venerdì 24 aprile 2015

Cosa Nostra. Storia della Mafia siciliana

Titolo: Cosa Nostra - Storia della Mafia Siciliana

Autore: John Dickie

Anno di Pubblicazione: 2004

Genere: saggio


Perché la parola mafia ha un significato



Mafia una parola. L’Autore, inglese, ci ricorda nell’introduzione al suo saggio che questo termine insieme a pizza e opera e spaghetti identifica l’italianità nel mondo. 

Una parola questa che conosciamo tutti, ma se dovessimo spiegarla, probabilmente finiremmo impantanati in una serie di altre parole: sabbie mobili di significati. Allora apriremmo un dizionario e scopriremmo che anche lì, la definizione sembra incerta, perché incespica nel rigorismo, finendo con sconfortante ambiguità nel nostro stesso pantano.

E’ questo uno dei radi casi in cui il significante sembra troppo stretto per il significato. Un’altra parola che mi sovviene, di cui tutti noi sappiamo il senso, ma di cui nessuno riesce dare una definizione precisa, curiosamente, è dignità.

E’ talmente magmatico il significato della parola mafia che per anni moltissime persone hanno sostenuto, in buona o cattiva fede, che non esistesse, ipotizzando che fosse un’invenzione di politici subdoli o una frottola per i magistrati carrieristi: una specie di demonio di cui parlavano certi preti idealisti.

Invece la mafia è ed è un fenomeno storico, culturale e sociale molto complesso. Tanto complesso che il suo potere si disperde come da un fiume, in mille rivoli di episodi, colpe e responsabilità.

Lo spiega con anglosassone distacco e britannico fair play il Professor John Dickie che offre in questa Storia della Mafia Siciliana una ricostruzione di grande precisione.

Questo è ciò che fa uno storico: mette i fatti uno in fila all’altro. Date, nomi, luoghi. E questa è già un’operazione fondamentale, ma certamente piuttosto onerosa dal momento che una ricerca documentaristica richiede per definizione dei documenti e i documenti non si redigono su ciò che era definito inesistente.

Il secondo aspetto interessante di questo saggio è che l’Autore riesce a ricostruire, parallelamente all’evoluzione storica, l’evoluzione culturale che la mafia ha rappresentato. I fatti di mafia sono cambiati perché i tempi sono cambiati e pochi, meglio dei mafiosi, sono riusciti a essere così contemporanei ai propri tempi!

La presenza di una violenza endemica in un ambiente così moderno andava contro una delle credenze predilette degli uomini di governo italiani: ossia che il progresso economico, il progresso sociale e il progresso politico marciassero pari passo. Franchetti cominciò a chiedersi se i principi di giustizia e libertà che avevano tanto a cuore non fossero “altro che discorsi ben architettati per coprire magagne che l’Italia è incapace di curare, una vernice per lustrare i cadaveri.

Altro aspetto di grande pregio di questo libro è la capacità dello Storico di rendere le sfumature dei significati, che diventano comportamenti, che diventano connivenze, favoreggiamenti con diverse intensità e colpe.

L’opinione pubblica italiana era rassegnata e scettica: le notizie concernenti la criminalità organizzata in Sicilia venivano accolte dalla popolazione con un senso di apatia e di disgusto. Si dava per scontato che la morte del Sindaci di Corleone fosse una faccenda di mafia e che molto probabilmente nessuno sarebbe mai stato chiamato a risponderne.

Questa Storia della Mafia Siciliana non ha nulla di retorico, nulla di sentimentale; nulla tantomeno di politico. Ma proprio per questo suo essere semplicemente ciò che dovrebbe, ovvero un saggio asettico, una visione super partes, la dimensione del fenomeno mafia emerge nella sua lapidaria crudezza.

Lapidario è certamente l’aggettivo più adeguato, se si considera la carrellata di nomi che compaiono nel libro e che oggi possiamo leggere scolpiti sulle lapidi. 

Tra poco ricorrerà l’anniversario della morte di Giovanni Falcone e io mi aspetto già il consolidato carosello di dichiarazioni o le promesse di impegno e infine di I like su Facebook.



Ma un mese basta per leggere questo libro. Non per onorare i caduti di mafia con l’ennesima banalità, ma per recuperare un po’ di memoria, per dare un significato, per avere almeno la dignità di ammettere che la mafia ancora oggi esiste e riguarda anche te, al netto delle fascinazioni cinematografiche o da videogame. Perché tu stesso sei interpellato, ogni giorno, a limitare la cosiddetta mentalità mafiosa. Perché la mafia, così come gli altri fenomeni paragonabili, hanno un medesimo fondamento: la debolezza del Diritto giuridico di vivere da cittadino. Il Diritto giuridico tuttavia non abita soltanto nei tribunali, ma anche nelle strade delle tua città, nelle relazioni con il prossimo, abita nel tuo stesso soggiorno, nella tua capacità di distinguere e giudicare e infine di compiere una scelta.

Se pensi che sia caduta nel retorico, chiedilo ai morti. Chiedilo ai vivi che vivono come morti.


Avvenne così che il 31 gennaio 1992, dopo due mesi di udienze, la Cassazione rovesciò la sentenza della Corte d’Assise d’Appello sul maxiprocesso, confermando le tre tesi centrali contenute nella sentenza istruttoria redatta da Falcone e Borsellino: che Cosa Nostra esisteva ed era un’organizzazione unitaria; che i membri della Commissione erano tutti congiuntamente responsabili degli omicidi compiuti in nome dell’organizzazione: e che le testimonianze fornite dai pentiti di mafia erano valide. (…). Dopo 130 anni lo Stato Italiano aveva finalmente dichiarato che la mafia siciliana costituiva una sfida organizzata - una sfida mortale - al suo diritto a governare.

venerdì 17 aprile 2015

Madame Bovary


Titolo: Madame Bovary
 
Autore: Gustave Flaubert
 
Anni di pubblicazione: 1856
 
Genere: Romanzo
 
Per le donne, per non diventare Emma... per gli uomini, per non sposare un'Emma
 
 
 
Nel fondo della sua anima, Emma aspettava che qualche cosa accadesse. Come i marinai in pericolo, volgeva gli occhi disperata sulla solitudine della sua vita e cercava, lontano, una vela bianca tra le brume dell'orizzonte. Non sapeva che cosa l'aspettasse, quale vento avrebbe spinto quelle vele fino a lei, su quale riva l'avrebbe portata, né sapeva se sarebbe stata una scialuppa o un vascello a tre ponti, carico di angosce o pieno di felicità fino ai bordi.

Iniziamo dalla trama. Emma Bovary è una giovane donna che sposa un vedovo, da cui ha una figlia e che tradisce ripetutamente. Infrante poi tutte le sue aspettative, dilapidate immense somme di denaro, Emma si toglie la vita. Il marito, che fino all’ultimo si era comportato onestamente, dopo la morte della moglie scopre che le voci su di lei erano fondate, si ammala e muore.

Quando il romanzo venne pubblicato, Gustave Flaubert finì sotto processo per oltraggio alla morale, perché l’adulterio e la vita dissoluta della protagonista del romanzo erano considerati argomenti offensivi per il sentire comune. Flaubert fu assolto, il romanzo ebbe un successo enorme tra i contemporanei e divenne un classico per noi posteri.

Curiosamente, ciò che rese famoso il romanzo, ovvero l’argomento dell’adulterio, non solo è rimasto nel tempo un tema ricorrente, ma ha anzi acquisito una funzione iconoclastica contro il sentire comune. Madame Bovary è l’adultera per eccellenza. Una donna che tradisce il marito è una Madame Bovary.

Scrivo curiosamente perché il tema fondamentale del romanzo non è il tradimento ma è proprio la personalità di Emma.

Emma viene presentata come una giovane donna innamorata, sì, ma non del futuro marito o, in seguito, dei suoi amanti: è innamorata delle sue fantasticherie. Emma si costruisce un futuro immaginario fatto di sogni sentimentali, di avventure indefinite, di lussi inconsistenti e quando si accorge che la realtà non ha attinenze con il suo mondo immaginario decide di fuggire.

L'amore, pensava, doveva manifestarsi di colpo, esplosione di lampi e fulmini, uragano dei cieli che si abbatte sulla vita, la sconvolge, strappa via ogni resistenza come uno sciame di foglie e risucchia nell'abisso l'intero cuore.

Se Flaubert fosse stato un banale autore romantico, avrebbe potuto benissimo scrivere una storia in cui la protagonista, destata dal torpore dopaminico, avrebbe compiuto una scelta concreta e realista. Avrebbe potuto comprendere, la nuova Emma, che la vita non ha niente a che fare con i romanzetti da quattro soldi che legge e magari che ciò che possiede nella realtà, un marito per bene, una vita agiata, una figlia, è quanto di più simile a ciò che desidera.

Se Flaubert fosse stato un provocatore, avrebbe potuto progettare una sorta di femminista ante litteram o un’artista o una donna di cultura.

Emma avrebbe potuto fare molte cose o diventare molti personaggi diversi, ma Flaubert lascia che sia se stessa: fondamentalmente una sciocca emblematica.

I tradimenti, così come lo sperpero di denaro e gli interessi che nutre, sono il risultato di questa sua chimerica ricerca del sogno nella realtà, uno strenuo tentativo di adattare le sue fantasie al mondo: per dirla con Freud, l’assenza del principio di realtà.
 
Emma non suscita nessun sentimento di commiserazione, nemmeno al momento della sua morte, perché questa, che aspirerebbe a essere un gesto eclatante e romantico, riesce soltanto a diventare una lenta fuga patetica. 

Emma si considera tradita dalla vita, è delusa e amareggiata, ma mai, neanche per un istante, ha un ripensamento. Mai tentenna, mai dubita che i suoi aneliti siano sbagliati, mai le sorge il sospetto di avere responsabilità circa la propria infelicità. Delle tristezze poi che arreca agli altri personaggi, degradati a mere comparse nella sua vicenda, non c’è alcuna traccia.

Nel profondo del suo cuore, aspettava che accadesse qualcosa. Come i marinai naufraghi, rivolgeva uno sguardo disperato alla solitudine della sua vita, nella speranza di scorgere una vela bianca tra le lontane nebbie all’orizzonte… Ma non accadeva nulla; Dio voleva così! Il futuro era un corridoio oscuro e la porta in fondo era sbarrata.

Il modo in cui Flaubert descrive Emma è probabilmente la chiave di volta del successo del romanzo, ai suoi tempi come oggi. Il monito di Flaubert non è la supina o stoica accettazione del conformismo borghese, il monito di Flaubert è la ricerca della consapevolezza che il primo tradimento si attua sempre verso se stessi.

E questo è uno dei pregi della Letteratura, che consente di acquisire esperienza senza doverla maturare in prima persona. Se l’insegnamento non viene colto, possiamo sempre contare sulle Emma contemporanee: nelle solitudini volgari di 8 marzo equivoci; nei figli ostentati a bigiotteria di un’esistenza; nei trafiletti di giornali di una cronaca grigia, che non portano la firma di Gustave Flaubert.

giovedì 9 aprile 2015

Il Mestiere di Vivere


Titolo: Il Mestiere di Vivere: diario 1935 - 1950
Genere: Diario
Anni di pubblicazione: 1952
Per chi si chiede dove siano finiti gli intellettuali
Il Mestiere di Vivere è un diario, un diario vero, non una finzione letteraria. Ora, quando ti trovi davanti al diario di una persona cara, che magari è venuta a mancare, provi un sentimento contraddittorio. Da una lato senti il desiderio immediato di leggerlo, per trattenere, per carpire ancora un’eco dell’affetto, per alleviare lo spasmo della nostalgia; dall’altro il pudore, il timore di valicare un confine che è l’intimità dell’altro, di violare i segreti che a buon diritto ciascuno custodisce.
Il diario è stato pubblicato, è un libro, quindi in qualche modo la censura parrebbe venire meno, come se una volta che i pensieri fossero messi lì, pagina dopo pagina, non appartenessero più all’Autore, come se fossero semplicemente fruibili. Come un racconto qualsiasi, come un romanzo, una poesia, un prodotto letterario da acquistare e da consumare.
Questo senza considerare quella sorta di voyerismo verso le celebrità, quel desiderio di conoscere, di sapere, di spiare dietro la tendina della morte, i pensieri di uno Scrittore famoso, come Cesare Pavese. Quella curiosità che maschera da interesse biografico il pettegolezzo più scabroso.
E pensare che Pavese lo aveva chiesto espressamente: Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi.
Diario pubblicato.
Allora lo compri. Lo compri perché un intellettuale come Pavese ti manca. Perché anche se non lo hai mai incontrato, né hai mai sentito la sua voce, senti una profonda nostalgia, perché ti chiedi con chi diavolo adesso potrai condividere la solitudine.
Ti chiedi a chi potrai spiegare che hai il mal di vivere, senza sentirti dire di andare a rigenerarti in una beauty farm. Ti chiedi a chi potrai parlare del vizio assurdo che nessuno vuole conoscere. Ti chiedi a chi potrai raccontare che il tuo amore per la cultura è una ragione di vita, senza essere preso per snob.
Per questo leggi Il Mestiere di Vivere.
E poi, oltre a quello che immagini di trovare, quell’intimità di anime, trovi lo Scrittore.
Perché Pavese è uno scrittore che non fa lo scrittore di mestiere. Lui rappresenta la Letteratura, che poi declina in mille modi nel suo quotidiano: la scrive, la traduce, la pubblica, la critica, la insegna. Non può che essere così, perché la Letteratura è la sua vita.
Lo è così profondamente, così radicalmente, che il diario si chiude con la sua dichiarazione di intenti:
«Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più. »
Per porre fine alle sofferenze, per potersi suicidare, non c’era che una via: eliminare l’unica ragione di vita, la Letteratura.
Credere che la causa della sua morte sia la depressione cronica, i suoi amori non corrisposti, il dottorato negato! Queste sono sciocchezze da rotocalco.
Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre.
No, la verità è che noi abbiamo bisogno di Scrittori come Pavese. Perché sono, per dirla come De André, gli anticorpi della società, perché attraverso il loro modo di vivere e di leggere il mondo ce lo restituiscono decodificato. Perché la loro intensità di pensiero permette di avere una lettura semplificata della complessità della vita, che non è mai semplificazione, demistificazione, falsificazione. E’ come se loro vivessero oltre noi, al di sopra, più profondamente.
Per questo ci appaio contemporaneamente così lontani e così prossimi.
Per questo se ne prova ancora più nostalgia.
Quando ascolti le interviste di alcuni sedicenti intellettuali, che blaterano, che consigliano, che bisbigliano banalità tra le fessure del loro nulla esistenziale, ti mancano i Pavese.
Perché ci va lentezza, ci va tempo, ci va profondità, ci va coraggio, ci va onestà, ci va prudenza, ci va solitudine, per pensare.
Per esprimere la vita, non solo bisogna rinunciare a molte cose, ma avere il coraggio di tacere questa rinuncia.
Il Mestiere di Vivere puoi leggerlo un pezzo per volta, riflessione per riflessione, o aprirlo a caso e raccoglierne una perla, da portarti dentro, come un frammento di esistenza nella mano; puoi tenerlo sul comodino o in libreria, puoi frequentarlo come un caro amico con cui ogni tanto scambi due chiacchiere o il silenzio.
Il professionismo dell’entusiasmo è la più nauseante delle insincerità.
Non perché Pavese sia un maestro di vita, chè di maestri di vita ne abbiamo fin troppi, guru della superficialità, ma viceversa per ricordarsi che con il mal di vivere, se sei un Uomo, ci devi vivere.

giovedì 2 aprile 2015

Aspettando Godot


Titolo: Aspettando Godot
 
 
Anno di pubblicazione: 1952
 
Genere: Teatro
 
Perché abbiamo tutti un Godot da aspettare
 

 
Estragone: siamo contenti (Silenzio). E che facciamo, ora che siamo contenti?
Vladimiro: Aspettiamo Godot.
Estragone: Già, è vero.

Prima recensione di un testo teatrale: non è così semplice commentare un testo che, pur potendolo leggere come racconto, per sua stessa natura sarebbe da veder rappresentato dal vivo.

Quindi, per prudenza, ho scelto di iniziare da Aspettando Godot del premio Nobel per la Letteratura, Samuel Beckett. Per prudenza nel senso che se mi provassi in una ermeneutica del testo, vale a dire in una traduzione del significato, sarei quantomeno al riparo da eventuali contestazioni.

Mi sentirei libera di parlare del tema dell’attesa o del tema dell’oggetto dell’attesa, che è, come già il titolo annuncia, l’aspetto fondamentale.

La trama, poi, è piuttosto semplice: due personaggi si trovano di sera su una panchina ad aspettare un misterioso Godot. Si comprende, direttamente nella lettura, dal cambiamento scenico in teatro, che l’attesa sarà piuttosto lunga e che di fatto non si concluderà.

Il motivo per cui questi due personaggi siano in attesa non è rilevante ai fini della trama, è chiaro che l’entità Godot, il suo arrivo, è fondamentale per loro.

L’Autore non spiega chi sia Godot e quindi il lettore o lo spettatore possono pensare ciò che vogliono. Godot potrebbe essere un dio, come il suo nome sembrerebbe evocare; potrebbe essere una guida spirituale; potrebbe essere un salvatore. Tutte queste interpretazioni sarebbero valide. Ma proprio questa molteplicità di ipotesi valide deve insospettire.

Forse Beckett intendeva scrivere proprio di questo? Forse Beckett alludeva all’inevitabile appiattimento delle idee, che deriva dalla validità che tutte hanno? Crollo delle ideologie, frammentazione del sentire comune e quant’altro? O forse, più prosaicamente, intendeva beffarsi dell’atteggiamento attendista dell’uomo che rimanda la risoluzione dei propri mali a un ente terzo salvifico?

Ma questa sarebbe l’interpretazione dell’interpretazione e la strada si fa perigliosa: meglio tornare, per prudenza, al testo.

Non accade nulla, nessuno arriva, nessuno se ne va, è terribile.

In fondo Beckett scrive questo testo subito dopo la guerra: le aspettative sociali erano elevate. Tutti avevano qualcosa o qualcuno da aspettare, anche perché abituati, nel bene o nel male, a demandare le soluzioni. 

Certo questo non spiega perché, a tutt’oggi, dal testo se ne trae l’impressione che sia stato appena scritto, che contenga un messaggio del tutto contemporaneo, anzi direi persino personale, perché è lo sviluppo della vicenda che pare domandare: quale Godot tu, proprio tu, stai aspettando?

Sei in cerca di un Messia? E’ Godot. 

Speri nell’illuminato economista che inventi la formula dell’equità sociale? E’ Godot. 

Cerchi conferme per la tua cinica disperazione? Sempre Godot.

A questo punto poi, si innesca la sensibilità personale: se sei un ottimista, l’attesa ha già ragione in se stessa; se sei un pessimista, l’attesa è compiutamente vana.

Strada di campagna, con albero.
E’ sera.
Estragone, seduto per terra, sta cercando di togliersi una scarpa. Vi si accanisce con entrambe le mani, sbuffando. Si ferma stremato, riprende fiato, comincia da capo.
Entra Vladimiro.
Estragone (dandosi per vinto): Niente da fare
Vladimiro (avvicinandosi a passettini rigidi e gambe divaricate): Comincio a crederlo anche io.

Benvenuto nel Teatrodell’Assurdo, che, non essendo mai stato teorizzato con un manifesto, con un proclama di intenti, per la Storia della Letteratura neppure esiste. Il genere no, ma il libro sì: benvenuto due volte nell’assurdo.

Il significato non è presente, ma ciascuno può darne uno. Benvenuto allora forse in un’esperienza straniante eppure familiare, perché via via si precisano elementi conosciuti.

Questo assurdo che si ricrea inizia ad assomigliare sempre più all’esistenza e l’esistenza stessa dei personaggi in scena si conclude con la decisione di andarsene, restando immobili.

Questo decidere negando è quindi assurdo? Oppure è da intendere come trasmissione perpetua, di generazione in generazione, dell’attesa di un senso ultimo?

Forse Godot è già arrivato e nessuno se ne è accorto? Godot è tutto questo?

Sarebbe poi così assurdo?

La mia risposta è sì: sarebbe assurdo, altrimenti io per prima avrei le risposte che da sempre l’Uomo si pone e questo sarebbe davvero assurdo.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero