Per tutti coloro che vogliono leggere un buon libro
«Lascio
questa scrittura, non so pe chi, non so più intorno a che cosa: sta rosa
pristina nomine, nomi nuda tenemus (la rosa, che era, ora esiste solo nel nome,
noi possediamo solo nomi nudi)».
Credo di
aver intrattenuto molti amici parlando di questo libro e ogni volta che lo
leggevo tornavo a parlarne. Perché questo libro è perfetto. Anzi, è un esempio
di perfezione, un vero exemplum. Lo è per due ragioni.
E’ un
esempio per la sua genesi: Umberto Eco sostiene che chiunque, dotato di
informazioni di base, possa scrivere un libro perfetto. E’ un’antica disputa
tra Scrittori per vocazione e Scrittori per mestiere. E’ un vero
scrittore solo colui che scrive per talento o lo può essere anche colui che
scrivere per tecnica? Eco dimostra che si può scrivere un libro eccellente solo
con la tecnica.
Ma questo
libro è un caso anche per la sua storia editoriale: un best seller, un successo
che ancora perdura. E questo è un caso per il valore del libro. E’ possibile,
Eco lo ha dimostrato, scrivere un best seller di alta qualità.
Il successo
di questo libro è probabilmente dovuto alla poliedricità delle sue trame,
perché non ce n’è una sola, ma tante, al contempo distinte e intrecciate.
Il Nome
della Rosa è un
giallo: in un’abbazia medievale si succedono una serie di omicidi, perpetrati
con diabolica crudeltà e sofisticata intelligenza. Sta a Guglielmo da
Baskerville, seguace del metodo deduttivo, il compito di scoprire il colpevole.
Il Nome della Rosa è un romanzo storico: in un’abbazia
medievale, luogo di conservazione e di produzione di cultura, si svolge una
disputa tra i sostenitori dell’ortodossia cristiana e gli eretici; all’interno
dell’ortodossia: tra i benedettini e i francescani; all’esterno dell’ortodossia:
tra potere ecclesiastico e potere politico e all’interno di quest’ultimo tra
potere religioso e potere secolare.
«I semplici pagano sempre per tutti, anche per coloro che parlano in loro
favore.»
Il Nome della Rosa è un romanzo filosofico: in
un’abbazia medievale, in cui sono conservati manoscritti di immenso valore
culturale, coloro che detengono il potere deliberano quale sapere buono sia da
conservare e quale sapere cattivo debba andare perduto; si discute dell’accesso
alla cultura, chi debba o possa sapere cosa, quali libri vadano studiati e
quali debbano rimanere una conoscenza di pochi.
“Quindi non
avrete una sola risposta alle vostre domande?”
“Adso, se
l’avessi insegnerei teologia a Parigi”
“A Parigi
hanno sempre la risposta vera?”
“Mai - disse
Guglielmo - ma sono molti sicuri dei loro errori”
Il Nome della Rosa è un romanzo politico: in
un’abbazia medievale, in cui una rigida gerarchia definisce i ruoli di ogni
membro, si innescano meccanismi di messa in discussione del potere. L’ingenuità
di alcuni pretenderebbe una divisione più equa del potere, ma la reazione a
queste velleitarie richieste di partecipazione porterà prima a immense
crudeltà, poi all’implosione del sistema.
«Anche
una guerra santa è una guerra. Per questo forse non dovrebbero esserci guerre
sante».
Il Nome della Rosa è un romanzo sulla comunicazione:
in un’abbazia medievale, in cui si copiano manoscritti di grande importanza per
conservarli e diffonderli, l’accesso alla lingua, ovvero il grado di conoscenza
della lingua, definisce le relazioni di potere. Ci sono i semplici, che non
sanno né leggere, né scrivere; ci sono coloro che sanno scrivere, ma non sanno
leggere; vi sono coloro che sanno sia leggere, sia scrivere; ci sono coloro che
sanno leggere e scrivere in più lingue. La conoscenza è potere.
«Non tutte le verrà sono per tutte le orecchie, non tutte le menzogne
possono essere riconosciute come tali da un animo pio».
Il Nome della Rosa è un romanzo di semiotica: in
un’abbazia medievale, baluardo e scrigno della conoscenza, accadono fatti
inspiegabili. Si comprende, nella lettura, che nulla è inspiegabile, ma
l’attribuzione di significati alle parole, ai gesti, alle forme e quindi ai
fatti, è compito difficile. L’incapacità di attribuire significati corretti
crea ulteriori drammi, ulteriori ingiustizie, ulteriori crudeltà. Solo la
comprensione corretta dei fatti potrà portare chiarezza, ma questa chiarezza
non corrisponde al lieto fine.
Il Nome della Rosa è un romanzo metaforico: in
un’abbazia medievale, che potrebbe essere un’accademia contemporanea, si
dibatte di idee, di verità, di falsità, di mistificazione. Coloro i quali si
ritengono i detentori della verità si dimostrano indegni di essa, anzi si
dimostrano falsificatori; coloro i quali sostengono di cercare la verità,
vorrebbero imporre la propria; coloro i quali si rimettono alle verità altrui,
considerandosi incapaci di esprimerne una propria, ne saranno fagocitati;
coloro i quali si batteranno per una varietà alternativa, saranno spazzati via.
E’ la lezione della storia, è la lezione di ogni rivoluzione culturale, la
lezione del ’68.
«La bellezza del cosmo è data non solo dall’unità nella verità, ma anche
dalla varietà nell’unità».
Il Nome della Rosa non è un capolavoro della Letteratura,
perché, come Eco ha sempre affermato, non è prodotto del genio, ma della
competenza. E nonostante questo, è un libro di eccezionale valore.
Il profondo
amore che l’autore ha per la cultura, per le parole, per la libertà sono lì, per
tutti. Per tutti, perché, a differenza di quanto blaterano i dei cattivi
maestri, che nemmeno vorremmo per mediocri supplenti, è possibile fare cultura
per tutti, perché la bellezza è per tutti.
La
volgarità, la banalità, il normale assurto a ideale, possono anche essere per
tutti, ma non sono bellezza, tanto meno cultura. Ed è certo: tutti ne possiamo
fare a meno.
«Sono
solo gli uomini piccoli che sembrano normali».
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