venerdì 30 gennaio 2015

Frankenstein


Autore: Mary Wollstonecraft

Titolo: Frankenstein o il moderno Prometeo

Anno di pubblicazione: 1818

Genere: Romanzo

Per chi vuol leggere un bel romanzo, divertente, stimolante e ben scritto.

Vedi, alla fine aveva ragione Carmelo Bene quando se la prendeva con il significante che confonde il significato, il sasso in bocca che non permette il passaggio d’informazione. Perché in questo caso il significante, il nome, è rimasto lì, piantato sulla copertina del libro e il significato è scappato. 

Inizio così perché il Frankenstein non è il mostro, no, il mostro lo è diventato nel senso comune, Frankenstein è lo scienziato che lo ha creato! Eppure oggi se vogliamo sostenere che una persona sia brutta, usiamo ancora affibbiare questo macabro soprannome. Di solito aggiungiamo anche, a ribadire il concetto, “E’ un mostro”.

Dovremmo anche chiederci perché. Voglio dire, il fatto di essere brutti, nel senso estetico, non ha nessuna attinenza con il fatto di essere un mostro, che invece si riferisce a una caratteristica morale. Forse è quell’antico e infantile desiderio di dare un volto ai mostri, che devono essere brutti per essere individuati. Come si soleva dire: “Dio marchia i cattivi perché siano riconoscibili”.

Il mostro del racconto, se leggi bene, è brutto perché sproporzionato, perché assemblato dalla mano dello scienziato che, insomma, voleva creare la vita, mica renderla bella.

«Ero dotato di un aspetto spaventosamente deforme e ripugnante; non ero neppure della stessa natura dell’uomo»

Bisogna dire che la Scrittrice avvisa subito il suo lettore, fin dal titolo. Frankenstein o il moderno Prometeo. Ora, noi non siamo più tanto abituati a rimandi della cultura classica, ma per un lettore dell’Ottocento il titolo era già evocativo.

Prometeo era un eroe della mitologia greca che aveva sfidato Zeus regalando agli uomini prima l’intelligenza e poi il fuoco. Neanche a dirlo, Zeus non l’aveva presa bene e aveva condannato a una morte orrenda il buon Prometeo.

Il lettore dell’Ottocento capiva immediatamente il concetto cardine: il protagonista del romanzo era un qualcuno che sfidava Dio e quale sfida maggiore verso Dio se non l’atto del creare?

«Dopo giorni e notti di un lavoro e di una fatica incredibili, riuscii a scoprire le cause della generazione della vita; anzi, di più, divenni io stesso capace di dare animazione alla natura morta»

Il tema è piuttosto attuale. La scienza che si sostituisce a Dio e la fede che non è più rivolta verso un’Entità Suprema, ma ai detentori della conoscenza. La scienza è la nuova fede, il nuovo misticismo.

Certo nell’Ottocento la scienza aveva fatto dei passi da gigante, grazie soprattutto alla cultura Illuminista che aveva operato per ottenere dei metodi nuovi di ragionare, dei metodi oggettivi, che avessero un riscontro, quello che ora noi diamo per scontato: il metodo scientifico.

Gli Illuministi avevano dato il via, con una fiducia e un ottimismo senza eguali: erano davvero convinti che la Scienza avrebbe migliorato l’Umanità. 

Nell’Ottocento l’ardore si era però raffreddato e se ancora molti pensatori si concentravano sulla definizione di Scienza, su che cosa fosse Scienza e che cosa non lo fosse, molti altri iniziavano anzitempo a sollevare dei dubbi sui limiti della Stessa, se lontana dal Pensiero.

Non è certo un caso che proprio nel secolo in cui medici, chimici, biologi, avevano fatto scoperte fondamentali, i letterati si erano immersi nella ricerca dell’uomo come emozione, sentimento, sensibilità: il Romanticismo.

Tra l’esaltazione della scienza e l’esaltazione dei sentimenti, si insinuano le paure: che sarà dell’uomo?

Il bello di tutto ciò è che a questa domanda non abbiamo ancora risposto. La Scienza del Novecento ha fatto scoperte mirabolanti, la tecnologia ha inventato strumenti eccezionali, le ideologie hanno sopraffatto l’idea di Dio e lo hanno fatto rinascere sotto mentite spoglie, in tutte le declinazioni possibili e immaginabili; tutti siamo ancora qui: che ne sarà dell’uomo?

Che ne sarà dei nuovi Frankenstein, delle intelligenze artificiali, della medicina che dà e toglie la vita, dei sentimenti?

Perché il mostro, misero anche lui, è mostro solo perché non ha sentimenti. Non può averne, è una creatura nata dall’ingegno umano, non dall’uomo, è un prodotto della mente non della natura, è anaffettivo per definizione.

Questo mostro che non è nato dalle leggi di natura, ma che si adatta alle leggi di natura e lotta per sopravvivere, uccidendo… chi, se non il suo dio in camice?

«L’invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos»
 
Un romanzo bellissimo, di grande attualità, nei temi e nei toni. Un romanzo elegante, scritto da una donna di grande cultura e di grande intelligenza, sposata a uno dei più famosi poeti romantici.

Ironia della sorte, in copertina, di solito leggiamo come autrice Mary Shelley, ma questo è il cognome del marito: anche lei sfuggi al suo nome? Anche lei diventò un significante che necessitava ancora di veder precisato il proprio significato? 

 

 

 

giovedì 22 gennaio 2015

10 pillole... per la Giornata della Memoria

Titolo: Le Origini del Totalitarismo

Autore: Hannah Arendt

Anno di Pubblicazione: 1951

Genere: Saggio

Descrizione: Questo saggio è fondamentale per chi desidera approfondire la tematica dei totalitarismi. La profondità storica, l’onestà intellettuale e la lucida analisi delle dinamiche sociali che muovono gli uomini sono veicolatici attraverso una scrittura scorrevole e diretta che rende accessibili anche i concetti più complessi.

 
 
Titolo: Hitler e l’enigma del consenso

Autore: Ian Kershaw

Anno di pubblicazione: 1997

Genere: saggio

Descrizione: Ian Kershaw è uno dei storici più competenti per quanto concerne il fenomeno del nazismo. Questo testo è un buon viatico allo studio del nazismo: sufficientemente approfondito per comprendere il metodo di analisi, sufficientemente sintetico da non spaventare anche un lettore non assiduo.

 
Titolo: Carnefici, vittime, Spettatori

Autore: Hilberg Raul

Anno di Pubblicazione: 1992

Genere: Saggio

Descrizione: Il saggio si concentra sul tema della persecuzione degli ebrei. La ricchezza delle testimonianze dirette dei personaggi coinvolti, a vario titolo, nelle vicende offre un punto di vista del contesto che, pur perdendo di profondità storica, guadagna in vividezza di esperienze.

 
 
Titolo: Le interpretazioni del Fascismo

Autore: Renzo De Felice

Anno di pubblicazione: 1969

Genere: Saggio

Descrizione: Saggio dedicato all’analisi della genesi e delle motivazioni del fascismo è stato a lungo bistrattato come testo revisionista. A oggi si sta comprendendo il valore di questo saggio che, per lo spessore intellettuale del suo Autore, offre un punto di vista alternativo al pensiero predominante nel dopoguerra.

 

Titolo: Mein Kampf (La mia battaglia)

Autore; Adolf Hitler

Anno di pubblicazione: 1925

Genere: Saggio

Descrizione: Il saggio espone le idee fondanti dell’ideologia nazista. Si consiglia di cercare un’edizione critica sia per agevolare la collocazione storica delle idee presentate, sia per alleggerire la lettura del testo che, in sé, è piuttosto ripetitivo e poco scorrevole.

 
Titolo: Se Questo è un Uomo

Autore: Primo Levi

Anno di pubblicazione: 1947

Genere: Racconti

Descrizione: Il testo propone racconti in sequenza temporale circa l’esperienza della detenzione in un campo di concentramento. I racconti restituiscono al lettore le condizioni fisiche, psicologiche e morali in cui i deportati si trovarono a vivere. E’ indubbiamente un testo simbolo della letteratura memorialistica.


Titolo: La Variante di Luneburg

Autore: Paolo Maurensing

Anno di pubblicazione: 1993

Genere: Romanzo

Descrizione: Romanzo dalla struttura complessa e affascinante pone al centro della trama il gioco degli scacchi. La scrittura intrigante trascina il lettore in un turbine di vicende, di racconti, di metafore, di simbolismo che fa di questo romanzo una lettura non semplice, ma certamente appassionante.

 

 
Titolo: Il Rogo di Berlino

Autore: Helga Schneider

Anno di pubblicazione: 1995

Genere: Romanzo

Descrizione: Un incontro a distanza di anni tra una madre e una figlia che hanno vissuto il nazismo in maniera diametralmente opposta. Il dramma della separazione tra le due donne assume un significato che esula del rapporto personale per entrare in una dimensione storica. Un romanzo di straordinaria delicatezza nei sentimenti e crudele lucidità nelle descrizioni.

 
Titolo: Il Gran Sole di Hiroshima

Autore: Karl Brucner

Anno di pubblicazione: 1961

Genere: romanzo

Descrizione: Solitamente indicato come narrativa per l’infanzia, come molti romanzi di qualità, non ha nessun tratto infantile. Il romanzo tratta della vita di una bambina che sopravvive alla bomba atomica sganciata su Hiroshima, ma che non diventerà adulta.

 
Titolo: L’Amico Ritrovato

Autore: Fred Uhlman

Anno di pubblicazione: 1971

Genere: Romanzo

Descrizione: Il romanzo racconta di un allontanamento e di una riconciliazione tra due amici: il cui distacco si inserisce nel contesto della Germania nazista e la riconciliazione passa attraverso la pacificazione storica. E’ un romanzo sull’amicizia di grande dolcezza e di grande comprensione.

 

venerdì 16 gennaio 2015

Insciallah


Autore: Oriana Fallaci
 
Titolo: Insciallah
 
Anno di pubblicazione: 1980
 
Genere: romanzo
 
Recensione di: C. Bortolin
 
Per chi è alla  ricerca della formula della vita
 
Cara, per raccontare gli uomini, questi bizzarri animali che fanno ridere e piangere, bastano due sentimenti che in fondo sono due ragionamenti: la pietà e l’ironia. In parole diverse, basta avere il sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi

Ed è proprio così in questo libro. Perché i fatti che accadono nel corso dei tre mesi libanesi del contingente italiano sono narrati con una profonda pietà e un’affilata ironia.

Insciallah è un romanzo che devi leggere con calma, anche se vorresti leggerlo d’un fiato, perché la scrittura veloce e incalzante, il susseguirsi dei fatti, ti tengono sotto pressione. Vuoi sapere, sapere come andrà a finire, questa faccenda della guerra. Invece dovresti essere saggio e leggerlo piano, assaporarlo, capirlo.

1983: in Italia sono i ruggenti anni 80, in Libano no. In Libano contingenti di diverse nazionalità tentano di garantire la stabilità politica di una città divisa, Beirut. Divisa per quartieri, che identificano poteri, che si legittimano con la religione.

Unica certezza, lo capisci subito, l’unico sentimento condiviso che unisca tutti i quartieri, è che nessuno vuole gli stranieri. Non che gli stranieri, i soldati, abbiano tanta voglia di essere lì, a Beirut. Anche i più convinti in partenza comprendono rapidamente che la loro presenza è inutile. 

La guerra non serve a nulla, diceva, non risolve nulla. Appena una guerra finisce ti accorgi che i motivi per cui era scoppiata non sono scomparsi, o che se ne sono aggiunti di nuovi in seguito ai quali ne scoppierà un’altra dove gli ex nemici saranno gli amici e gli ex amici i nemici.

E la guerra in cui i protagonisti del romanzo si dibattono è ancora più infingarda e più subdola di una vera guerra, perché non è una battaglia aperta, ma un continuo vivere nella tensione: è successo qualcosa, succederà di nuovo, può succedere in ogni istante.

 Perché negli attentati funziona così: Perché a Beirut un bambino di otto anni non è più un bambino è un uomo anzi un vecchio abituato a uccidere

Questo senso di sospensione, di incertezza, provoca in ogni personaggio, in ogni uomo, sensazioni diverse. Ma nel comune smarrimento si insinua la domanda fondamentale: qual’è la formula della vita?

La vita non è un problema da risolvere, è un mistero da vivere. Lo è, caro amico, lo è. Credo che nessuno possa sostenere il contrario. Quindi la formula esiste. Sta in una parola. Una semplice parola che qui si pronuncia a ogni pretesto, che non promette nulla, che spiega tutto, e che in ogni caso aiuta; Insciallah, come Dio vuole, come a Dio piace. Insciallah!

Questa la spiegazione, non la verità, perché la verità della formula della vita ogni personaggio se la trova da sé, nel suo coraggio e nella sua paura, in fondo all’anima che scopre di avere. C’è chi ama la guerra, perché la paura, il soffio della morte, per un istante, accende la scintilla della vita. C’è chi odia la guerra, perché si sente defraudato della propria giovinezza. C’è chi cerca la gloria, chi crede ancora nell’amore, chi si aggrappa all’amicizia o si getta nello squallore.

E’ un grande esame la guerra. E’ il più straordinario banco di prova cui un uomo possa ricorrere per misurarsi con la paura e scoprire di che cosa sia capace nel momento della verità.

Ti potrebbe sembrare strano, ma proprio in questa tensione verso la morte, contro la morte, la Fallaci urla da ogni riga il profondo amore per la vita. Il tentativo di trovarne la formula.

 Questo libro non è un classico, affatto. Questo libro è cronaca, te ne accorgerai fin dalle prime pagine. Questo libro è stato scritto la settimana scorsa, ma con un anticipo di venticinque anni.

Non era una profetessa, la Fallaci, no, non fosse altro che gli intellettuali che hanno provato a fare i profeti hanno sempre sbagliato. No, semplicemente aveva imparato una lezione:

…che dietro ogni bagno di sangue chiamato rivoluzione c’è un libro, dietro ogni insania costituzionalizzata c’è un libro, dietro ogni violenza collettiva c’è un libro, e dietro ogni genocidio, c’è un Main Kampf!

 

 

giovedì 8 gennaio 2015

Vicolo del Mortaio


 Autore: Naguib Mahfouz
Titolo: Vicolo del Mortaio
Anno di Pubblicazione: 1947
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin
 
Per chi vuol leggere un bel romanzo di vita.
 

«Il mattino rischiarò il Vicolo e un raggio di sole colpì la parte più alta del muro del bazar e del negozio di barbiere. Songor, il garzone del caffè, riempiva un secchio e bagnava per terra. Cominciava un’altra pagina di vita quotidiana e gli abitanti del Vicolo davano silenziosamente il benvenuto al nuovo giorno. […] Così la vita tornava a scorrere nel Vicolo nel modo consueto, […] ben presto ogni notizia si smorzava in quel lago placido e stagnante, dove, al giungere della sera, gli avvenimenti del mattino svanivano nell’oblio.»
Abbiamo tutti un nostro Vicolo del Mortaio: il bar in cui andiamo a prendere il caffè al mattino, il vicino di casa con cui scambiano due chiacchiere sulle scale, il compagno di giochi di infanzia che ancora incrociamo quando andiamo a trovare i nonni.
Vicolo del Mortaio è la via delle vite che si incontrano, si scontrano, si uniscono e si dividono. Le gioie, i dolori, i pettegolezzi, le confidenze, che negli anni si succedono.
«Il tramonto si annunciava e il Vicolo del Mortaio andava coprendosi di un velo bruno, reso ancora più cupo dalle ombre dei muri che lo cingevano da tre lati. Si apriva sulla Sanadiqiyya e poi saliva, in modo irregolare: una bottega, un caffè, un forno. Di fronte ancora una bottega, un bazar e subito la sua breve gloria terminava contro due case a ridosso, entrambe di tre piani.»
Vicolo del Mortaio è il delicato e ironico racconto di un crocevia di vite, di personaggi, buoni e cattivi, di piccole miserie e personali grandiosità, di successi e di insuccessi. Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale a Il Cairo, come in tutti i grandi romanzi, le vicende sono fuori dal tempo e fuori dalla storia, contemporanee al lettore di ogni periodo storico.

E proprio per questa profondità di lettura dell’animo umano, le differenze culturali, ideologiche e religiose si ammorbidiscono in un contesto, sono uno sfondo, un tocco di colore all’umanità, come a dire che, nonostante tutto, siamo solo e semplicemente uomini.

Io non so, francamente, se questo libro in sé meritasse il Nobel. So però che certamente lo meritava Nagib Mahfuz. Il Nobel per la Letteratura identifica un’opera rappresentativa dell’autore, che però viene premiato per tutta la sua produzione, che deve aver apportato un contributo significativo all’umanità.
Mahfuz era un docente universitario, era uno scrittore di fama internazionale, era uno studioso di eccezionale levatura intellettuale. Avrebbe potuto lavorare in qualsiasi Università occidentale, avrebbe potuto godere della protezione di uno Stato occidentale, avrebbe potuto continuare i suoi studi e il suo lavoro sotto scorta. Invece ha scelto di rimanere in Egitto, di continuare a metterci la faccia e alla fine è stato vittima di un attentato, che non lo ha ucciso, ma gli ha procurato un’invalidità permanente.

Io non credo che i due attentatori, estremisti islamici, che lo hanno accoltellato sulla soglia di casa sua, a cui lui aveva aperto la porta, come ospiti, avessero mai letto le sue opere.
Non credo che avessero letto le sue opere, e neanche altre, gli attentatori di New York, di Londra, di Madrid e di Parigi. Credo anzi che questa gente abbia letto un solo libro, per altro, senza nemmeno capirlo tanto bene.

Diceva Heine: «Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare gli uomini». Ed è questa, indubbiamente, una verità storica. Ma l’altra verità storica, è che, bruciati i libri e bruciati gli uomini, sopravvivono sempre le idee.
E’ necessario oggi leggere Vicolo del Mortaio. Perché è un bel libro, perché si legge volentieri e si legge volentieri perché è familiare, perché è un libro sulla vita.
Nessuna ideologia, nessuna cultura, nessuna idea, se buona, può far dimenticare che al centro di tutto c’è sempre l’uomo.

Solo una cattiva ideologia, solo una cultura deviata, solo un dio sbagliato può legittimare un uomo a uccidere altri uomini.
Compriamo questo libro, per difenderci, per attaccare, per sapere. Per ricordarci, sfogliandolo, che l’unica vera arma di distruzione di massa è l’ignoranza.

giovedì 1 gennaio 2015

Il Nome della Rosa


Titolo: Il Nome della Rosa
 
Autore: Umberto Eco
 
Anno di pubblicazione: 1980
 
Genere: Romano
 
Per tutti coloro che vogliono leggere un buon libro

 

«Lascio questa scrittura, non so pe chi, non so più intorno a che cosa: sta rosa pristina nomine, nomi nuda tenemus (la rosa, che era, ora esiste solo nel nome, noi possediamo solo nomi nudi)».

Credo di aver intrattenuto molti amici parlando di questo libro e ogni volta che lo leggevo tornavo a parlarne. Perché questo libro è perfetto. Anzi, è un esempio di perfezione, un vero exemplum. Lo è per due ragioni. 

E’ un esempio per la sua genesi: Umberto Eco sostiene che chiunque, dotato di informazioni di base, possa scrivere un libro perfetto. E’ un’antica disputa tra Scrittori per vocazione e Scrittori per mestiere. E’ un vero scrittore solo colui che scrive per talento o lo può essere anche colui che scrivere per tecnica? Eco dimostra che si può scrivere un libro eccellente solo con la tecnica. 

 Ma questo libro è un caso anche per la sua storia editoriale: un best seller, un successo che ancora perdura. E questo è un caso per il valore del libro. E’ possibile, Eco lo ha dimostrato, scrivere un best seller di alta qualità.

 Il successo di questo libro è probabilmente dovuto alla poliedricità delle sue trame, perché non ce n’è una sola, ma tante, al contempo distinte e intrecciate.

 Il Nome della Rosa è un giallo: in un’abbazia medievale si succedono una serie di omicidi, perpetrati con diabolica crudeltà e sofisticata intelligenza. Sta a Guglielmo da Baskerville, seguace del metodo deduttivo, il compito di scoprire il colpevole.

 Il Nome della Rosa è un romanzo storico: in un’abbazia medievale, luogo di conservazione e di produzione di cultura, si svolge una disputa tra i sostenitori dell’ortodossia cristiana e gli eretici; all’interno dell’ortodossia: tra i benedettini e i francescani; all’esterno dell’ortodossia: tra potere ecclesiastico e potere politico e all’interno di quest’ultimo tra potere religioso e potere secolare.

 «I semplici pagano sempre per tutti, anche per coloro che parlano in loro favore.» 

 Il Nome della Rosa è un romanzo filosofico: in un’abbazia medievale, in cui sono conservati manoscritti di immenso valore culturale, coloro che detengono il potere deliberano quale sapere buono sia da conservare e quale sapere cattivo debba andare perduto; si discute dell’accesso alla cultura, chi debba o possa sapere cosa, quali libri vadano studiati e quali debbano rimanere una conoscenza di pochi. 

 “Quindi non avrete una sola risposta alle vostre domande?”

“Adso, se l’avessi insegnerei teologia a Parigi”

“A Parigi hanno sempre la risposta vera?”

“Mai - disse Guglielmo - ma sono molti sicuri dei loro errori”

 Il Nome della Rosa è un romanzo politico: in un’abbazia medievale, in cui una rigida gerarchia definisce i ruoli di ogni membro, si innescano meccanismi di messa in discussione del potere. L’ingenuità di alcuni pretenderebbe una divisione più equa del potere, ma la reazione a queste velleitarie richieste di partecipazione porterà prima a immense crudeltà, poi all’implosione del sistema.

 «Anche una guerra santa è una guerra. Per questo forse non dovrebbero esserci guerre sante».

 Il Nome della Rosa è un romanzo sulla comunicazione: in un’abbazia medievale, in cui si copiano manoscritti di grande importanza per conservarli e diffonderli, l’accesso alla lingua, ovvero il grado di conoscenza della lingua, definisce le relazioni di potere. Ci sono i semplici, che non sanno né leggere, né scrivere; ci sono coloro che sanno scrivere, ma non sanno leggere; vi sono coloro che sanno sia leggere, sia scrivere; ci sono coloro che sanno leggere e scrivere in più lingue. La conoscenza è potere.

 «Non tutte le verrà sono per tutte le orecchie, non tutte le menzogne possono essere riconosciute come tali da un animo pio».

Il Nome della Rosa è un romanzo di semiotica: in un’abbazia medievale, baluardo e scrigno della conoscenza, accadono fatti inspiegabili. Si comprende, nella lettura, che nulla è inspiegabile, ma l’attribuzione di significati alle parole, ai gesti, alle forme e quindi ai fatti, è compito difficile. L’incapacità di attribuire significati corretti crea ulteriori drammi, ulteriori ingiustizie, ulteriori crudeltà. Solo la comprensione corretta dei fatti potrà portare chiarezza, ma questa chiarezza non corrisponde al lieto fine.

 Il Nome della Rosa è un romanzo metaforico: in un’abbazia medievale, che potrebbe essere un’accademia contemporanea, si dibatte di idee, di verità, di falsità, di mistificazione. Coloro i quali si ritengono i detentori della verità si dimostrano indegni di essa, anzi si dimostrano falsificatori; coloro i quali sostengono di cercare la verità, vorrebbero imporre la propria; coloro i quali si rimettono alle verità altrui, considerandosi incapaci di esprimerne una propria, ne saranno fagocitati; coloro i quali si batteranno per una varietà alternativa, saranno spazzati via. E’ la lezione della storia, è la lezione di ogni rivoluzione culturale, la lezione del ’68.

 «La bellezza del cosmo è data non solo dall’unità nella verità, ma anche dalla varietà nell’unità».

Il Nome della Rosa non è un capolavoro della Letteratura, perché, come Eco ha sempre affermato, non è prodotto del genio, ma della competenza. E nonostante questo, è un libro di eccezionale valore.

Il profondo amore che l’autore ha per la cultura, per le parole, per la libertà sono lì, per tutti. Per tutti, perché, a differenza di quanto blaterano i dei cattivi maestri, che nemmeno vorremmo per mediocri supplenti, è possibile fare cultura per tutti, perché la bellezza è per tutti.

 La volgarità, la banalità, il normale assurto a ideale, possono anche essere per tutti, ma non sono bellezza, tanto meno cultura. Ed è certo: tutti ne possiamo fare a meno.

«Sono solo gli uomini piccoli che sembrano normali».

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero