Autore: Curzio Malaparte
Titolo: La Pelle
Anno di Pubblicazione: 1949
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin
Eravamo
puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla
napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di
soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra,
urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.
L'onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli
d'Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i
miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci
bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria,
l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di
cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case,
sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle
finestre fiori sui vincitori.
Da bambina, uno dei giochi che facevo al mare era
setacciare la spiaggia in cerca, non delle conchiglie, ma di quei frammenti di
vetro smussati dal mare, opacizzati dalla salsedine, che le onde sputavano
sulla battigia. Quei rifiuti erano un piccolo tesoro.
E questa passione mi è rimasta, importate nella
Letteratura: nella ricerca di quelli che elegantemente vengono definiti outsiders, i non allineati, le voci fuori
dal coro: Céline, Pasolini, Wilde. E come non innamorarsi allora di un
Malaparte d’annata, come La Pelle?
Il romanzo è ambientato a Napoli, nel periodo
immediatamente post bellico, dal ’43 al 45, sotto la tutela dei contingenti
americani. Malaparte descrive la situazione della città partenopea, nei panni
di un graduato di stanza in città. Lo stile cronachistico, del Malaparte
giornalista, fonde poesia e grottesco, restituendo al lettore una descrizione
al tempo stesso crudele e pietosa.
Capita così, con questi Autori: riescono a scrivere di
situazioni atroci, senza emettere sentenze. L’uomo è sempre l’uomo, soprattutto
quando le cose vanno male e si ha la disgrazia di incontrare se stessi, quando la sopravvivenza è il
massimo a cui puntare.
Tutta la retorica dell’educazione, della morale, dei
valori, viene ingoiata nel gorgo dell’antropologico restare in vita. Nessun
giudizio, forse appena un po’ di pena, per questo uomo che si ritiene sempre
migliore di ciò che è davvero.
E’ curioso notare come Malaparte, come gli Altri a Lui
simili, abbia confidenza con la morte, con il disfacimento, la putrefazione ma
proprio in questa confidenza emerga un rispetto sconfinato per la vita.
Neanche a dirlo, Malaparte è stato criticato da
chiunque pretendesse di avere un pensiero: dai cattolici, evidentemente, che
misero La Pelle all’Indice; dai fascisti, che lo consideravano un
traditore; dai comunisti, per i quali i ripensamenti di Malaparte non furono
mai convincenti; per non chiamare poi in Giudizio gli Intellettuali, che con
l’agilità mentale da serpente che sguscia dalla propria pelle quando fa la
muta, seppero cambiare in fretta, intestandosi un antifascismo plurimo e
postumo, garantito dal servilismo pregresso.
Il risultato fu che il vero confino di Malaparte, non
fu quello del regime mussoliniano, ma quello culturale postbellico. Malaparte
fu relegato nell’upper class, a cui comunque già apparteneva, isolato nella sua
lussuosa residenza di Capri o spedito come ambasciatore di cause perse, in giro
per il mondo.
La conoscenza delle cose della vita, insieme alla sua
immensa erudizione, ma soprattutto alla sua libertà di pensiero, ne fecero una
delle migliori penne del Novecento Italiano. Amato e odiato in America e nel
resto d’Europa per le sue eccezionali e scomodissime qualità intellettuali, la
cultura italiana lo ha dato in pegno, come si fa con i preziosi di famiglia nei
momenti di magra, con quel senso di vergogna, che impedisce, anche anni dopo,
un degno riscatto.
Voglio bene
agli americani, qualunque
sia il colore della loro pelle, e l'ho provato cento volte, durante la guerra.
Bianchi o neri, hanno l'anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio
bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché
credono che Cristo sia sempre dalla parte di
coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che
è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini,
e che tutti i popoli d'Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che
un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna
morale, è un atto di giustizia divina.
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