Autore: Erich Maria Remarque
Prima Edizione: 1929
Genere: Romanzo
Per tutti coloro che, come me, non sanno cosa sia la guerra
Quando
ero ragazzina, mentre il nonno riordinava la libreria mi faceva l’elenco dei
classici che si devono leggere. Da adolescente, se i vecchi ti
consigliano una lettura è garantito che la rifiuterai. Con una spocchia
pseudointelletttuale vogliono forgiare la
mia mente, ma io non lo permetterò, ti costruisci la tua libreria in cui ti
muovi con la disinvoltura di un somaro in smoking.
Su questa
dinamica, concordo con Massimo Cacciari: se volessimo far leggere gli
adolescenti, dovremmo renderle la letteratura illegale!
Ne ho
sentito parlare in seguito da amici politicamente impegnati, quelli, per
intenderci, che si autodefiniscono di controcultura, contro poi cosa, eviti di
chiederlo. il manifesto dell’anitimilitarismo, il manifesto del pacifismo. Siccome
a me tutti gli –ismi danno un senso di miasma da concetto
disintegrato, l’ho sempre lasciato da parte.
A casa
però ci è arrivato: era in offerta al supermercato, l’adesivo del prezzo scontato
ancora ne deturpa il retro. L’ho comprato e l’ho messo lì, tra i libri da
leggere, la seconda pila però, quelli che mi regalano, quelli che mi
consigliano, quelli che so già che difficilmente leggerò.
Niente di nuovo sul fronte occidentale è un
romanzo sulla Prima Guerra Mondiale. Se sei passato da Addio alle armi
e dal Voyage hai già letto tutto! Un
romanzo autobiografico per di più: come se le storie personali potessero
assurgere a rilevanza storica! Un romanzo di guerra: ci sono più conflitti che
libri sui conflitti e più libri di guerra che guerre di cui tu sia a conoscenza!
Una sera
però, mi cade in mano, mentre sto combattendo con volumi ribelli che palesano
la mia sindrome da accumulo. Lo sfoglio con superficialità e leggo a caso.
Un tempo
ci sedevamo qui, chissà da quanto: da questo ponte si respirava l’odore di
fresco e un po’ di putrido dell’acqua ingorgata: ci si chinava sopra la
corrente…
Non è
male. Torno all’incipit. Lo leggo, in piedi davanti alla libreria. Quando sento
il formicolio ai piedi, mi siedo sul divano e continuo a leggere.
Adesso
sono convinta, adesso lo dico anch’io: questo libro è da leggere.
Questo
libro è da leggere perché la nostra generazione di guerra non sa niente. La
guerra ci confonde: non sappiamo neppure dove siano finiti sessanta milioni di
concittadini che sostenevano il Regime; non siamo in grado di capire perché per
noi la Prima Guerra Mondiale è del ’15-’18, mentre per il resto del mondo è
iniziata un anno prima; non sappiamo capacitarci di come noi ogni guerra alla
fine la vinciamo, anche se perdiamo.
Il punto
è che noi di guerra non sappiamo niente, a differenza di chi l’ha vissuta e per
cui era tutto ciò che non capiva a discapito della propria esistenza. Non lo
sappiamo perché non ci appartiene, culturalmente è una fotografia in bianco e nero
persa nel cassetto dei ricordi di famiglia.
Mi dirai
che anche oggi ci sono guerre in ogni parte del mondo, che alcuni nostri
coetanei sono impegnati in missioni di pace, che ogni sera i
telegiornali, mentre giri gli spaghetti nel piatto, ti informano sull’ultima battaglia.
E tu, che hai una profonda coscienza civile, ti fermi un momento a guardare la
duna da cui sbuca la colonna di miliziani, il posto di blocco vicino al fiume
gelato, il giornalista che commenta, mentre torni agli spaghetti.
Neanche Paul Bäumer,
il protagonista del romanzo, che sul fronte ci va, sapeva niente di guerra. Si
arruola con tutti i suoi compagni di classe, con l’entusiasmo dei giovani, con
lo spirito tracotante dell’eroe in nuce, che ha però prodotto una
miriade di metri cubi di carne macellata.
Mentre
essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i
moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza del servire lo Stato, noi
sapevamo già che il terrore della morte è più forte.
Noi di
guerra non possiamo saperne nulla, anche perché non è cosa da poter essere
insegnata. Qualcosa in più forse sappiamo delle promesse mancate. Ma nessuno di
noi ha avuto il dispiacere di incontrare se stesso un attimo prima di diventare
un cadavere, giocando a dadi con la morte, nessuno di noi può sapere quanto in
basso può arrivare per non lasciare la pelle nel fango.
Questo
libro non è un classico in assoluto, ma è un classico del futuro, dal
momento in cui è stato scritto in avanti; non è neppure un manifesto
dell’antimilitarismo, che l’autore esprime in altri scritti; non è un elogio del
pacifismo, perché traduce all’incredulo la logica dell’assassinio senza
ragione.
Questo
libro non vuole essere né un atto di accusa, né una confessione. Esso non è che
un tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se è sfuggita alla
morte – venne distrutta dalla guerra.
Questo
libro è un inno alla vita, con l’augurio di un’ignoranza sapiente.