleganza, scegliendo una scrittura asciutta, organizzata e semplice. La lettura scorre via senza fatica, alleggerita, di tanto in tanto, da qualche commento ironico o da qualche aneddoto esplicativo. 

Le 400 pagine del volume potrebbero spaventare il potenziale lettore, ma la ricchezza del contenuto compensa. Per esempio: si sente tanto parlare di sovranismo, termine usato a sproposito in sostituzione dello sfortunato nazionalismo. Il concetto di nazione può sembrare intuitivo, ma se si segue l’analisi di Hobsbawm si possono avere degli interessanti spunti su come si possa definire una nazione e su come si sia evoluto il dibattito sul nazionalismo.

Altro argomento interessante è la definizione di borghese, poco familiare alla mia generazione, ma molto noto alla generazione dei miei genitori, sovente inteso ai giorni nostri come classe media. Anche su questo tema l’Autore offre una panoramica molto ampia: la consapevolezza di questo nuovo ceto di se stessa, il desiderio di esprimere la propria appartenenza, la costruzione di una nuova etica, l’esaltazione del successo economico come successo e grazia personale.

Temi cari alle nostre cronache sono anche il razzismo e le migrazioni, già presenti all’epoca, come in altre epoche passate, e può far sobbalzare la similitudine di molti ragionamenti ottocenteschi all’attualità, se non che cambiano i soggetti e le vittime. Le zone utile per chi volesse capire.

Anche il rapporto scienza - tecnologia trova ampio spazio del testo, dal momento che l'800 fu periodo di innovazioni straordinarie: la ferrovia e il telegrafo le più dirompenti, ma nel complesso fu un periodo di sviluppo inimmaginabile. Eppure, la speranza, coltivata da alcuni umanisti, che il progresso tecnico comportasse un progresso sociale veniva puntualmente smentita. 

Allo stesso modo, non è da credere che l’entusiasmo per le nuove scoperte comportasse un maggior desiderio di istruzione. Lo studio era affare di pochi, chiusi nelle accademie e nei laboratori, speranzosi di fare una scoperta vendibile, se dediti alle materie scientifiche, o di contrarre matrimoni vantaggiosi, se dediti alle materie umanistiche. I borghesi, che pure avevano accumulato grandi fortune, non avevano nessun particolare desiderio di miglioramento culturale, convinti com’erano, nella larga maggioranza, che essere avveduti fosse più vantaggioso che essere colti.

Molti altri temi potrebbero toccare la sensibilità del lettore: il dibattito sulla democrazia, la ricerca di una definizione di Europa, la nascita di movimenti egualitaristi, la morale sessuale, il ruolo della religione e delle Chiese, la nuova mania del collezionismo, lo sviluppo di nuove realtà fuori dell’Europa e molto altro.

Al riparo di un baluardo di vestiti, pareti e oggetti, domestici, sorgeva la famiglia borghese, l’istituzione più misteriosa dell’epoca. Se è facile - come attesta un’ampia letteratura - scoprire o immaginare dei nessi fra puritamesimo e capitalismo, quelli tra struttura familiare ottocentesca e società borghese rimangono infatti oscuri.

Lo studio della Storia aiuta a comprendere che certi fenomeni si sono già verificati in altri tempi e se da un lato questo aiuta a mettere nella giusta prospettiva il loro peso, relativizzandolo, dall’altro offrirebbe la possibilità di capire cosa sia stato fatto in passato e quali siano stati gli esiti; non si tratta solo di imparare del passato e dal passato, ma aver il buon gusto di sbagliare con un po’ di fantasia.  Il Trionfo della Borghesia è un assaggio delle meraviglie che si possono conoscere del mondo, nel passato e nel presente, sollecita la curiosità del lettore e lascia aperti molti interrogativi, come è giusto che sia se si legge un buon saggio. 

Nell’epoca dell’iper-soggettivismo, in cui molte persone, a detta del Censis, non sanno distinguere da fatto e opinione, un ripasso di Storia può essere utile, anche solo per evitare che l’Hobsbawm del prossimo secolo scriva di noi come del Trionfo dell’Ignoranza.

sabato 12 gennaio 2019

Il Giorno del Giudizio

Titolo: Il Giorno del Giudizio
Autore: Salvatore Satta
Anno di pubblicazione:1977
Genere: romanzo

C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici perché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci siano che ti raccolga, ti risusciti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale.

La puoi quasi vedere, Nuoro, incastonata sulla montagna, fissa, uguale a se stessa da tempo immemore. Immobile, come se la Storia si fosse dimenticata di lei, nemmeno pare avere un genesi, che la storia, scrive Satta, si perde tra i si dice ovvero nelle tradizioni, nei racconti, nei diari. Ma se una città non ha un passato, difficile è immaginarne un presente, quasi impossibile un futuro. Non per nulla i nuoresi esistono e non esistono sembra dire Satta, perché esistono come categorie: ci sono i contadini, i pastori e gli altri, il maestro, il farmacista, i preti, gli avvocati. Non ci sono le persone, le persone, sono esistenze sancite dalla carta bollata di uno Stato, che anche questo forse non esiste, lontano, oltre un mare mai visto: nato e morto.

Parole di preghiera o d’ira sibilano tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita,vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno della loro memoria.

Il compito che si affida Satta è proprio richiamare dalle tombe questi spettri e tentare di restituire loro un’esistenza, un’essenza, nel senso proprio di recuperare una consistenza in questo scorrere senza moto del tempo.
Il mondo, il resto del mondo, che non si conosce, che sta oltre la discesa del cimitero, oltre i trenta chilometri che vanno alla spiaggia, il mondo cambia, ma non Nuoro. Arrivano le macchine a vapore, l’illuminazione artificiale, la guerra, come detriti sputati dalle onde sulla battigia e come scarti dunque trattati dai questi nuoresi che vivono ogni mutamento con l’ostilità caparbia che non ha nemmeno consapevolezza di sé, perché così si trattano le cose del mondo.
Eppure Satta richiama alla vita Don Sebastiano, Donna Vincenza, Pietro Ciatte, Giggia e affibbia loro dei pensieri, li costringere a vestire le proprie vite e ad affrontare, in un postumo essere se stessi, il giorno del giudizio.
La narrazione recupera questi personaggi, offre loro un contesto, la casa, il lavoro, i figli, le campagne, il vino. Ecco: adesso i personaggi hanno una loro vita e in qualche modo l’obbligo di viverla. L’Autore offre ai Suoi personaggi dei pensieri, delle scelte, dei sentimenti. Ed essi, come spettri, compaiono al lettore, nella diafana immobilità di una città popolata di generazioni che si avvicendano.


La verità che Don Sebastiano non voleva confessare era che la famiglia alla quale aveva dato tutto se stesso gli era rimasta estranea. Chi lavora come egli aveva lavorato  ha diritto di essere amato, ma non ha tempo per amare.

L’autore sembra voler liberare i suoi personaggi: ecco nel romanzo, nella finzione, questi possono essere vividi, non vivi, ma vividi con una personalità che non hanno mai saputo di avere.
Che i nuoresi non siano stati contenti della pubblicazione del romanzo non stupisce, ma ciò che Stata esprime ha Nuoro per contesto, ma è la scusa di chi, non essendo uno scrittore di mestiere, tratta di realtà che conosce. Il romanzo avrebbe potuto essere ambientato in altre mille città italiane, on cui l’immobilismo è stato ed è l’unica cultura condivisa. Poveri, ma di una povertà nota. Una resistenza al cambiamento divenuta mentalità che genera e riproduce e poi fa scomparire generazioni di ignoti. 
Bisogna essere grati ai Satta che soffiano la polvere dalle lapidi e con un dito tracciano nell’aria le sagome di questi esseri a somma zero. Bisogna essere grati alla Famiglia Satta che, ritrovando questo scritto tra le carte del congiunto, le ha presentate al mondo. Satta non le aveva mai pubblicate.Lui, d’altronde, non era uno scrittore, era un giurista e aveva già provato a cambiare il mondo, Suo e dei Suo contemporanei, attraverso la Legge. E pazienza se il Suo non essere uno scrittore trapela, in qualche ingenuità che una penna consumata avrebbe ammantato di iperboli. La precisione è dei professionisti, non aggiunge nulla alla bellezza, tantomeno toglie al talento.
Il Giorno del Giudizio è un romanzo di onesta e crudele bellezza. La bontà è dell’Autore che regala una storia a chi non ha avuto una vita. Non è verità storica, non è fantasia letteraria. L’inquietudine è tuta qui: nella veridicità della paralisi nel verosimile dell’esistenza.

domenica 13 agosto 2017

Chi ha paura muore ogni giorno

Titolo: Chi ha paura muore ogni giorno
Autore: Giuseppe Ayala
Anno di pubblicazione: 2008
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

L’organizzazione si infiltra, sfrutta, regola scelte politiche, amministrative ed economiche. Perché cambiare e sopportare il costo della ricerca di nuovi canali di “permeabilità”?
A “Cosa Nostra” è sufficiente disporre di propri uomini nelle istituzioni, nella politica, nell’amministrazione e nell’economia. Meglio che ul sistema rimanga com’è.
Questa e non altro, Signori della Corte, è la Mafia.

Il titolo riprende una citazione di Paolo Borsellino, il Quale, all’oziosa domanda se avesse timore di essere assassinato, in più di un’occasione diede questa risposta. Di mafia si muore: i recenti fatti di Foggia riportano alla ribalta l’evidenza. 
Lessi questo libro un paio di mesi addietro, ma non lo recensii, perché ero molto combattuta tra il giudizio critico e il giudizio etico. Mi sono risolta a scriverne a seguito dell’ennesima strage, degli ennesimi commenti banali, del rispettoso silenzio per le vittime, che già confonde le parti. Opto per la chiarezza: il libro, come prodotto letterario non è un capolavoro. Tre, a mio avviso, sono gravi pecche dell’Autore: una ricercatezza stilistica di cui non è all’altezza; l’incapacità di creare un parallelo tra Storia e narrazione, che crea vacanze concettuali; un fastidioso rimescolamento tra vita pubblica e vita privata, che inficia, peraltro, l’empatia con l’Autore.
Nonostante tutto, il libro ha un forte impatto, non tanto nell’emotività, come credo fosse nell’intenzione dell’Autore, ma nella resa dei personaggi coinvolti, nelle sfumature che rendono indefinite gli schieramenti dei buoni e dei cattivi. 
Ayala espone la Sua esperienza che necessita, nell’agire con perizia, prudenza e coscienza, della capacità di districarsi in una rete di comportamenti multiformi. Ci sono gli assassini e questi sono i colpevoli, sono i cattivi, facile. Ci sono i mandanti, e questi sono cattivi, facile. Ci sono le vittime e qui la faccenda già si complica, tra vittime afferenti, a varo livello, alle famiglie mafiose, e vittime innocenti, morte per una contingenza, e vittime preannunciate, bersagli in quanto nemici. 
Poi, la parte più difficile, sia dal punto di vista della giurisprudenza, sia dal punto di vista morale: la zona grigia. E’ questa un’immensa distesa di umanità, che non è propriamente cattiva, ma non è neanche propriamente buona. Ayala presenta molte circostanze in cui questi grigiore umano prende forma e nome. Per esempio, i membri del CSM che diedero un voto negativo alla nomina di Falcone come sostituto di Caponnetto. L’Autore riporta le motivazioni addotte, sia da chi aveva perorato Falcone, sia di chi lo aveva scartato. Facile capire i buoni, meno facile capire i cattivi.
Altro esempio è rappresentato dal rapporto con i cosiddetti pentiti, che di rado sono pentiti delle proprie azioni nel senso morale del termine, ma, più banalmente, sfruttano il sistema per trarne benefici o vantaggi. Che le informazioni dei pentiti siano utili è indubbio, ma capire in quale squadra giochino questi soggetti, non è semplice.
E ancora peggio per quanto riguarda molti degli esponenti del mondo politico, della Chiesa, dei diversi ordini professionali, del panorama culturale! Dolo, negligenza, malafede, errore: in quale schieramento? Non è speculazione, è bisogno di verità.
Infine ci sono gli altri, i cittadini, la cosiddetta società civile, i singoli. E qui ci si perde nelle paure, nelle connivenze, nei piccoli meschini privilegi, nella mentalità assoggettata al potere, di qualunque colore sia. 
La citazione di Borsellino ha un corollario: chi vive nella paura è già morto. iI problema è che finché  questo  morto trascina la propria pelle in giro, scrivo io, può ancora nuocere: può ancora voltarsi dall’altra parte, può ancora sapere e non denunciare, può ancora trarre un miserabile vantaggio.
Ayala fa riferimento a un orrendo sospetto derivato dalla Sua mancata uccisione, come se il fatto di non essere stato ammazzato dalla mafia lo rendesse più esposto alle critiche, come se fosse necessario diventare un martire per essere riconosciuto dalla parte dei buoni, dimenticando che basta uno scivolone provocatorio come questo a far passare dalla parte dei cattivi.
Questo credo sia l’aspetto più rilevante del testo di Ayala: l’aver reso così chiaro che se la guerra tra Stato e Mafia è fatta da due squadre ben definite, i giocatori, troppo sovente, cambiano maglia. 

Ayala non chiude con ottimismo: la Sua veemenza si spegna nell’amarezza e nel dubbio che la partita possa essere vinta dallo Stato, non perché lo Stato non possa vincere, ma perché anche lo Stato sovente cambia squadra, perché i magistrati, i giornalisti, noi, ciascuno di noi, può cambiare squadra. Di mafia si muore, questo è certo. Il dubbio è: ogni giorno?

sabato 13 maggio 2017

Le parole sono pietre

Titolo: Le parole sono pietre
Autore: Carlo Levi
Anno di pubblicazione: 1955
Genere: saggio
Recensione di: Chiara Bortolin



Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime, ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d'improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata è la Giustizia.

Che la mafia esista, oggi, è una verità condivisa, almeno nella sua lapidaria sintassi. La mafia esiste. Che cosa sia la mafia è ancora motivo di interessate speculazioni o di codardi dinieghi. Serviva però una penna presa in prestito dalla pittura perché la parola mafia potesse avere la dura e straordinaria sintesi della poesia. 
Le parole sono pietre. il titolo è in sé già emblematico. Nella sua semplicità raccoglie tutte le verità che nei racconti, nonché nella prefazione, sono contenute. Le parole che sono state spese per nascondere verità evidenti, per raccontare menzogne o peggio, per dire e non dire, per seppellire nelle sfumature nelle sfumature di significati adamantini. Ma le parole, diverse, eppure uguali, sono le stesse usate per sussurrare le cristalline e coraggiose verità, per lasciare intendere nelle frasi sospese o per gridare a gran voce che la mafia esiste. Le parole così effimere eppure così pesanti, così vuote di significato nel luogo comune eppure così drammatiche nel significato individuale.
Poi, le pietre. Che a pensarci, una pietra è proprio un nulla, un oggetto comune, senza alcun fascino, che per avere un qualche significato deve metterci mano l’uomo. Ci vuole un Michelangelo per fare di una pietra bianchiccia un Mosè! Ci va un muratore per fare di una pietruccia grigia una casa. E senza un gemmologia un diamante non sarebbe che un sassolino da gettare nel lago per vederne i cerchi in superficie.
Ma se queste pietre vengono prese e gettate addosso, ecco questo nulla diventa un’arma e così le parole.
Se prese queste parole e gettate come pietre diventano una lapide su cui altre parole offendono o esaltano la verità.
Ci vuole un poeta per vedere la bellezza della verità nella durezza delle parole scagliate in faccia a chi con le parole ci mangia. Le pietre che descrive Levi sono la miseria dei contadini siciliani, traditi da una Riforma più decantata che realizzata; la sfrontatezza di un feudalesimo che del casato mantiene sono il titolo, quasi sempre privo di nobiltà; ma anche il dolore di chi, per una parola che esiste, con un significato negato, di mafia muore.
La mafia esiste e già all’epoca Levi ne aveva intuito  le genesi antica, le ragioni attuali e le dinamiche complesse. Levi ha tanti meriti, come pittore e come scrittore, ma tra tanti, con questi scritti, spicca l’aver levigato le parole per rendere pietre miliari della verità.

Le parole sono pietre. Se il concetto non fosse chiaro, se qualcuno avesse ancora voglia di fare cumuli di se e di ma, di seppellire le verità scomode sotto macigni di retorica, legga le parole di che sono nomi, che sono storie, che sono lapidi.

sabato 11 marzo 2017

Una Stagione all'Inferno

Titolo: Una Stagione all’Inferno
Autore: Arthur Rimbaud
Genere: Poesia
Anno di pubblicazione: 1873
Recensione di: Chiara Bortolin


A volte parlava, con una sorta di strano dialetto addolcito, della morte che fa pentire, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano attorno bestie da miseria. Rialzava gli ubriachi nei vicoli bui. Aveva la pietà di una  cattiva madre per i bimbi piccoli. - Andava  in giro con la grazia di una fanciullina al catechismo. - Si fingeva esperto di tutto, commercio, arte, medicina. - Io lo seguivo. dovevo!


Se tu mi chiedessi cosa sia la poesia, io ti risponderei recitandoti questo passo. Come diceva Hausman, non so cosa sia la poesia, ma quando la riconosco quando la sento. 
Non ci sono rime, va bene. Non ci sono i tipici a capo, i versi, pazienza. Non c’è una metrica. Eppure io ti dico che questa, mia caro, è poesia e della migliore qualità.
Lo so che sui manuali di letteratura sono scritte pagine e pagine di critica in cui ti spiegano che la poesia è fatta così e cos e che ci sono delle regole che indicano cosa sia la poesia e sono tutte affermazioni vere, innegabili. Ma sono limitate, come vedere un panorama da un binocolo, ne vedi solo un dettaglio.
La poesia è una faccenda complessa: c’è la tecnica, c’è l’uso maniacale delle parole e della loro disposizione, ma tutto questo è lo strumento tramite cui il poeta trasmette il concetto. Non si fa poesia solo con le parole. Si può scrivere un romanzo che non ha un significato, si può scrivere una storia coerente, che non vuol dire niente, ma non si può fare poesia senza un concetto.
Come un poeta arrivi a elaborare un concetto è un processo lungo, fatto di esperienza, di coscienza, di talento, di interiorizzazione. Il poeta vive in una dimensione altra, profonda come l’anima, leggera come l’esistenza. Per questo non si sceglie di fare il poeta, lo si è o non lo si è. Il poeta vive la poesia e poi, se è anche generoso, la restituisce in un brano come questo con cui ti regala la bellezza sublimata e rarefatta delle parole.
Prendi Rimbaud, prendi questo passo. Dimmi che non hai mai pensato, almeno una volta, con struggimento, al pentimento sul letto di morte, al momento in cui un uomo rende l’anima alla polvere e realizza di aver sprecato la possibilità di, che so, porre rimedio a un danno, chiedere scusa, dire a una persona cara ti voglio bene.
Dimmi che non hai mai pensato a chi per campare fa lavori orribili, che straziano il copro, che ottundono il cervello, che abbruttiscono il carattere, che svuotano la coscienza o che sottraggono un padre all’amore dei figli.
Dimmi che non hai mai avuto compassione per un bimbo maltrattato dalla madre o che non hai guardato con insospettata dolcezza una ragazzina che cammina leggere con un libro in mano e l’innocenza nel cuore.
Dimmi che non ti sei fatto incantare da una persona che veramente conosce gli uomini e non ti sei fatto strappare confidenze come se fossi una margherita in mano a un bambino.
Dimmi che non hai saputo provare pietà per un infelice. 
Anzi, non dirmi nulla di tutto questo, perché se davvero non hai mai pensato a una di queste situazioni, temo di doverti dire,amico mio, che l’ultimo dei tuoi problemi è capire cosa sia la poesia. 

Se invece, come spero, hai avuto uno di questi pensieri, anche solo come un fugace moto dell’anima, allora puoi capire cosa sia la poesia, puoi leggere Rimbaud e soprattuto puoi essergli grato perché è riuscito a dire in modo meraviglioso ciò che tu hai solo potuto intuire in un guizzo di umanità.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero