Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino, in cui si aprivano
tutti i cuori, tutti i vini scorrevano.
Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. - E l'ho
trovata amara. - E l'ho insultata.
Quando penso a Rimbaud, penso alla bellezza. Tutta la sua poetica è una
ricerca dell’essenza della poesia, che altro non può essere che l’essenza
della bellezza.
Il metodo attraverso cui Rimbaud persegue il suo fine è l’esperienza di vita
e qui nasce il fraintendimento: il Poeta maledetto, genio e sregolatezza e
tutte quelle vacuità da soap-opera che trasformano una delle menti più
brillanti dell’Ottocento in una rockstar ante litteram.
Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente:
lei non ci capirà niente, e io quasi non saprei spiegarle.
Si tratta di arrivare all'ignoto mediante
la sregolatezza di tutti i sensi.
Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti,
essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta.
Per Rimbaud la poesia si può raggiungere solo attraverso l’esperienza
diretta: il poeta è una sorta di cavia, un oggetto di studio, un uomo votato
al sacrificio di se stesso, per un fine più alto. Il poeta non è più un
uomo, ma cerca l’essenza dell’umanità dentro se stesso per poi ricavarne la
bellezza.
E’ necessario che il poeta vada fino in fondo, vada a fondo, perché se la
bellezza esiste davvero, la si può trovare solo eliminando tutto il resto:
la bellezza, la poesia, è l’essenza dell’umanità. Tutto il resto è
contingente.
Per questo Rimbaud si dedica con generosa passione a infrangere ogni sorta
di barriera. Per questo si può dire che lo avrebbe fatto in ogni caso, non
c’era nessun desiderio di gloria, nessuna ricerca del successo, che infatti
non ebbe, nessuna patetica scusa.
A volte parlava, con uno strano dialetto addolcito, della morte che fa
pentire, degli infelici che certamente esistono, dei lavori penosi, delle
partenza che straziano il cuore. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo,
piangeva considerando quelli che ci stavano intorno bestie da miseria.
Rialzava gli ubriachi nei vicoli oscuri. Aveva la pietà di una cattiva madre
con i suoi bambini piccoli, aveva la grazia di una fanciulla che va al
catechismo. Si fingeva esperto di tutto commercio, arte, medicina. E io lo
seguivo, dovevo.
Paul Verlaine, che pure apparteneva a un’altra classe e a un’altra scuola,
aveva colto la profondità di Rimbaud, l’innovazione che la sua poetica
aveva, il vitalismo che occorreva a una cultura ormai asfittica e
manierista. Chiamò Rimbaud a Parigi, lo ospitò, lo introdusse nei circoli
degli intellettuali. Ma non era il tempo di Rimbaud, troppo anticipatore,
quasi profetico: la Storia li travolse.
Alcolista, oppiomane, pederasta, anticonformista e, detto inter nos, anche
un po’ cafone, la ricerca di Rimbaud della bellezza lo condusse di eccesso
in eccesso, di sofferenza in sofferenza, a una giovane e involontaria morte,
per cancro, unica esperienza che non avrebbe cercato. Ma oramai aveva
trovato la bellezza, l’aveva regalata all’umanità sotto forma di poesia,
aveva raggiunto il cuore dell’Uomo.
Nonostante i tentativi della famiglia di riabilitare il proprio nome
nell’oblio delle gesta, nonostante i detrattori contemporanei e i
pettegolezzi successivi, la poesia sopravvisse.
Ci hanno promesso di seppellire nell'ombra l'albero del bene e del male, di
deportare le onestà tiranniche, affinché potessimo condurre il nostro più
puro amore. Tutto cominciò con un certo disgusto e tutto finì, – non potendo
noi impadronirci subito di quell’eternità, – tutto finì con un effluvio di
profumi.x