Autore: Luigi Pirandello
Titolo: Novelle
Genere: Racconti brevi
Recensione di: Chiara Bortolin
Capita,
talvolta, di leggere un racconto attraversato da una scheggia di luce.
Può essere una riflessione, un concetto magari semplice, a cui non avevi mai pensato o a cui ti è occorso di pensare, senza però riuscire a esprimerlo.
Capita, più di rado, che il concetto sia anche espresso da una narrazione perfetta, in cui le parole tracciano una chioma luminosa di bellezza.
Quando questo accade, una sensazione di immeritata fortuna e soddisfazione ti pervade, come quando trovi per strada una moneta improvvisa.
Il libretto rosso di Luigi Pirandello è una di queste fortune, forse non abbastanza visibile nel cielo stellato della sua immensa produzione letteraria, che però è da indicare e ricordare, come una Stella Polare sui generis che può orientare il pensiero in direzione della terra.
Procediamo con ordine.
Il concetto
è da subito chiaro, perché Pirandello è uno scrittore di precisione. Il
racconto si apre con la descrizione rude, grottesca direbbe l’autore, del paese
in cui si svolgono i fatti.
Nisia. Grosso borgo affaccendato, su una striscia di spiaggia del mare africano.
Nascere in mal punto non è prerogativa soltanto degli uomini.
Capisci immediatamente: la faccenda non avrà un lieto fine. Ma intuisci anche che questo indugiare sui particolari non è casuale, perché non rappresenta una panoramica dell’ambiente in sé, ma la mappatura dell’animo umano. La descrizione corona il concetto, quello semplice, lampante e incisivo di cui scrivevo prima:
Molta
indulgenza bisogna avere per gli abitanti di Nisia, perché non è molto facile
essere onesti quando si sta male.
In due
righe, con ovvia e rassegnata serenità, l’autore identifica come teatro di posa
le millenarie filosofie del bene in sé, dell’amore discendente e
dell’opposizione al male; ma poiché il
racconto potrebbe lasciare una sensazione fuorviante, Pirandello da ultimo, con
discrezione, in un inciso, riassume tutto: sorride tra le lagrime.
Tutto ciò
attraverso la narrazione, che ha fatto scuola, che cercano di insegnarti nelle
scuole: introduzione, svolgimento e conclusione.
Solo che
quando lo fai tu, seduto al banco davanti alla lavagna, questi tre blocchi
assumono quella forma rigida e peculiare di ogni metodo. Hanno un bel da dirti
gli insegnanti il testo deve scorrere via, non può saltare così! Un
avverbio, un aggettivo, un’interiezione deve proprio esserci. Le frasi devono
susseguirsi!
E’ frustrante, oltre che inutile, come ammaestrare il gatto ad abbaiare! Ci sarà un motivo se Luigi è un gigante della Letteratura, mentre tu te la cavi con un sei che ghigna al sette!
No, non lo risolvi con un sermone alla prima ora di italiano. La verità è che affinché tutto fili via liscio, come una melodia, come un Per Elisa, non ti basta il metodo. Devi possedere altro, oltre al concetto chiaro in testa e le parole nitide già dentro la penna. Ci vuole il genio, o almeno un raffinato talento truffaldino.
Ci vuole
poesia. La poesia turpe dell’animo umano, quella che porta alla pietà, là dove
altri definiscono solo un disprezzato interesse meschino.
La pietà,
che non è propriamente quella forma di pubblica compassione riservata ai questuanti,
di grazia, non quella! Ma la pietas latina, che permette a un
poeta di vestire con bellezza la miseria, così da renderla tollerabile,
conosciuta e addirittura comprensibile. Perché l’orrore in sé non lo sarebbe e
ti troveresti a voltare lo sguardo verso la vetrina successiva di Yve Saint
Laurent: Ci vuole un Pirandello che renda giustizia con la sua meditata
tenerezza.
Il porcello
lo sa, che ha avuto bisogno di latte anche lui, e n’ha avuto, oh! ne ha avuto
tanto, perché la mamma sua, benché porca, notte e giorno gliene diede con tutto
il cuore, finché ne volle.
Per
Pirandello, persino la scrofa afferra che il suo porcellino deve essere
nutrito, la scrofa, detta anche porca, che noi escludiamo dagli esempi di amore
materno, la scrofa si prende cura del suo porcellino.
Le galline
sono tanto stupide che covano anche le uova fetali da altre, e quando da queste
uova non loro nascono i pulcini, normanno distinguerli da quelli nati dalle
uova loro e li amano e li allevano con la stessa cura.
Le galline,
proprio quelle che per antonomasia rendiamo metafora di inettitudine. Anche le
galline sono in grado di allevare i propri pulcini.
La
protagonista del racconto è una madre che ama unicamente la sua figlia
biologica, diremo noi oggi, e non il bambino che ha adottato, per denaro. Non è
che non provi un briciolo di angoscia, un tentennamento, un dubbio. Ma non è
abbastanza e l’amore per la figlia diventa colpa verso un figlio di nessuno.
Eppure non è soltanto lei a essere colpevole, ma anche la ragazza e il suo fidanzato, il Maltese e il paese intero: tutto quel luogo degradato in cui vivono è colpevole.
A nessuno importa di un bambino dai vincoli familiari e sociali così allentanti, nonostante la Legge, a causa alla Legge. Morirà di fame, il bambino, di quella fame sconosciuta ai porcellini e ai pulcini che, per grazia di un bestiale senso materno, vengono accuditi.
Non c’è rancore nelle parole di Pirandello, ma questo lo intuisci già dall’inizio, anche se non gli è proprio possibile tacere la sua indulgente ironia:
Se vogliono respirare, debbono andare lassù; ci vanno da morti, e si figurano che, morti, respireranno.
È una bella
consolazione.
Sì, è una
bella consolazione che per mille atrocità piccole o per cento meschinità enormi
ci sia un Pirandello a raccontarle così, oltre al teatro di posa, attraverso la
poesia, con bellezza, al di là dell’animo umano, all’interno dell’animo umano,
come una scheggia di luce che rischiara il libro delle nostre esistenze, in
attesa dell’alba.
A che ora è la notte?
Straordinaria lezione civica di forte pregnanza morale.
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