giovedì 4 dicembre 2014

La Macchia Umana


Titolo: La Macchia Umana
 
Autore: Philip Roth
 
Prima Edizione: 2000
 
Genere: Romanzo
 
Per molti, ma non per tutti
 
Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
 
 
Sono anni che il ritornello si ripete: Philip Roth candidato al Nobel e il Nobel assegnato a un altro. Ora, se fossi uno scrittore della sua età, tutto sommato lo accetterei: si sa che il Nobel viene attribuito, certamente per una sinistra coincidenza, a chi è quasi pronto a non poterlo più ricevere.

Io mi immagino questi scrittori, che hanno vissuto di pienezza intellettuale, impegnati a scrivere contemporaneamente il discorso di accettazione del premio e il proprio elogio funebre! Ovviamente questo lo dico io: questi grandi scrittori sono più raffinati del protocollo previsto dalla scaramanzia!

In ogni caso, Philip Roth può starsene tranquillo! Nelle tue notti insonni, sono certa che stia già facendo capolino la gravosa domanda: perché? Se tu mi chiedessi seriamente come sia possibile che Roth non vinca il Nobel, dovrei far riferimento al complesso sistema di selezione, in cui decine di esperti sono chiamati a pronunciarsi. Se però tu al bar, inzuppando il cornetto nel cappuccino, mi chiedessi, così, facendo due chiacchiere tra amici, perché Philip non vinca il Nobel, io ti direi, pulendomi dallo zucchero a velo, che semplicemente non può.

Prendi La Macchia Umana.

Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.

Considera lo stile de La Macchia Umana: straordinario. Philip Roth usa la lingua con una precisione maniacale: ogni parola al suo posto, non un aggettivo in più, non uno in meno. Persino i puntini di sospensione sono tre colpi esplosi a bersaglio. E l’ironia, nella sua lingua, si affina così tanto da diventare come il filo del rasoio, come un bisturi usato con crudele precisione. Il taglio e la velocità non ti darebbero neppure il tempo per raccomandarti l’anima! 

La struttura narrativa! La perizia linguistica si incastona in una struttura narrativa liquida, che apparentemente non ha forma se non quella del contenitore, che muta in continuazione. Presente e passato si mischiano, si sovrappongono, costringendo il lettore a vivere il presente rileggendo il passato e a costruire il futuro, reinventando il passato. E’ così che Philip ti racconta la storia. 


Un professore universitario, all’apice della sua carriera, assiste allo stravolgimento della propria vita, dall’oggi al domani, perché una studentessa lo accusa di razzismo. Tutto va in frantumi e lui è costretto a riconsiderare ogni aspetto della sua vita che sino a quel momento gli aveva dato forma. Questa efficacia narrativa richiede la precisione di un tagliatore di diamanti, niente da dire.

E infine, in questo gioiello composto dalla pietra preziosa, incastonata in una struttura liquida, riluce il brillio del concetto! Altri acclamati scrittori riuscirebbero soltanto a riproporti la retorica della caduta. Ma se sei un intellettuale autentico, non puoi proprio vendere il luccichio della pentola come se fosse quello di un diamante!

Roth riesce a magnificare questa luce, proiettandola sulla penombra dell’identità. E non ti fa perdere tempo con il perenne conflitto tra individuo e società. Intreccia il discorso sull’identità attraverso l’appartenenza razziale, ma va proprio alla base, su quella che sarebbe la più chiara e inequivocabile caratteristica dell’appartenenza: il colore della pelle! Il dubbio del protagonista, il prisma da cui si dirama l’arcobaleno di significati che l’identità comporta, poggia su una domanda: il protagonista è bianco o è nero? 

Non ti racconto come ci arriva, lo so che può apparire assurdo, ma la bravura è questa. Devi leggerlo per capire quanto sia raffinato per scrivere un romanzo su un dubbio come il colore della pelle! Infatti nella trasposizione cinematografica non sono riusciti a renderlo, hanno dovuto ripiegare.

Straordinario. Veramente straordinario. 

Ma non da Nobel, no. No perché, abbi pazienza, Roth difetta di una caratteristica fondamentale. No, non è la poesia, anche se in Roth è un po’ scarna.

Quando leggi La Macchia Umana provi un profondo senso di soddisfazione, di compiacimento, di esaltazione intellettuale. E’ come essere invitato a percorrere con il dito il profilo di marmo liscio delle tre Grazie del Canova. Ne fai quasi parte, diventi quasi tu stesso l’opera d’arte. 

E’ come se ti raccontassi al bar ah ieri sera ho bevuto un Martini a Manhattan con Philip, sì abbiamo fatto due chiacchiere, dice che non scriverà più, dice che ha esaurito i temi, sai com’è fatto lui…il punto è che tu non lo sai come è fatto lui, ma sei contento che te lo stia raccontando e lo racconterai a un tuo amico, mi diceva, stamattina al bar la mia amica, quella che beve martini con Philip Roth…

Lascia stare che io non ho mai incontrato Philip Roth! E’ un certo modo di far apparire come naturale qualcosa che, ai fatti, non lo è per niente.

E’ questo il motivo per cui non riceve il Nobel: la semplicità. Manca quella immediata e rassicurante semplicità, che ti fa dire subito bello. E un Nobel deve essere immediatamente bello. Un Nobel non può, non deve, essere esclusivo.

La patente del genio prevede la capacità di tradurre la complessità in semplicità. Un’opera d’arte tramuta la complessità in bellezza e tale bellezza deve essere riconoscibile, immediata e schietta. Poi, se chi assiste è preparato, la fruizione è più completa.

Pensa alla Cappella Sistina! Alle opere di Giotto! Pensa alle Arie di Verdi! Quella bellezza è lì per tutti. In ambito letterario, pensa a Kertez, a Pirandello, a Suskind: dopo aver letto Roth distingui subito la differenza.

Per molti, ma non per tutti, recitava lo slogan di una campagna pubblicitaria di qualche anno fa.

No, non era un invito alla lettura e neppure alla Letteratura. 

Tanto meno era scritto sul cartoncino di invito agli ospiti della premiazione di Stoccolma, che Roth, ovviamente, non ha mai ricevuto.

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Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero