giovedì 27 agosto 2015

L'Assommoir

Autore: Emile Zola

Titolo: L’Assommoir

Anno di Pubblicazione: 1876

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin


Gervaise aveva aspettato alla finestra Lantier fino alle due del mattino. Poi, tremante di freddo, per essere rimasta in camicia all’aria pungente della finestra, s’era gettata di traverso sul letto e si era assopita, febbricitante, con le guance umide di pianto.  

Gervaise è una lavandaia immigrata dalla campagna alla città in cerca di una vita migliore. A Parigi Gervaise conosce la miseria, se ne solleva, diventa benestante. Ma proprio il successo sarà la causa della sua rovina, in un’alternanza di vicende economiche e sentimentali che chiudono il tutto nella solitudine, nella povertà e nella degradazione.

L’Assommoir è il primo di un ciclo di romanzi che Zola dedica al tema della povertà, in tutte le sue sfaccettature: economica, culturale e umana. Il materiale su cui si basano i ritratti viene da Zola cercato con gran cura: l’Autore indaga nella realtà parigina con la stessa scientifica attenzione di un ricercatore moderno, in un laboratorio sociale che è il ceto proletario.

L’approccio di Zola è simile a quello di altri Realisti che ora si ricordano come grandi scrittori, Verga, Huysman, Gogol, ma ai suoi tempi Zola dovette lottare per emergere. Non solo dovette sempre lavorare per mantenersi, poiché non veniva da un famiglia ricca, ma le sue idee non vennero accolte con immediato entusiasmo.

In un contesto storico in cui la parola d’ordine era progresso, in cui l’innovazione scientifica diventava immediatamente innovazione industriale, in cui l’espansione delle ferrovie espandeva i mondi, le voci che denunciavano i costi del progresso o i lati oscuri di esso, non potevano certo trovare consensi.


Anche nel panorama culturale, in cui più facilmente Zola avrebbe potuto trovare appoggio, ebbe difficoltà. Se unanime era il riconoscimento circa la sua straordinaria capacità letteraria, molto meno condivise erano le sue analisi. Zola scrive le storie di personaggi in miseria, lontano della decadenza elegante e ricercata di uno Huysman; scrive di sommersi, senza una rivendicazione marxista; scrive di perdenti senza gloria, più vicino al determinismo sociale che al positivismo che si stava aprendo la strada. Troppo contemporaneo in un mondo culturale che voleva inventare il futuro.

Oggi restano i suoi meravigliosi romanzi, di cui l’Assommoir è certo uno dei migliori; ci resta un immaginario, di un artista che aveva per amici Moupassant e Cezanne e per nemici Wilde e Gilde e che viveva in una delle città più vivaci e stimolanti dell’Ottocento: ci resta l’icona dello scrittore dalla burrascosa vita sentimentale, dal grande impegno, dalla fuga rocambolesca a Londra e la morte sospetta.


Storicamente l’immaginario non è corretto, probabilmente è una mistificazione. Ma la Letteratura, per quanto realista, non pretende di essere vera: al più onesta. Da questo punto di vista allora forse anche ciò potrebbe essere un merito dei grandi scrittori: dare bellezza alla realtà, trasformare la cronaca in poesia e regalare ai fatti la possibilità dell’immaginazione.

giovedì 20 agosto 2015

UN OSPITE d'ONORE


Titolo: Un Ospite d’Onore

Anno di Pubblicazione: 1970

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin



Ricordo ancora i coccodrilli e i servizi sulla Gordimer subito dopo la sua morte. Il solito imbarazzante profluvio di elogi, il solito trafelato interesse tardivo, il solito deprimente abbuffarsi dei meriti dei morti: sciacalli che affollano un preda ancora calda per accaparrarsi il pezzo più grosso della fama altrui.

Difficile credere che un personaggio come la Gordimer potesse stare comoda da qualche parte, se non dalla propria. Si torna sempre a questo punto: gli intellettuali hanno il privilegio di stare scomodi ovunque, anche in quelle parti che, magari dopo lunga riflessione, magari con zelo, sicuramente con prudenza, sono disposti a supportare. La verità è che il mondo che un intellettuale abbraccia è troppo vasto per avere un’appartenenza. Si comprende subito leggendo questo ricchissimo romanzo.

La trama narra le vicende di un uomo inglese che era vissuto in Sudafrica durante il colonialismo e che, già al tempo, simpatizzava per i movimenti di emancipazione nera. Rientrato in patria, segue gli eventi da lontano, ma, con sua sorpresa e piacere, al momento dell’indipendenza viene richiamato dal Neo-Presidente per contribuire allo sviluppo di questa nuova nazione. 

Gli eventi che seguono al suo ritorno in Sudafrica e alla sua permanenza, sono l’occasione che costruisce l’Autrice per compiere un’analisi complessa.

Gli argomenti che vengono trattati sono così numerosi e profondi che in un piccolo saggio introduttivo come questo si possono solo citare, perché il tentare di esaminarli sarebbe un vilipendio.

C’è un aspetto fondamentale che è quello dell’identità che il protagonista è costretto ad affrontare con se stesso, smarrendosi in tempi e circostanze mutate.

C’è il tema della ricerca di un’identità nazionale, di una nazione che non solo non è mai stata tale, ma che neanche sembra sapere cosa voglia diventare.

C’è il tema del razzismo, che assume un volto diverso dal querulo discutere delle parti, ma  come un disperato strumento per definire la propria appartenenza: io sono ciò che tu non sei. 

C’è poi la geografia, che non è solo quella politica di un confine, ma che diventa una distanza che separa: la città dal bush, i quartieri uno dall’altro, le aree industriali da quelle agricole.

E c’è un amore viscerale per la natura, che non ha nulla dell’ambientalismo a la page, ma è il saper trasmettere, in un’ operazione di ricerca e traduzione, l’esperienza e la conoscenza. Si legge questo libro e si percepisce il clima torrido, i profumi del bush, la polvere arida e la luce violenta e seppure si vive a migliaia di chilometri si è aggrediti da questa suggestione.

Quando un romanzo offre una sinfonia di significati, ciascuno con una sfumatura particolare. La bellezza è nell’armonia che la Scrittrice riesce a ricreare. Il rammarico è non avere gli strumenti per fare altrettanto. Il dispiacere è vederne stracciati gli spartiti.


Si dovrebbe, quando queste persone scompaiono, avere il decoro di tacere sulle loro biografie e riflettere su ciò che loro hanno lasciato, perché le loro idee continuano a sussurrarci di essere prudenti.


venerdì 14 agosto 2015

Antologia di Spoon River



Titolo: Antologia di Spon River

Anno di Pubblicazione: 1914

Genere: Poesia

Recensione di: Chiara Bortolin



Avrai sicuramente sentito parlare di Spoon River: un libro cult, un libro di controcultura, un libro di nicchia. Insomma, un libro famoso, ma non da accademia, non da Nobel, non da premi prestigiosi. E, verrebbe da dire, con buone ragioni.

A voler trovare una dicitura elegante, che tanto piace agli amici strutturalisti, ti direi che Spoon River è un libro che ha maggior valore per il contenuto extradiegetico, piuttosto che per il contenuto dietetico. Vale a dire che è più rilevante per ciò che sta fuori da libro che ciò che sta dentro.

Il libro si fonda su un’idea indubbiamente originale: l’Autore immagina di visitare un cimitero e di ritrovare sulle tombe epigrafi che svelano le storie dei trapassati. Alcune storie si intersecano, altre no; alcune storie riguardano persone  vissute in un lontano passato, altre di tempi più recenti; uomini, donne, bambini; vittime e assassini; persone sfortunate o felici. Le storie rispecchiano le vite di molti, raccontate dal punto di vista dei protagonisti che ora, da morti, possono dire ciò che vogliono.

Un’idea originale, indubbiamente. Lo stile non fa certo gridare alla genialità: semplice, lineare, con qualche rara pennellata di poesia, più velleitaria che voluta. Tant’è che viene definito un libro di poesia, per convenzione, più per l’estetica dell’andare a capo che per la complessità che la poesia con la P maiuscola offre.

Si legge bene, via. In questo senso è un libro generoso: regala la sensazione di una lettura complessa, con l’agilità di farsi leggere sul bus, mentre si aspetta un amico o prima di dormire. I Poeti di solito sono più esigenti!

Fu però subito un grande successo, che un po’ illuse anche il suo Autore che si ostinò a voler scrivere, sulle tovagliette delle trattorie in cui trascorreva la pausa pranzo, sperando in un altro best seller che non arrivò mai, per sua fortuna senza abbandonare la sua carriera di avvocato.

Ebbe fortuna per l’idea, ma soprattutto per ciò che implicitamente trasmetteva: da morti si può dire la verità o mentire impuniti, in ogni caso i morti sono liberi. Una chiara critica alla società conformista, ipocrita, borghese, il discorso lo puoi intuire.

In Italia poi questo libro si legò ad altre storie, di vivi, almeno all’epoca. Il testo di Spoon River, nell’edizione americana, era nella biblioteca di Pavese, che lo diede a Fernanda Pivano affinché comprendesse la differenza tra la letteratura inglese e la letteratura americana. La Pivano, oltre a capire quello che deve capire, traduce. Traduce con prudenza perché in quegli anni, un libro così, avrebbe potuto incontrare delle difficoltà. Un libro contro il conformismo, direttamente o indirettamente, sta dalla parte del pensiero libero, non rispecchiava certamente i desiderata del regime fascista. Ciò nonostante Pavese convince Einaudi a pubblicarlo e, con un piccolo inganno, il testo passa la censura del Ministero della Cultura. Ovviamente il sotterfugio venne scoperto e la Piavno finì in carcere. Io trovo che questa storia sia bellissima, un bellissimo canto di amore per la libertà, per il pensiero e per la letteratura.

Ma la poesia, la poesia vera, venne infusa anni dopo, in queste storie, quando Fabrizio De André le riscrisse, migliorandole, facendone un concept album Non al denaro non all’amore né al cielo, uscito nel 1971, e alla cui pubblicazione partecipò anche la Pivano. Come dire che la storia non si chiude con la fine del libro.

Per questo motivo vale la pena leggerlo: per ricordarsi che le parole sono lo strumento per esprimere i pensieri e che i pensieri sono lo strumento attraverso cui gli uomini esprimono le proprie vite. Ovvero: da vivo o da morto sei ciò che pensi.

giovedì 6 agosto 2015

Il PCI ai Giovani

Autore: Pier Paolo Pasolini

Titolo: Il PCI ai Giovani

Anno di Pubblicazione: 1968

Genere: Lettera aperta

Recensione di: Chiara Bortolin
 
Il 1° marzo 1968 è ricordato come il girono dei fatti di Valle Giulia: un violento scontro tra gli studenti universitari, che volevano rioccupare la sede della Facoltà di Architettura a Roma, e le Forza dell’Ordine che da giorni presidiavano il sito, dopo uno sgombero forzato.
L’episodio fece grande scalpore, ma ancora più scalpore fece il commento che scrisse Pasolini il giorno dopo. Una sorta di lettera aperta contro i manifestanti, con il tono di una reprimenda.
Nessuno si sarebbe mai aspettato una presa di posizione in questo senso: gli schieramenti sembravano così chiari! Gli studenti reclamavano Tutto Subito; le Forze dell’Ordine erano considerate il braccio armato dello Stato; c’erano i borghesi conservatori e i proletari progressisti; c’era la destra autoritaria e la sinistra libertaria. Che Pasolini facesse dei distinguo sembrava impossibile. Se speculi stai dalla parte del nemico.
Ora io vorrei proprio evitare i soliti pettegolezzi, svenduti come storia un tanto a banalità, buon peso per tutti i democratici della domenica.
E vorrei anche evitare, con buona pace degli esaltatori postumi di Pasolini, un’apologia del suo defunto idealismo.
Vorrei invece soffermarmi su due aspetti diversi ma integrati di questo Autore: il primo è la penna, il secondo è il rigore.
La penna: leggi questo articolo ed è chiaro, cristallino, ineccepibile. Tanto semplici le parole quanto profondi i significati. Sfido chiunque a non comprendere il senso di questo articolo. Non c’è bisogno di aver vissuto il Sessantotto, di aver letto Marx, di avere coscienza politica. Scrivere così, saper rendere la complessità nella semplicità, non è roba da tutti. Prova ne è che persino Nietzsche con ironia sottolineava come gli intellettuali tendano curiosamente a confondere il profondo con l’oscuro. Pasolini scrive per tutti, in questa occasione, e il risultato è un’infilata di parole, una dietro l’altra, che non si può smettere di leggere. E’ commovente l’amore di Pasolini per le parole.
Poi, il rigore: che emerge dalla punteggiatura, durissima, per esprimere contenuti durissimi. Questa è l’onestà intellettuale, questo è il rigore morale, questo è assumersi la responsabilità di essere un intellettuale. Dire sempre ciò che si pensa. Dire apertamente a chi si sostiene altrettanto apertamente: no, non sto dalla tua parte. Avere il coraggio di stare da una parte che è sempre la propria, senza cercare il consenso.
Questa la ragione per cui ho scelto questo brano di Pasolini: non si può leggere Teorema se non si ha in mente la straordinaria personalità di questo Autore; non si può leggere nemmeno l’Empirismo Eretico, se non si ha in mente il vigore intellettuale, la ricchezza culturale, il costante impegno per mantenere la propria intelligenza.
Lo dico molto francamente: mi disgusta lo scempio che viene a tutt’oggi fatto di Pasolini. Pasolini, il poeta degli ultimi! Pasolini, il cultore del Comunismo. Pasolini il guru del movimento di rinnovamento culturale! Pasolini! Uh!
Pasolini li avrebbe mandati tutti al diavolo. Non aveva ragione su tutto, anzi forse aveva molti torti, ciascuno ha una sua opinione, ma certamente egli non apparteneva che a se stesso e questa sua conservazione lo rendeva un vero intellettuale.
Il peso del proprio pensiero lo si legge nella scelta delle parole, così accurate, così volute, nello scritto come nel parlato; nella sintesi che non è demistificazione; nell’attesa che non è vanto.
Di Pasolini si è detto tutto e il contrario di tutto. Ogni volta che leggo queste poche righe mi inchino, non per la poesia, non per i film e nemmeno per i romanzi, ma perché leggo, assaporo e centellino le parole di un uomo libero.
 

 

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero