giovedì 28 aprile 2016

Amori Ridicoli

Titolo: Amori Ridicoli

Autore: Milan Kundera

Anno di Pubblicazione:

Genere: Racconti

Recensione di: Chiara Bortolin

Se un uomo fosse responsabile solo di ciò di cui è cosciente, gli idioti sarebbero assolti in anticipo da qualsiasi colpa.

Leggi Kundera e ti viene voglia di mettere ordine nei tuoi pensieri e nei tuoi sentimenti, magari proprio mentre, con una certa riprovazione per te stesso, ti scopri a riordinare la libreria, cercando una ratio tra pile dimenticate di libri. Questo apparirebbe sicuramente ridicolo. Prima di tutto perché cercare nell’ordine materiale la soluzione al disordine interiore non sortisce effetto; in seconda battuta perché vedere se stessi al di fuori di sé appare sempre un’esperienza straniante, che è meglio risolvere nel sorriso, piuttosto che nel rammarico.

Di conseguenza, la soluzione migliore è che, chiuso Amori Ridicoli, tu ti prenda del tempo per far decantare le idee e poi, in un secondo momento, faccia le tue riflessioni. Scrivo, le tue, perché un cantore della letteratura come Kundera si ingegna non poco per ammaliarti e farsi assecondare.

Voleva che lui le appartenesse interamente e voleva appartenere interamente a lui, ma più si sforzava di dargli tutto, più gli sembrava di negargli qualcosa: appunto ciò che viene dato da un amore superficiale e poco profondo, ciò che viene detto un flirt. La tormentava l’idea di non saper possedere, accanto alla serietà, anche la frivolezza.

Ti consiglio di iniziare dai fatti: esiste il mondo reale, concreto e chiaro ed esiste un mondo fantastico che immagini; puoi anche pensare che siano possibili varianti del medesimo mondo che non si sono mai realizzate e che forse mai si realizzeranno. Fin qui non ci sono problemi: la Letteratura, grande e piccola, campa su questo.

Ma Kundera va oltre: prende il mondo reale e lo fa a pezzi: un pezzo per ogni protagonista. E ciascun Io di questi racconti è assolutamente convinto di avere una chiara posizione nella propria realtà, mentre invece ogni Io, come un elettrone in uno sciame di elettroni, in orbita attorno al medesimo nucleo instabile, giungerà inevitabilmente allo scontro e al riposizionamento.

Il primo conflitto infatti è con se stesso: la vita cambia, le persone invecchiano, i fatti interferiscono e pare che questi personaggi rimangano abbarbicati alla propria granitica opinione di sé e del mondo, fino a quando una qualche illuminazione li costringe a prendere atto di essere custodi di un pensiero di sabbia.

Il secondo scontro è chiaramente contro la realtà altrui, che subisce le stesse usure e gli stessi disvelamenti: dramma nel dramma. Il collasso è inevitabile.

Per rendere il significato più chiaro, Kundera sfrutta inoltre un argomento che tutti conoscono: l’amore. L’amore che per antonomasia rappresenta l’assoluto, l’unicità di concetto che viene percepita come fatto incrollabile, anche da chi non la esperisce; oppure la giustificazione morale alle peggiori nefandezze,l’amore si rivela comunque poco più di un’impressione, per lo più inesatta, sotto la penna maliziosa di questo Autore.

In questa chiave, le tematiche di Kundera, che certo non posso esaurire in queste poche righe, potrebbero sembrare piuttosto ostiche, d’altronde Kundera le aveva già ampiamente racchiuse nel titolo del suo più celebre romanzo, L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere. 

Ciò che rende leggera e piacevole questa raccolta è il ricorso costante dell’Autore all’ironia. Kundera sorride di tutti i suoi personaggi, li canzona, li prende a ridere. I drammi individuali, gli inevitabili fraintendimenti che ne conseguono, la frantumazione di mondi estranei si sciolgono nell’ilarità.

E qui è necessario fare attenzione, perché proprio mentre il sorriso ti si allarga sulle labbra, il dubbio sorge alle tue spalle: può essere che l’Autore si stia burlando anche del suo lettore? Forse può accadere che i mondi possibili si concretizzino e la realtà si dissolva? Può essere che il tempo ti abbia già raggirato e tu sia già altro da te? Forse. A te la riflessione, ora, scusa, vado a riordinare la libreria, ripensando alla scritta kunderiana che lessi su un banco di Palazzo Nuovo: Milan – Kundera: 4 – 0

L’uomo attraversa il presente con gli occhi bendati. Può al massimo immaginare e tentare di indovinare ciò che sta vivendo. Solo più tardi gli viene tolto il fazzoletto agli occhi e lui, gettato uno sguardo al passato,si accorge di che cosa ha realmente vissuto e ne capisce il senso.  

giovedì 21 aprile 2016

IL DESERTO DEI TARTARI

Titolo: Il Deserto dei Tartari

Autore: Dino Buzzati

Anno di pubblicazione: 1940

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin

Così una pagina lentamente si volta e si distende dalla parte opposta, aggiungendosi alle altre già finite, per ora è solamente uno strato sottile, quelle che rimangono da leggere sono in confronto un mucchio inesauribile. Ma è pur sempre un’altra pagina consumata, signor tenente, una porzione di vita.

A volte il successo beffa gli Autori: divenuti famosi per un testo o un modo di dire, ne vengono privati e il significato che essi avevano attribuito non appartiene più loro. Privati del loro tutore intellettuale, questi significanti possono assumere qualsiasi significato e addirittura confermare un successo con il nuovo erroneo concetto.

Capita così alla locuzione il deserto dei tartari, oggi per lo più usato per descrivere un luogo sperduto e solitario. il buffo è che viene considerata una citazione colta, una frase raffinata, mentre in questa accezione non può che rappresentare l’evidente desertificazione culturale di chi la pronuncia.

E’ il 1940 quando Buzzati pubblica il romanzo, nello stesso anno si imbarca come corrispondente di guerra, per interrompere quella desolante routine che gli aveva suggerito l’idea del romanzo. Il Deserto dei Tartari narra le vicende, o meglio, le mancate vicende, di Giovanni Drogo, un militare che consuma la propria vita in un avamposto ai confini dello Stato, in attesa di un fantomatico attacco da parte dello Stato vicino. Il militare non vedrà mai l’attacco, che pure ci sarà, mentre lui troppo vecchio e malato viene allontanato e lasciato morire altrove.

E’ vero che l’ambientazione della narrazione è una regione  isolata e sperduta, d’altronde i luoghi comuni hanno presa perché hanno un sostrato di veridicità, eppure il vero deserto dei tartari non è un luogo, ma un tempo.  

Il protagonista è un uomo intrappolato nel tempo dall’attesa: che capiti qualcosa, che ci sia una svolta, che accada un fatto terribile grandioso, come una guerra, per attribuire un significato alla sua vita. Nel frattempo, il quotidiano viene scandito dalla rigida routine militare, dai comportamenti previsti e inappellabili che danno una confortante certezza, anche quando del tutto sciocchi.

In questo concetto si riconosce la straordinaria attualità del romanzo. Basta gettare uno sguardo fuori da noi stessi: negli atti di criminalità improvvisata, nel desiderio di imporre un credo a suon di attentati, nella vanesia rivalsa di chi froda invece che meritare. In queste vite, che si trascinano nella vacuità è il deserto dei tartari.

Nella necessità del successo, della botta di fortuna, di un nuovo pettegolezzo da raccontare, lì è il deserto dei tartari. Ovvero, dentro le persone, non fuori di esse. Il deserto dei tartari è quel vuoto che ogni essere umano, degno di questa definizione, porta dentro di sé, con cui cerca di convivere, un dubbio che non trova risposta se non transitoria. 

Alla fin fine ci si arriva, con dolorosa consapevolezza: il deserto dei tartari è il senso della vita, per questo non può essere un luogo, un hic et nunc, ma può solo essere un tempo, la propria esistenza. Il protagonista del romanzo arriva a comprenderlo, in extremis, trovando requie. 

La soluzione proposta da Buzzati non è chiaramente universale. Non tutti trovano la soluzione, molti hanno soluzioni diverse per diverse epoche, molti altri non la trovano mai. D’altronde da che l’uomo esiste, con un briciolo di capacità cognitiva, si è sempre posta questa domanda. Se migliaia di anni di filosofia, di religione e di ideologie non hanno saputo dare risposte è perché, tutto sommato, la risposta non è così semplice.

A voler speculare si potrebbe persino dire che la risposta alla domanda sia la domanda stessa, il porsela, per proclamarsi vivi. Il deserto dei tartari è un orizzonte verso cui l’uomo tende, un infinito da cogliere, un desiderio da colmare. 

L’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno.Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita. 

giovedì 14 aprile 2016

Canzoniere della Morte

Titolo: Il Canzoniere della Morte

Autore: Salvatore Toma

Anno di pubblicazione: 1999

Genere: Poesia


Salvatore Toma era un poeta salentino, edito da Einaudi, morto a trentacinque anni, probabilmente suicida per mezzo di alcol.

La sua opera più nota, che raccoglie il fiore della produzione, è Canzoniere della Morte, uscito postumo dopo ventidue anni. Ciò non stupisce, per tre ragioni: la diarrea di parole pubblicate giornalmente (il logorroico è etimologicamente ricondotto al suddetto imbarazzo intestinale) produce in Italia il più basso tasso di lettori d’Europa. La seconda ragione invece è che la poesia, in sé, non vende, perché la poesia è Pascoli. O almeno questo rimane nei prigionieripolitici della maturità, indultati di riforma in riforma cui è soggetta la scuola. Infine il tema, che pervade le poesie di Toma, è definibile come l’autentico tabù contemporaneo per l’Occidente: la morte.

Mani in alto potrei gridare, perché alla sola parola, chi detiene i requisiti giusti, provvede a tastarne la consistenza. Mani in alto invece, in questo caso, è da intendersi come l’annuncio di una rapina. Sì, perché Toma, in maniera consapevole, tenta un furto, il furto di un rimandismo da Ministero di Grazia e Giustizia che, con perseveranza, pospone sino a vanificare il pensiero sulla fine dei giorni a disposizione. Se poi la morte è autoinflitta…

Il suicidio è in noi
fa parte della nostra pelle
in essa vibra respira si esalta
appartiene alla nostra vita
plana sui nostri pensieri
spesso senza motivo:
a volte l’idea sola
ci conforta ci basta
l’effetto al momento è identico
ci pare di rinascere
una nuova forza stordente
per un poco ci possiede
ci fa sentire immortali.
Perciò io ho rispetto
di chi muore così
di chi così si lascia andare
perché solo chi si nega la vita
sa cosa significa vivere.
L’assuefazione il contagio
il tirare avanti
la sopravvivenza son solo cose
per chi ha paura di frugare
e di guardarsi dentro.

Nel mondo occidentale infatti, pervaso da cultura e da tradizioni ebraico-cristiane, la vita resta interpretata (anche dagli atei) come un dono che non si può rifiutare, e neppure accettare con riserva di valutazione. Fuori dall’Occidente, o spostandosi nel tempo, allo stesso modo il suicidio non gode di particolari riguardi, perché anche i teorici più estremi del nichilismo non arrivano a suggerirlo come rimedio alla vita.

L’aspetto che umanamente, ma anche liricamente, destabilizza della poesia di Toma infine è l’inaccettabilità, tout court, della vita. Non si tratta qui di sofferenza, di difficoltà nello stare al mondo, ma di una autentica e compiuta consapevolezza della propria condizione, che il fare poesia aggrava.

Perché la poesia non conduce ad acuminare il pensiero, generando pensieri grevi, ma chi ha già una spontanea inclinazione a spingere nel profondo i sentimenti e la ragione, si avvicina alla scrivere poesia. Con esiti, in verità, qualitativamente diversi.

Toma in ciò, a prescindere dalle valutazioni critiche, è un autentico poeta, perché dal profondo Sud del Bel Paese, tutto sole, cuore e amore, inchioda con chiodi di feretro la leggerezza e l’ironia scaramantica dei più, che già un altro grande poeta, Giuseppe Ungaretti, aveva dileggiato: 

Col mare mi sono fatto una bara di freschezza

Un ulteriore e ricorrente aspetto della poesia di Toma è l’insistente, ai limiti dell’ossessivo, richiamo agli animali, alle piante e al mondo naturale in genere, che se da un lato contiene elementi di cruda e feroce brutalità, dall’altra pone l’io lirico in una sorta di comunione. In questo emerge la differenza che l’autore fa fra vita ed esistenza.

Chi muore
lentamente in fondo al lago
fra l’azzurro e i canneti
non muore soffocato
ma lievita piano in profondità.
Avrà sul capo una foglia
e su di essa un ranocchio
a conferma dell’eternità.

L’eternità. Quella ce l’abbiamo tutti, sin da ora. Perché in effetti la materia di cui noi siamo composti non è stata creata nel ventre materno, ma è esistita per sempre, prima che noi nascessimo. E rimarrà anche dopo la nostra fine, trasformandosi magari nella fibra di una foglia, su cui siede un ranocchio.

Questo pensiero non è consolazione, ma un dato oggettivo. Allora cosa resta da dire? L’anomalia è la vita, sembrano dirci i versi di Toma, perché l’autentico dramma è quando queste fibre, casualmente aggregate nella forma del nostro corpo, iniziano ad avere consapevolezza di sé.

Ma mentre siamo noi, resta nostra e solo nostra la scelta: possiamo eludere o accettare il pensiero della morte, ma  sarebbe umano evitare di censurare quella nostra particella di angoscia, che in altri si aggrega in un rifiuto sofferto.

Il maiale 
era lì che mi guardava.
Il macellaio
faceva finta di niente
e gli girava intorno indeciso
col coltello allucinato.
Voltai l’angolo
il maiale pareva
implorami di restare
posando alla catena
come un lupo in olfatto.
Così rimasto incantato
non sentì il coltello
forargli la gola
e non vide il sangue
colargli a dirotto.
Era tutto concentrato
a rivedermi apparire.

giovedì 7 aprile 2016

La Nausea


Titolo: La Nausea

Autore: Jean-Paul Sartre

Anno di Pubblicazione: 1938

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin




Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho ancora abbastanza forza per ricominciare.


Scrivere di Sartre oggi è facile: indossi una bella giacca stropicciata di velluto, assumi un’aria di disprezzo nei confronti delle cose della vita, impugni la tua penna stilografica e spieghi al popolo dei salotti la filosofia del Novecento.

Dopo aver distribuito bene i compiti, è tutto semplice. Dell’esistenzialismo si è deciso che si occupano gli psichiatri, che il mal di vivere, se diventa di massa, lo si può chiamare depressione. Del marxismo se ne occupino i filosofi, che non avendo più strumenti per decodificare la contemporaneità, possono serenamente dedicarsi alla storia delle idee. Della libertà se ne occupino i politici o i movimenti di impegno civile: ridimensionata a democrazia, non ha più nulla a pretendere.

La Nausea è diventato un libro su uno scaffale, un romanzo da elité culturale, un oggetto di design intellettuale. La storia di Antoune Roquetin, ricercatore storico, dalla vita sentimentale sfortunata, incapace di attribuire dei significati al mondo esterno, si è diluita nel fraintendimento. La mancanza di significato è diventato un argomento soggettivo, un’incapacità di adattarsi al mondo. Niente di più lontano dal pensiero di Sartre che attribuiva la nausea al mondo reale, all’esterno, a ciò che circonda l’uomo e non all’uomo.


Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovermi poiché non sono vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo ad essi: sono utili, niente di più. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive. Ora me ne accorgo, mi ricordo meglio ciò che ho provato l’altro giorno, quando tenevo quel ciottolo. Era una specie di nausea dolciastra. Com’era spiacevole! E proveniva dal ciottolo, ne son sicuro, passava dal ciottolo nelle mie mani. Sì, è così, proprio così, una specie di nausea sulle mie mani.


Per questo romanzo Sarte venne insignito del Nobel, cheLui, unico caso nella storia del prestigioso premio, rifiutò. Con buone motivazioni: non voleva diventare un’istituzione, non voleva essere integrato nel sistema, ma soprattutto non voleva che il suo libro venisse lette perché premiato. Avrebbe voluto che La Nausea fosse il manifesto teorico di azioni pratiche. 

Non per nulla Sartre era uno dei cosiddetti intellettuali impegnati, sempre pronto a battersi per una causa ritenuta buona: la libertà dei popoli, le rivendicazioni sindacali, la giustizia sociale. Se il mondo è nauseabondo per l’individuo è necessario cambiare il mondo. Sartre ci credeva. Fedele solo a se stesso, conteso da molti parti, sgradito alle stesse quando rifiutate, aveva fatto della sua libertà di pensiero una ragione di vita.

Per questo motivo quello strano monologo interiore che è La Nausea resta il testo più intrinsecamente legato a Sartre e a quel modo di fare cultura che riusciva a raggiungere le vette del pensiero senza chiudersi in torri eburnee del sapere. O il sapere costruisce l’agire o si svuota di significato. Condividere o meno le idee di Sartre è poi un passo successivo.


È dunque questa, la Nausea: quest'accecante evidenza? Quanto mi ci son lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. È strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa.


Jean-Paul Sartre – l’impegno intellettuale: Filosofia, scrittura, drammaturgia, attività politica. Sono solo alcuni dei campi in cui Jean-Paul Sartre ha esercitato il suo pensiero e il suo talento, acquistando fama internazionale e riuscendo ...

venerdì 1 aprile 2016

Foibe

Titolo: Foibe

Autore: Gianni Oliva

Anno di Pubblicazione:  2002

Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin

Sebbene io mi sia molto interessate alla Storia del ‘900, devo ammettere che, per quanto attiene alle vicende dell’Italia Nord Orientale, la mia preparazione non è molto approfondita. Si può dire che mi sia concentrata su una conoscenza generica di tipo logistico: è opinione diffusa tra gli Storici che l’intervento dell’Esercito Tedesco nei Balcani e in Grecia, a supporto dell’Esercito Italiano, sia stata la causa determinante della disfatta. Se l’Esercito Tedesco non si fosse dovuto impegnare su questo fronte, si sostiene, perdendo tempo, risorse e truppe, probabilmente sul fronte russo le cose sarebbero andate diversamente.

Si dice però anche che la Storia non si fa né con i se, né con i ma. Quindi comprendere gli spostamenti degli eserciti, le tempistiche, gli schieramenti è utile per comprendere le dinamiche più ampie di ogni conflitto, a maggior ragione quando l’area geografica di questo è così vasta come durante la Seconda Guerra Mondiale.

C’è poi da dire che della questione dell’Italia Nord Orientale, uso volontariamente una locuzione molto generica, per lungo tempo si è trattato come si tratta dei segreti di famiglia: tutti ne sanno qualcosa, pochi la conoscono e il rumors si sostituisce alla ricostruzione dei documentati fatti storici.

Tanto vale allora ammettere che probabilmente ci sono state anche delle motivazioni politiche che hanno pesato nell’orientare la ricerca storica su altri argomenti, con la precisazione che non necessariamente questo implica una complottistica negazione dei fatti, un’insabbiatura della verità o chissà quale altra fiorita considerazione. Più semplicemente anche la Storia, proprio come i segreti di famiglia, si può affrontare, in tutte le sue implicazioni, quando si è culturalmente e socialmente pronti ad affrontarla.

Maggio 1945: la maggior parte dell'Italia del Nord è ormai "fuori" dalla guerra. Per metà insorte e per metà liberate dagli Alleati, il Piemonte, la Valle d'Aosta, la Liguria, La Lombardia, il Veneto, l'Emilia guardano al futuro, in un clima di fermento ancora in bilico tra emergenza e normalizzazione, ma dove tutti condividono il senso positivo del "si ricomincia".(...) 

Foibe è un titolo che attira l’attenzione, ma nella sua violenza pubblicistica, non rende giustizia al contenuto, che è, nel suo complesso, un buono strumento per farsi una prima idea delle vicende che riguardarono la Venezia Giulia e l’Istria nel Novecento.

Gianni Oliva apre il suo testo con una carrellata introduttiva di testimonianze: la Storia non è un astratto orizzonte di speculazione, ma un intricato concatenarsi di fatti i cui effetti si ripercuotono nelle vite delle persone.

Successivamente, l’Autore prosegue l’esposizione con un metodo scolastico, molto efficacie: definisce l’origine del termine foibe, i confini geografici del tema, l’arco storico delle vicende esposte, l’evoluzione politica che quest’area ha vissuto e le conseguenze sulle dinamiche sociali e culturali. Ne emerge un quadro sufficientemente strutturato e curato, che può essere una buona base per ulteriori approfondimenti.

Altro pregio di questo testo è la scrittura: molto scorrevole, ordinata, semplice senza essere banale e precisa ma non pedante.

È anche apprezzabile che l’intento divulgativo dell’Autore è perseguito mediante la buona selezione di fatti e di spiegazioni e non attraverso una condiscendente rilettura di questi. Tengo a sottolineare questo aspetto perché è segno dell’onestà dell’Autore che pur evidenziando la drammaticità di alcuni episodi che hanno coinvolto cittadini italiani, non cade nel banale luogo comune italiani brava gente, così caro a chi contrabbanda per Storia la propria biografia familiare, magari occupando spazi ingiustificati nelle librerie.


Ho letto con gran piacere questo libro, ritrovandovi quella rassicurante conferma che lo studio della Storia comporta: che i fatti si ripetono; che se imparassimo una buona volta dal passato, potremmo almeno vantare l’originalità di nuovi errori: ma soprattutto che dinanzi a certe situazioni ogni persona agisce e reagisce in modi inattesi, nel bene e nel male. La ricerca della verità, storica o personale che sia, richiede la disponibilità anche ad avere qualche torto.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero