Titolo: La Macchia Umana
Autore: Philip Roth
Prima Edizione: 2000
Genere: Romanzo
Per molti, ma non per tutti
Recensione di: Chiara Bortolin
Sono anni che il
ritornello si ripete: Philip Roth candidato al Nobel e il Nobel assegnato a un
altro. Ora, se fossi uno scrittore della sua età, tutto sommato lo accetterei:
si sa che il Nobel viene attribuito, certamente per una sinistra coincidenza, a
chi è quasi pronto a non poterlo più ricevere.
Io mi immagino questi
scrittori, che hanno vissuto di pienezza intellettuale, impegnati a scrivere
contemporaneamente il discorso di accettazione del premio e il proprio elogio
funebre! Ovviamente questo lo dico io: questi grandi scrittori sono più
raffinati del protocollo previsto dalla scaramanzia!
In ogni caso, Philip
Roth può starsene tranquillo! Nelle tue notti insonni, sono certa che stia già
facendo capolino la gravosa domanda: perché? Se tu mi chiedessi seriamente come sia
possibile che Roth non vinca il Nobel, dovrei far riferimento al complesso
sistema di selezione, in cui decine di esperti sono chiamati a pronunciarsi. Se
però tu al bar, inzuppando il cornetto nel cappuccino, mi chiedessi, così,
facendo due chiacchiere tra amici, perché Philip non vinca il Nobel, io ti
direi, pulendomi dallo zucchero a velo, che semplicemente non può.
Prendi La Macchia
Umana.
Noi lasciamo una
macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà,
abuso, errore, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.
Considera lo stile de La
Macchia Umana: straordinario. Philip Roth usa la lingua con una precisione
maniacale: ogni parola al suo posto, non un aggettivo in più, non uno in meno.
Persino i puntini di sospensione sono tre colpi esplosi a bersaglio. E l’ironia,
nella sua lingua, si affina così tanto da diventare come il filo del rasoio,
come un bisturi usato con crudele precisione. Il taglio e la velocità non ti
darebbero neppure il tempo per raccomandarti l’anima!
La struttura narrativa! La perizia linguistica si incastona in una struttura narrativa
liquida, che apparentemente non ha forma se non quella del contenitore, che
muta in continuazione. Presente e passato si mischiano, si sovrappongono,
costringendo il lettore a vivere il presente rileggendo il passato e a
costruire il futuro, reinventando il passato. E’ così che Philip ti racconta la
storia.
Un professore
universitario, all’apice della sua carriera, assiste allo stravolgimento della
propria vita, dall’oggi al domani, perché una studentessa lo accusa di
razzismo. Tutto va in frantumi e lui è costretto a riconsiderare ogni aspetto della sua vita
che sino a quel momento gli aveva dato forma. Questa efficacia narrativa
richiede la precisione di un tagliatore di diamanti, niente da dire.
E infine, in questo gioiello composto dalla pietra preziosa, incastonata in una struttura liquida, riluce il brillio del concetto! Altri acclamati scrittori riuscirebbero soltanto a riproporti la retorica della caduta. Ma se sei un intellettuale autentico, non puoi proprio vendere il luccichio della pentola come se fosse quello di un diamante!
Roth riesce a
magnificare questa luce, proiettandola sulla penombra dell’identità. E non ti
fa perdere tempo con il perenne conflitto tra individuo e società. Intreccia il
discorso sull’identità attraverso l’appartenenza razziale, ma va proprio alla
base, su quella che sarebbe la più chiara e inequivocabile caratteristica
dell’appartenenza: il colore della pelle! Il dubbio del protagonista, il prisma
da cui si dirama l’arcobaleno di significati che l’identità comporta, poggia su
una domanda: il protagonista è bianco o è nero?
Non ti racconto come ci
arriva, lo so che può apparire assurdo, ma la bravura è questa. Devi leggerlo
per capire quanto sia raffinato per scrivere un romanzo su un dubbio come il
colore della pelle! Infatti nella trasposizione cinematografica non sono
riusciti a renderlo, hanno dovuto ripiegare.
Straordinario. Veramente
straordinario.
Ma non da Nobel, no. No
perché, abbi pazienza, Roth difetta di una caratteristica fondamentale. No, non
è la poesia, anche se in Roth è un po’ scarna.
Quando leggi La
Macchia Umana provi un profondo senso di soddisfazione, di compiacimento,
di esaltazione intellettuale. E’ come essere invitato a percorrere con il dito
il profilo di marmo liscio delle tre Grazie del Canova. Ne fai quasi parte,
diventi quasi tu stesso l’opera d’arte.
E’ come se ti
raccontassi al bar ah ieri sera ho bevuto un Martini a Manhattan con Philip,
sì abbiamo fatto due chiacchiere, dice che non scriverà più, dice che ha
esaurito i temi, sai com’è fatto lui…il punto è che tu non lo sai come è
fatto lui, ma sei contento che te lo stia raccontando e lo racconterai a un tuo
amico, mi diceva, stamattina al bar la mia amica, quella che beve martini
con Philip Roth…
Lascia stare che io non
ho mai incontrato Philip Roth! E’ un certo modo di far apparire come naturale
qualcosa che, ai fatti, non lo è per niente.
E’ questo il motivo per
cui non riceve il Nobel: la semplicità. Manca quella immediata e rassicurante
semplicità, che ti fa dire subito bello.
E un Nobel deve essere immediatamente bello. Un Nobel non può, non deve, essere
esclusivo.
La patente del genio
prevede la capacità di tradurre la complessità in semplicità. Un’opera d’arte tramuta
la complessità in bellezza e tale bellezza deve essere riconoscibile, immediata
e schietta. Poi, se chi assiste è preparato, la fruizione è più completa.
Pensa alla Cappella
Sistina! Alle opere di Giotto! Pensa alle Arie di Verdi! Quella bellezza è lì
per tutti. In ambito letterario,
pensa a Kertez, a Pirandello, a Suskind: dopo aver letto Roth distingui subito
la differenza.
Per molti, ma non per
tutti, recitava lo slogan di una campagna
pubblicitaria di qualche anno fa.
No, non era un invito
alla lettura e neppure alla Letteratura.
Tanto meno era scritto
sul cartoncino di invito agli ospiti della premiazione di Stoccolma, che Roth,
ovviamente, non ha mai ricevuto.
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