venerdì 25 marzo 2016

Le Braci

Titolo: Le Braci

Autore: Sandor Marai

Anno di Pubblicazione: 1942

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin

“Si può e soprattutto si deve restare fedeli alla passione che ci possiede, anche se questo significa distruggere la propria felicità e quella degli altri?”
“Perché me lo chiedi? Sai che è così”

Questa è la seconda domanda che Hemrik pone a Konrad. Il legame tra questi due uomini era stato profondo, un’affinità elettiva, come ne capita una nella vita, se si è fortunati. Tanto più speciale il rapporto in quanto non corroborato da elementi esterni: Henrik, figlio dell’aristocrazia, votato alla carriera militare per fedeltà al sovrano, appassionato di caccia; Konrad, figlio squattrinato di un padre generoso, si dedica alle armi per garantirsi un reddito, animo sensibile portato più al pensiero che all’azione. Diversi, ma complementari, indispensabili uno per l’atro, un tradimento li allontana.

Non ebbero bisogno di stringere patti di amicizia come fanno di solito i ragazzi della loro età, che indulgono con passionalità enfatica a rituali ridicoli e solenni, nella forma inconsapevole e grottesca in cui il desiderio si manifesta tra gli uomini quando decide per la prima volta di strappare il corpo e l'anima di un'altra persona al resto del mondo per possederla in maniera esclusiva. Il senso dell'amore e dell'amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i grandi sentimenti destinati a durare una vita intera. 

Konrad fugge, dal tradimento, dall’amico, dal motivo e vive in un altro Paese per quattro lunghi decenni. Eppure il loro rapporto non è finito.  Il titolo, Le Braci, in lingua italiana, Candele Consumate, in lingua ungherese, rimanda all’immagini di un fuoco che è quasi spento. C’è stato un prima luminoso, poi un lungo affievolirsi della fiamma, ma ancora non è tutto finito, ancora c’è un bagliore che crepita nei cuori di questi due personaggi. Ci sono ancora due domande da porre e due risposte da dare.

Henrik non cerca la verità: questa è nelle sue mani, nel diario della moglie, da anni. Se lui volesse sapere come sono andate le cose, non dovrebbe fare altro che sfogliare quelle pagine e leggere. Non l’hai mai fatto e, davanti a Konrad, quando gli pone la domanda, getta quelle memorie nel fuoco, in attesa di una risposta. Konrad tace.

Si dice comunemente di questo romanzo che il tema principale sia l’amicizia, tanto più che Marai, che è un profondo conoscitore della Letteratura, attinge a piene mani da precedenti illustri, quasi citandoli. A una prima lettura si può prendere per buono questo.

Esiste però una seconda lettura, quella dell’animo umano. Marai offre una descrizione vivida dei sentimenti che agitano i suoi protagonisti: l’amore, l’amicizia, l’odio, la delusione, il dolore, la nostalgia. Sono sentimenti intimi, fortissimi, che sopravvivono al tempo, sospesi. Non c’è spazio per il clamore, per il pettegolezzo, per la condivisione con il mondo esterno, come a dire che l’essenziale è sempre profondo.

Infine ci sono le domande, due sole. Molte di più sono le domande che si pone il lettore man mano che procede nella lettura: le rispose si dipanano in un avvincente alternarsi di passato e di presente, tra memorie reali e intuizioni vaghe, in un racconto che pare sussurrato, come una confidenza.

Risolte le curiosità della trama, resta il dubbio: quali domande verranno poste. Impossibile per il lettore non esercitarsi nell’immaginarle. Ogni delusione, ogni lontananza, ogni tradimento vuole delle risposte, prima di poter diventare un addio, ma per avere delle risposte esaustive è necessario che anche le domande lo siano.

"Tutto ciò cui giurammo fedeltà non esiste più"..."Sono tutti morti oppure se ne sono andati, hanno rinunciato a tutto quello che giurammo di difendere. Esisteva un mondo per il quale valeva la pena di vivere e di morire. Quel mondo è morto. Quello nuovo non fa più per me..."

Ma il generale gli risponde: "Per me quel mondo è sempre vivo, anche se non esiste più nella realtà. È vivo perché gli ho giurato fedeltà. È tutto ciò che posso dire”

venerdì 18 marzo 2016

Sociologia del Mercato del Lavoro

Titolo: Sociologia del Mercato del Lavoro

Sottotitolo: Il Mercato del Lavoro tra Famiglia e Welfare

Autore: Emilio Reyneri

Genere: Saggio

Anno di Pubblicazione: 2011

Recensione di: Chiara Bortolin



Ammetto che il titolo non è per niente accattivante. D’altronde questo libro è in primis uno strumento didattico e quindi non confida nel lettore casuale. Posso però dire che, per come è scritto e per i suoi contenuti, potrebbe essere pubblicato anche come un saggio di comune interesse, con il vantaggio di accaparrarsi qualche lettore in più e diffondere un po’ di informazione al di fuori delle mura universitarie.

Il testo di presenta come un’approfondita analisi di sociologia economica sul tema del mercato del lavoro.  L’argomento è molto più prossimo a tutti noi di quanto si potrebbe pensare. Basta fermarsi un momento e pensare a quanti quotidiani pubblichino notizie inerenti a scioperi, ad aziende in crisi, ai risultati che il job act porta o non porta. Basta pensare a quante persone, nella propria cerchia di conoscenze, sono in cerca di lavoro o fanno un lavoro al di sotto delle aspettative o vivono in costante precarietà occupazionale. Questo libro presenta una panoramica della situazione italiana su questi temi.

Ciò che mi è risultato davvero interessante è che il testo smentisce molti luoghi comuni e obbliga a una riflessione che va oltre agli aspetti meramente contrattuali. Faccio alcuni esempi. 
Il disoccupato. Nel pensiero comune il disoccupato per antonomasia è un padre di famiglia, che ha perso il lavoro, che fatica a reinserirsi e che prova un profondo senso di disadattamento.  Falso. Il disoccupato italiano è un giovane, con alto livello di preparazione, che non riesce a inserirsi nel mercato del lavoro.

Se ci fossero più servizi, ci sarebbe una maggior occupazione femminile. L’idea comune è che le donne non lavorano perché la rete sociale e la rete dei servizi alla famiglia non è in grado di sopperire alle necessita di cura verso i figli o verso i genitori anziani. Falso. La maggior parte delle donne che non lavorano non ha neanche mai tentato di inserirsi nel mondo del lavoro e, se lo ha fatto, ha rinunciato al lavoro alla nascita dei figli. La maggioranza delle donne ritiene sia ancora un suo obbligo sociale farsi carico delle incombenze familiari.

Il part time giova all'inserimento lavorativo delle donne. Falso. Ê del tutto evidente, dati alla mano, che i Paesi in cui la presenza femminile nel lavoro è più alta sono i Paesi in cui le donne lavorano a tempo pieno. Guarda il caso, sono anche i Paesi in cui le donne ricoprono più facilmente ruoli di rilievo e mostrano maggiore attaccamento al lavoro.

L’Autore espone i fatti, le interpretazioni e le dinamiche del rapporto economia-società perché, se è vero che l’economia incide moltissimo sulle variazioni sociali, è altrettanto vero che le strutture sociali, sedimentate nel tempo, modificano le scelte economiche. Detto in altre parole: è vero che una fabbrica che chiude comporta oneri economici sulle famiglie che questo ne modifica la struttura; ma è altrettanto vero che un’impresa, prima di aprire uno stabilimento, valuta la risposta che può avere a livello locale, in termini infrastrutturali, certo, ma anche in termini di qualità del lavoro.

E qui arrivano le noti dolenti, là dove i luoghi comuni, pur con qualche aggiustamento, vengono confermati.

Nel Mezzogiorno i problemi occupazionali sono drammatici. Vero, se si leggono le statiche degli occupati dichiarati, se si leggono le cifre di scolarizzazione e inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e se si getta uno sguardo ai volumi impressionati di sussidi al reddito.

Il welfare italiano è carente. Vero, se si considera che le istituzioni che dovrebbero impegnarsi per l’inserimento lavorativo portano dei risultati statisticamente non rilevanti; se i centri per la riqualificazione professionale non costituiscono una rete efficiente ed efficace con le imprese; se l’impegno economico dello Stato si limita all’assistenzialismo, all’erogazione di redditi diversi da quello del lavoro, senza per altro sanzionare i comportamenti deviati.


Questo saggio si legge molto agevolmente, perché l’Autore trova un gradevole equilibrio tra esposizione dei concetti, dati e analisi e interpretazioni delle medesime. Da tutte queste informazioni ciascuno può costruirsi o modificare un’opinione personale. Questo non è solo utile a titolo individuale, ma è anche importante sul piano collettivo, del rammentarsi che ciascuno partecipa attivamente, con i propri comportamenti, a modificare la realtà economica del nostro Paese. 

giovedì 10 marzo 2016

I Miserabili

Titolo: I Miserabili

Autore: Victor Hugo

Anno di pubblicazione: 1862

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin


Una miserabile. Con questo epiteto qualche giorno fa mi è occorso di definire la protagonista di una vicenda reale. Io per prima, nel ripensarci, mi sono sorpresa, perché la parola miserabile, sia come aggettivo, sia come aggettivo sostantivato, è a dir poco desueta. Di tutti gli insulti con cui oggi si può fare uso, miserabile non è certo il più offensivo.

E’ pur vero che questa parola contiene in sé una dose di disprezzo, almeno nella lingua italiana, che poche altre parole veicolano con la stessa previsione di condanna. Per Hugo non era così. I miserabili che popolano i suoi romanzi, questo in particolare modo, sono persone a cui la vita pone delle condizioni estreme di povertà, ingiustizia, infelicità.

I Miserabili propone una carrellata di personaggi dello strato sociale più basso della  società francese ottocentesca. Il protagonista, Jean Vaijean, è un uomo povero che viene arrestato per aver rubato del pane; questo fatto gli segna per sempre l’esistenza, non solo per i lunghi anni di detenzione, ma anche perché il suo passato di ex galeotto condiziona tutte le sue scelte successive, costringendolo a vivere sempre in fuga, sempre con nomi diversi, sempre nella menzogna.

L'Autore esprime chiaramente il suo disappunto nei confronti di una società che non solo è iniqua nel suo elargire pene, ma che è anche incapace di perdonare e che quindi non consente alcun riscatto. Miserabili diventano tutti coloro che, nati al margine della società, sono sempre a rischio di esclusione, di detenzione, quando non di morte.

Hugo riserva tuttavia ai suoi personaggi una facoltà che pochissimi altri Autori, sensibili ai temi sociali, hanno riservati: la scelta. I miserabili non sono sollevati dalle loro responsabilità: posso scegliere se comportarsi bene o se comportarsi male, nonostante tutto. Questo è probabilmente l’approccio più progressista che ci si possa aspettare e non solo ai tempi di Hugo.

Zola, che pure si batterà per i diritti e l’equità sociale, non offre alcuna possibilità di scelta ai suoi personaggi, che sono tutti ineluttabilmente destinati al fallimento. Hugo regala ai miserabili la libertà e in questo nobilita i suoi personaggi.

Non si può che stare dalla parte di Vaijean nelle sue alterne vicende e non perché sia una vittima delle circostanze, ma al contrario perché di fronte alle circostanze negative è sempre pronto crearsi una sua via. Vaijen assurge così a eroe, con mille paure, con mille dubbi, ma proprio per questo grande.

Non è così per tutti i personaggi: molti scelgono di vivere di espedienti, di furbizie e di inganni, quando non con crudeltà. Hugo non assolve aprioristicamente. C’è un evidente intento pedagogico nel romanzo non solo nella morale della storia, ma anche nelle lunghe dissertazioni in cui con passione lo Scrittore si lancia per argomentare la necessità di un miglioramento sociale.

Questo romanzo ha molti pregi, tra cui la facilità di lettura, la narrazione avvincente, la dolcezza di alcuni passaggi e, a dispetto della sua mole, che potrebbe scoraggiare, la sua leggerezza, che non è mai superficiale, è molto più moderna di tanti libri di denuncia.


Circa i miserabili, che sono sempre esistiti e che ancora oggi affollano le strade del mondo, a ciascun lettore il giudizio. Il dilemma tra società e individuo è ancora aperto, nella sua vastissima complessità, semplicemente non tutti i libri lo rappresentano con tanta ricchezza. 

giovedì 3 marzo 2016

La Pelle

Titolo: La Pelle
Anno di Pubblicazione: 1949
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin

Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L'onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.

Da bambina, uno dei giochi che facevo al mare era setacciare la spiaggia in cerca, non delle conchiglie, ma di quei frammenti di vetro smussati dal mare, opacizzati dalla salsedine, che le onde sputavano sulla battigia. Quei rifiuti erano un piccolo tesoro.

E questa passione mi è rimasta, importate nella Letteratura: nella ricerca di quelli che elegantemente vengono definiti outsiders, i non allineati, le voci fuori dal coro: Céline, Pasolini, Wilde. E come non innamorarsi allora di un Malaparte d’annata, come La Pelle?

Il romanzo è ambientato a Napoli, nel periodo immediatamente post bellico, dal ’43 al 45, sotto la tutela dei contingenti americani. Malaparte descrive la situazione della città partenopea, nei panni di un graduato di stanza in città. Lo stile cronachistico, del Malaparte giornalista, fonde poesia e grottesco, restituendo al lettore una descrizione al tempo stesso crudele e pietosa.

Capita così, con questi Autori: riescono a scrivere di situazioni atroci, senza emettere sentenze. L’uomo è sempre l’uomo, soprattutto quando le cose vanno male e si ha la disgrazia di incontrare se stessi, quando la sopravvivenza è il massimo a cui puntare.
Tutta la retorica dell’educazione, della morale, dei valori, viene ingoiata nel gorgo dell’antropologico restare in vita. Nessun giudizio, forse appena un po’ di pena, per questo uomo che si ritiene sempre migliore di ciò che è davvero.

E’ curioso notare come Malaparte, come gli Altri a Lui simili, abbia confidenza con la morte, con il disfacimento, la putrefazione ma proprio in questa confidenza emerga un rispetto sconfinato per la vita.

Neanche a dirlo, Malaparte è stato criticato da chiunque pretendesse di avere un pensiero: dai cattolici, evidentemente, che misero La Pelle all’Indice; dai fascisti, che lo consideravano un traditore; dai comunisti, per i quali i ripensamenti di Malaparte non furono mai convincenti; per non chiamare poi in Giudizio gli Intellettuali, che con l’agilità mentale da serpente che sguscia dalla propria pelle quando fa la muta, seppero cambiare in fretta, intestandosi un antifascismo plurimo e postumo, garantito dal servilismo pregresso.

Il risultato fu che il vero confino di Malaparte, non fu quello del regime mussoliniano, ma quello culturale postbellico. Malaparte fu relegato nell’upper class, a cui comunque già apparteneva, isolato nella sua lussuosa residenza di Capri o spedito come ambasciatore di cause perse, in giro per il mondo.

La conoscenza delle cose della vita, insieme alla sua immensa erudizione, ma soprattutto alla sua libertà di pensiero, ne fecero una delle migliori penne del Novecento Italiano. Amato e odiato in America e nel resto d’Europa per le sue eccezionali e scomodissime qualità intellettuali, la cultura italiana lo ha dato in pegno, come si fa con i preziosi di famiglia nei momenti di magra, con quel senso di vergogna, che impedisce, anche anni dopo, un degno riscatto.


Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l'ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l'anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d'Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero