Titolo: Ma gli Androidi sognano pecore elettriche?
Autore: Philip K. Dick
Anno di Pubblicazione: 1968
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin
Noi non nasciamo mica; noi cresciamo; nivee ce di morire di malattie o di vecchiaia, ci consumiamo come formiche. Sempre e formiche:ecco cosa siamo. Cioè non te. Voglio dire, io: chitinose dotate di riflessi che non sono veramente vive.
Tecnicamente questo libro rientra nella fantascienza, con grande disappunto degli appassionati del genere, che lo vorrebbero annoverato in un’altra categoria, come la fantapolitica.
Altrettanto tecnicamente questo libro non rientra nella Letteratura con la L maiuscola, perché la fantascienza, in cui la Letteratura annovera questo romanzo, non è un genere che sappia offrire grandi capolavori.
In comune le due fazioni portano la stessa motivazione, ma da punti di vista differenti. Il problema fondamentale è il tema. Da un lato si accusa che non sia ambientato nello spazio, con astronavi interstellari ed extraterrestri, dall’altro si ridicolizza un mondo impossibile senza sostanza narrativa.
Philip Dick immagina un mondo in un 1992 post nucleare, in cui l’umanità è stata decimata, insieme al mondo animale e vegetale e in cui una tecnologia avanzata sopperisce alle carenze vitali con macchine e alle carenze emotive con altri sistemi tecnologici.
La Terra di Dick è un inferno tecnologico, reso con gran successo dal film The Blade Runner, in cui la maggioranza degli uomini si adegua al quotidiano e altri cercano un’esistenza umana nell’unica dimensione che una macchina non potrà mai offrire, quella dei sentimenti.
Potrei ora fare una lunga e noiosa dissertatio per supportare la bontà degli argomenti trattati nel libro e spiegare le ragioni per cui si potrebbe affermare che la narrazione sia inferiore a essi, ma non sono questi gli aspetti che suscitano il mio entusiasmo.
Ciò che trovo interessante, in questo testo, come in generale nella fantascienza è il potere dell’immaginazione. La fantascienza ha le sue regole, tanto implicite, quanto inderogabili. La fantascienza può descrivere solo mondi irreali, di cui, fin dalle prime righe, si definiscono i punti cardine. E’ come se un Autore sussurrasse al lettore: se il mondo fosse così e così, allora potrebbe succedere questo.
Questo è un esempio straordinario di immaginazione. E l’immaginazione è uno strumento straordinario. Imprescindibile per inventare altri mondi, per leggere questo mondo con occhi diversi, per capire il mondo che esiste, per intuire il mondo degli altri. Tutto questo si realizza con un costrutto sintattico, il periodo ipotetico, che a sua volta si basa su elementi grammaticali appresi alle elementari, i congiuntivi e i condizionali.
Sembra impossibile, ma è vero! A sei anni ripeti tabelle di verbi e a quaranta sei uno scrittore che immagina mondi o brevetta la cura per una malattia rara o inventa un materiale biodegradabile. Tutto questo perché hai in mente una particella invariabile del discorso, il se.
Il problema è che se una regola vale in un senso, probabilmente vale anche nel suo contrario. Se l’immaginazione necessita dei congiuntivi, chi non li padroneggia è privo di immaginazione. Questo è un grande problema, questo è un problema democratico.
Chi manca di immaginazione non solo non è in grado di immaginare un mondo orrendo in cui il post nucleare ha devastato il pianeta; chi non ha immaginazione non è in grado nemmeno di pensare come potrebbe essere questo mondo se si potesse agire meglio, come sarebbero le relazioni se si riuscisse a parlare meglio, ad ascoltare meglio, a pensare meglio.
Chi pensa solo all’indicativo, può solo pensare a un presente che è ed è immutabile, perché impossibilitato a chiedersi come sarebbe se; a un passato che è stato e non richiede ripensamenti perché incapace di chiedersi come sarebbe stato se; incapace di immaginare un futuro che non vada oltre a ciò che è ineludibile perché privo di immaginare come potrebbe essere il domani se.
Nel romanzo di Dick i personaggi sono costantemente alla ricerca di se stessi, nel tentativo di capire in ogni sguardo se davanti vi sia una macchina o un vero essere vivente. Sarebbe auspicabile, condizionale optativo o desiderativo, non doversi fare la stessa domanda incontrando persone in carne e ossa, ma con il senso del possibile inferiore a una macchina, perché, questo sì sarebbe un vero inferno.
Se mai lo hai letto, mi incuriosirebbe un tuo commento su La svastica sul sole sempre di Dick. Ciao. Fabri.
RispondiEliminaCiao, Fabrizio. Ho letto "La Svastica sul Sole" parecchi anni fa. Il libro si legge bene, perchè la scrittura di Dick è sempre scorrevole, anche quando tratta di temi più impegnativi. Detto questo, l'idea era migliore della sua realizzazione. L'ipotesi di una vittoria tedesca e giapponese della Seconda Guerra Mondiale offre un arcobaleno di possibili scenari di cui Dick offre una versione slavata. Vero è che il tema è complesso e che offrire ipotesi immaginarie che possano costituire un'alternativa adeguata alla complessità della realtà storica è un'operazione titanica. Bisogna anche rendere atto a Dick di aver instillato un dubbio. Nella Scuola Anglosassone esiste una disciplina di studio che si chiama If History, storia del Se, che ha come obiettivo la realizzazione, attraverso complessi modelli statistici, di come sarebbero andati determinati fatti storici se alcune condizioni fossero mutate. Al di là della disputa intellettuale sulla correttezza o meno dell'impianto metodologico della disciplina, essa rimane confinata in un ambito accademico. Dick ha avuto il merito di porre una domanda semplice: cosa sarebbe successo se la Germania e il Giappone avessero vinto? La risposta è complicata. Il vantaggio di una trama, rispetto alla Storia, è che Il finale non piace può essere riscritto. La domanda resta valida: cosa sarebbe successo se?
RispondiEliminagrazie per la gentile e puntuale risposta. A presto.
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