giovedì 3 marzo 2016

La Pelle

Titolo: La Pelle
Anno di Pubblicazione: 1949
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin

Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L'onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.

Da bambina, uno dei giochi che facevo al mare era setacciare la spiaggia in cerca, non delle conchiglie, ma di quei frammenti di vetro smussati dal mare, opacizzati dalla salsedine, che le onde sputavano sulla battigia. Quei rifiuti erano un piccolo tesoro.

E questa passione mi è rimasta, importate nella Letteratura: nella ricerca di quelli che elegantemente vengono definiti outsiders, i non allineati, le voci fuori dal coro: Céline, Pasolini, Wilde. E come non innamorarsi allora di un Malaparte d’annata, come La Pelle?

Il romanzo è ambientato a Napoli, nel periodo immediatamente post bellico, dal ’43 al 45, sotto la tutela dei contingenti americani. Malaparte descrive la situazione della città partenopea, nei panni di un graduato di stanza in città. Lo stile cronachistico, del Malaparte giornalista, fonde poesia e grottesco, restituendo al lettore una descrizione al tempo stesso crudele e pietosa.

Capita così, con questi Autori: riescono a scrivere di situazioni atroci, senza emettere sentenze. L’uomo è sempre l’uomo, soprattutto quando le cose vanno male e si ha la disgrazia di incontrare se stessi, quando la sopravvivenza è il massimo a cui puntare.
Tutta la retorica dell’educazione, della morale, dei valori, viene ingoiata nel gorgo dell’antropologico restare in vita. Nessun giudizio, forse appena un po’ di pena, per questo uomo che si ritiene sempre migliore di ciò che è davvero.

E’ curioso notare come Malaparte, come gli Altri a Lui simili, abbia confidenza con la morte, con il disfacimento, la putrefazione ma proprio in questa confidenza emerga un rispetto sconfinato per la vita.

Neanche a dirlo, Malaparte è stato criticato da chiunque pretendesse di avere un pensiero: dai cattolici, evidentemente, che misero La Pelle all’Indice; dai fascisti, che lo consideravano un traditore; dai comunisti, per i quali i ripensamenti di Malaparte non furono mai convincenti; per non chiamare poi in Giudizio gli Intellettuali, che con l’agilità mentale da serpente che sguscia dalla propria pelle quando fa la muta, seppero cambiare in fretta, intestandosi un antifascismo plurimo e postumo, garantito dal servilismo pregresso.

Il risultato fu che il vero confino di Malaparte, non fu quello del regime mussoliniano, ma quello culturale postbellico. Malaparte fu relegato nell’upper class, a cui comunque già apparteneva, isolato nella sua lussuosa residenza di Capri o spedito come ambasciatore di cause perse, in giro per il mondo.

La conoscenza delle cose della vita, insieme alla sua immensa erudizione, ma soprattutto alla sua libertà di pensiero, ne fecero una delle migliori penne del Novecento Italiano. Amato e odiato in America e nel resto d’Europa per le sue eccezionali e scomodissime qualità intellettuali, la cultura italiana lo ha dato in pegno, come si fa con i preziosi di famiglia nei momenti di magra, con quel senso di vergogna, che impedisce, anche anni dopo, un degno riscatto.


Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l'ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l'anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d'Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.

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Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero