giovedì 26 febbraio 2015

A Sangue Freddo


Titolo: A Sangue Freddo
 
Autore: Truman Capote
 
Anno di Pubblicazione: 1966
 
Genere: (Approssimativamente) Romanzo
 
Per tutti quelli che solitamente non leggono la cronaca nera.
 
 
 
Considera la teoria del caos: la metafora della farfalla che sbattendo le ali a Pechino provoca un tornado a New York. I matematici la definiscono dipendenza sensibile alle variazioni iniziali. Accade un fatto e questo modifica altri eventi apparentemente non collegati. Beh questo libro nasce così.

Novembre, 1959. Truman Capote è nella redazione del New Yorker. Questo Bogart forse un po’ troppo dandy del giornalismo sta selezionando le notizie degne di un articolo con alcuni colleghi, tra cui, tanto per dire, il Premio Pulitzer Harper Lee. 

Sta fumando con sufficienza una sigaretta mentre fa scivolare lo sguardo tra le righe battute a macchina di un dispaccio d’agenzia che tratta cronaca nera.  A un tratto si rivolge a Harper e sentenzia: “Andiamo in Kansas” e Harper che tarsale “In Kansas? E che ci andiamo a fare laggiù?”

Non lo sanno ancora, ma laggiù lei ci resterà per mesi, mentre Truman per anni.

Laggiù, un paio di giorni prima, due delinquenti comuni, che si erano incontrati in carcere, avevano sterminato una famiglia di agricoltori a scopo di rapina.

Truman parte con l’idea di scrivere un articolo di cronaca su questo fatto. L’articolo uscirà anni dopo, addirittura dopo la morte dei due protagonisti, talmente vasto da essere pubblicato a puntate, sul New Yorker e poi, in seguito, edito come libro: In Cold Blood, A Sangue Freddo.

Questa storia è già di per sé un romanzo! E la parola, romanzo, è scelta per ragioni precise: se osservi la copertina del libro, in basso a destra, trovi proprio questa dicitura. Ma in effetti non lo è.

Forse è stato scritto romanzo perché non si sa bene come definirlo. Non esiste un articolo di giornale lungo quasi quattrocento pagine: non è proprio concepibile. 

O forse, forse è che Truman è riuscito a fare qualcosa di veramente straordinario, di una bellezza del tutto nuova. Tu leggi A Sangue Freddo e sai, fin da subito, di cosa si tratta, perché non c’è proprio nessun mistero. E’ cronaca. 

Ma poi, piano piano, te ne dimentichi. Non è la tensione di un thriller, non è la brama di conoscere il colpevole di un poliziesco, no, affatto. E’ lo straordinario fascino della scrittura. E’ quella nobiltà spietata di restituire gli uomini a se stessi. Di offrire un volto al diavolo e scoprire che anche tu saresti disposto a berci una birra assieme.

Devi proprio fare uno sforzo per ricordarti che è una storia vera. Ecco il regalo che fa Truman, che gli brucerà la carriera e gli rovinerà la vita. Il regalo è il magnificare la realtà, il metabolizzare una storia che nasce da un atto di brutalità insulsa per restituirla in poesia.

Poesia e giornalismo, il giornalismo pure, quello delle cinque W (who, what, where, when, why - chi, cosa, dove, quando, perché). Un giornalismo che non riconosciamo neppure come tale, confusi dalla spettacolarizzazione del dolore e dal moralismo degli opinionisti.

Truman non commenta niente. Riporta. Non esprime la sua opinione, ripropone le opinioni dei presenti, le voci di tutti, gli animi di ogni delle persone coinvolte.

E neppure il titolo, A Sangue Freddo, è un giudizio. Lo scoprirai se lo leggerai, perché racchiude un concetto di straordinaria profondità, in uno scambio di battute, anche questo dissolto nelle cinque W.

A Sangue Freddo è stato definito in vari modi: il primo romanzo di New Joyrnalusm, un libro neo neo-realista, addirittura un libro denuncia. Come sovente accade quando ci si trova davanti a un prodotto dell’ingegno del tutto nuovo, si sente il bisogno di dare un nome, dimentichi che l’eccellenza è sempre fuori dagli schemi.

Io non saprei come definirlo. Non mi sentirei nemmeno di dirti che è un libro che merita di essere letto. Piuttosto, ti direi che sei tu che meriti di leggerlo.

«Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto della stato viene definita "laggiù". Un centinaio di chilometri a est del confine del Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli azzurri e l'aria limpida e secca, ha un'atmosfera più da Far West che da Middle West.»

giovedì 19 febbraio 2015

Eveline

Titolo Racconto: Eveline
 
Titolo Opera: Gente di Dublino
 
Autore: James Joyce
 
Anno di Pubblicazione: 1914
 
Genere: Racconti brevi
 
Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
Sedeva alla finestra osservando la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata alle tende e nelle narici aveva l'odore della cretonne polverosa. Era stanca.
 
Tre frasi. In tre frasi James Joyce ha già introdotto e rappresentato molto del personaggio. Bisogna essere acuti e spietati, per riuscire così, con un tratto di penna, a illuminare uno stato d’animo tanto profondo, in maniera così semplice.
 
Eveline è seduta. E’ seduta e guarda fuori dalla finestra. L’esistenza di Eveline è tutta qui: guadare la vita degli altri dalla finestra.
 
Tu leggi queste righe e ti senti sperare, lungo tutte le altre righe: speri che Eveline si alzi.
 
Cercò di ponderare ogni aspetto della questione. A casa aveva comunque tetto e cibo; aveva intorno tutti quelli che aveva conosciuto tutta la vita.
 
Eveline non è un personaggio verista o neorealista di un racconto qualunque: è una rappresentazione iconica. Joyce tratteggia un fenomeno, che lui definiva concettualmente paralisi, che è una sorta di stagnazione non solo privata ma collettiva, una confusa incapacità a reagire, una rassegnazione sociale della Dublino a lui contemporanea.
 
Era un duro lavoro, una vita dura, ma ora che stava per lasciarla non la trovava una vita del tutto indesiderabile.
 
Eveline è una persona media, che conduce una vita mediocre. Non è una situazione drammatica quella che vive, piuttosto una infelicità costante, delimitata e chiara. Eveline ha però un’opportunità, che potrebbe cambiare la sua condizione, che le offrire la possibilità, non la certezza, di essere felice. Ma non ha il coraggio di rischiare.
 
Di fronte alla scelta tra un’infelicità certa, familiare e per questo rassicurante e una felicità rischiosa, sì, ma possibile, lei sceglie la prima.
 
Joyce è talmente certo che Eveline non riuscirà a uscire dalla sua dimensione quotidiana che nemmeno scrive di quando Eveline si alza dalla poltrona. Lo comprendi leggendo che ha fatto i bagagli, che è andata al porto e che è a un passo dalla fuga.
 
Se andava, domani sarebbe stata sul mare con Frank, diretta a tutto vapore verso Buenos Aires.
 
Non scrive nemmeno, Joyce, che Eveline tornerà a sedersi, ancora più stanca, su quella poltrona, continuando a guardare le vite degli altri dalla finestra, forse rimpiangendo ciò che avrebbe potuto essere e non è stato o forse così frustrata da nemmeno conservarne il rimpianto.
 
Tutti i mari del mondo le si rovesciarono intorno al cuore. La stava attirando verso di essi: l’avrebbe affogata.
 
Eveline è il ritratto dei rassegnati senza coraggio, degli infelici senza qualità, degli impassibili spettatori della propria esistenza. 
 
Joyce non spiega il motivo. Non offre una filosofica visione della Nolontà tanta cara a Shopenauer. Non accondiscende a una psicologica interpretazione d’infanzia deprivata. Tanto meno ammicca a una comprensiva mancanza di costruzione del sé. Nemmeno si intravede una predestinazione religiosa o fatalistica. 
 
Al lettore spetta capirne il motivo. Al lettore l’introspezione, se ne ha il coraggio. Anche al lettore di oggi.
 
Perché questo racconto è straordinariamente attuale, se si pensa che i sociologi hanno coniato la locuzione neet generation per descrivere, oltre cent’anni dopo, senza poesia e senza slanci, le migliaia di Eveline che rinunciano.
 
Altre persone, altre Eveline, non rientrano nemmeno nella definizione di neet generation. Ma restano, ancora più confuse, sprofondate nel divano dei nipoti di Freud, avvinghiate come edera in smodate confidenze agli estranei sui bus o dilaganti nei social network, mentre praticano un’autodafé smaniosa, tenacemente sedute sulla propria ombra.
 
Si aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera di ferro (…) I suoi occhi non gli diedero nessun segno di amore o di addio o di riconoscimento.

giovedì 12 febbraio 2015

Per Chi Suona La Campana


Autore: Ernst Hemingway
 
Titolo: Per Chi Suona la Campana
 
Anno di Pubblicazione: 1940
 
Genere: Romanzo
 
Per chi ancora si incanta guardando le bolle di sapone
 
Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
 
 
 
 
Ogni morte d'uomo mi diminuisce
perché io partecipo all'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.
 
Dopo l’ultima pagina, ti rendi conto di non aver letto questo romanzo per il contenuto: questo è immediatamente annunciato, fin dal frontespizio. Ti torna l’eco di ciò che hai compreso sin dall’inizio, che fra l’altro non è neppure di Ernest Hemingway, ma di John Donne.

Ti accorgi che questo romanzo non lo hai letto neanche per la trama, che non prevede particolari elementi di innovazione o di originalità. Il protagonista deve compiere un atto di sabotaggio per conto di un gruppo di partigiani, la storia è tutta qui.

Riconosci che nel libro ci sono incontri interessanti, è naturale. Che c’è una storia d’amore, benissimo. Che ci sono riflessioni sul senso della vita. Persino che è presente una critica alla religione e alle ideologie. Ma tu non ha finito il libro per queste ragioni.

«Che strana faccenda la bigotteria. Per essere bigotti bisogna essere assolutamente certi che si ha ragione, e non c'è niente come la continenza che dia quella sicurezza e quel senso d'infallibilità. La continenza è il nemico dell'eresia»

C’è la descrizione di un contesto bellico, un anelito di libertà, un odore di guerra. Ma neppure questo è il motivo della tua tenace lettura.

«In una rivoluzione non si può consentire ad estranei di aiutarvi, né a chiunque altro di sapere più di quel che deve sapere. Egli aveva imparato questo: se una cosa è giusta nella sostanza, le menzogne di contorno non contano. C'erano però una quantità di menzogne. In principio, quel mentire non gli piaceva. L'odiava. Poi, più tardi, gli era perfino piaciuto. Era inevitabile, quando uno si trovava al centro delle cose, ma era una faccenda che corrompeva»

No, il punto è che, anche a volerla cercare, una ragione oggettiva per portare a termine il libro non appare proprio esserci. Sono consapevole che esistano metri cubi di carta critica che illustrano il perché e il per come, i significati profondi, che disputano su ciò che Hemingway non ha inteso affermare. Questo è il lavoro dei critici!

Il punto è che leggendo Hemingway sei da solo con lui. Ci siete soltanto voi due. E tu non puoi che ammettere, in fondo, che Hemingway è una bugia che tu stesso hai desiderato ascoltare. 

Leggere Hemingway è questo: è come credere che la vita non possa mai finire davvero. E’ come descrivere un viaggio che non hai fatto e che non farai. E’ come vedere il miraggio di un lago dove pensavi ci fosse soltanto deserto.

Leggi Hemingway per bisogno, il bisogno di vedere le farfalle invece della neve che cade, la primavera dove c’è l’inverno. Ma se la bellezza di questa riscrittura del mondo diventa immaginazione feconda, allora sì che Ernest può cambiare davvero un pezzetto di realtà.

Hemingway non dimostra di voler comunicare qualcosa, ma questo nulla è così bello e fruttuoso che gliene sei grato. Come l’arcobaleno miracoloso si tende sulla bolla di sapone, che un bambino sorpreso lascia volare in cielo dalle proprie dita. Per un momento magari, per un solo attimo, ma quella bolla sospesa può insegnare il volo, può indicare i colori, può davvero far comprendere che la pentola d’oro non è al fondo dell’arcobaleno, ma è l’arcobaleno stesso.

Come questo romanzo, come ogni romanzo scritto da Hemingway.

«Morire era niente e El Sordo non aveva dentro di sé una visione chiara della morte né la temeva. Ma vivere era l'immagine di un campo di grano che ondeggia al vento sul fianco di una collina. Vivere era un falco nel cielo. Vivere era una giara di terra piena d'acqua nella polvere della trebbiatura, col grano lanciato in aria e la pula che vola. Vivere era un cavallo tra le cosce e un fucile sotto una gamba e una collina e una valle e un fiume fiancheggiato d'alberi sulle rive, e l'estremo della valle e le colline al di là.»

 

giovedì 5 febbraio 2015

La Lettera Scarlatta


Titolo: La Lettera Scarlatta
Autore: NarhaNiel Hawtorne
Anno di pubblicazione: 1850
Genere: Romanzo
 
Per chi non vuole essere folla.
 
Una folla d'uomini barbuti, dagli abiti scuri e dai grigi cappelloni a punta, e di donne in cappuccio o a testa nuda, stava raccolta davanti a un edificio di legno, la cui porta di quercia massiccia era guarnita con bulloni di ferro.

No, questo non è l’inizio di un articolo di cronaca. E’ l’incipit de La Lettera Scarlatta. Attuale, non trovi? E attuale è il messaggio di questo straordinario romanzo.

Ester e è una donna che vive sola, il marito, che la folla non conosce, è assente da Boston da anni. Durante questa assenza, Ester si innamora di un altro uomo, da cui ha una figlia, Pearl. E questa è la pietra dello scandalo.

E la folla vuole avere soddisfazione dello scandalo. Adultera! In una società di puritani, bigotti e ipocriti, non è accettabile che qualcuno infranga le regole della morale comune. Deve essere punita!

Ester, dopo essere stata al pubblico ludibrio, viene condannata a portare sempre su vestiti una lettera di stoffa, la lettera A, affinché la sua colpa sia sempre visibile.

Bisogna di dire che Ester è una donna forte, come lo sono sempre gli anticonformisti. Accetta il castigo, rifiuta la colpa. Indossa la lettera, ma ne fa un ricamo scarlatto, elegante, quasi un oggetto di bellezza. E continua la sua vita, senza mai rivelare l’identità del padre di Pearl, allevando Pearl con determinato orgoglio, conservando intatto nell’animo l’amore e prodigandosi in atti di altruismo.

Ma è una strana sensazione, per un uomo dotato di qualche orgoglio e sensibilità, quella di sapere che il suo destino dipende da individui che non lo amano né lo capiscono, e dai quali — poiché la scelta è confinata a queste due alternative — preferirebbe subir danni che non ricever favori.

Ester va avanti per la sua strada, che sarà, alla lunga, decisamente migliore di quanto la folla che l’ha condannata avrebbe voluto. Una piccola rivincita dell’Autore, mi viene da dire, chè solitamente chi è vittima dell’ottusità difficilmente riesce a sopravviverle, quasi mai a batterla.

Ester vince. Perde il marito che, tornato, avrà come unico scopo la vendetta, che otterrà senza alcun giovamento.

Perde l’amato, che pur provando un sentimento sincero e profondo, non avrà mai il coraggio di dichiaralo. Stritolato dal senso di colpa, disgustato dalla sua stessa ipocrisia, avrà bisogno della morte per rivelare l’essenza della propria vita.

Perde la folla stupida, crudele e bigotta.

Pearl avrà la sua vita, vera conquista della madre. Pearl non si guarderà mai indietro, mentre la madre si. Tanto da desiderare di essere sepolta accanto al suo amato, con la lettera scarlatta A per epigrafe.

La lettera della colpa, la lettera della vergogna, ma singolarmente anche la lettera dell’Amore.

Ma esiste una fatalità, un sentimento così irresistibile e inevitabile da assumere la forza di un destino, il quale, quasi invariabilmente, obbliga gli esseri umani ad attardarsi, ad abitar come spettri le prossimità del luogo, dove qualche solenne e indimenticabile evento abbia conferito il suo colore a tutta la loro vita; e questa forza è tanto più irresistibile quanto più cupa l'ombra che affligge la vita loro.

Dal punto di vista storico, questo romanzo offre una descrizione attendibile della società puritana del New England, in cui si mescolano le aspettative di una comunità orientata verso il futuro con le tradizioni di una cultura radicata nel passato.

Dal punto di vista del contenuto, il romanzo si concentra sul tema della colpa, che viene considerata sotto diversi aspetti: quello dell’accusata, che la subisce; quella del vigliacco, che ne viene divorato; quello della folla che la dispensa con ferocia.

Dal punto di vista letterario, una trama avvincente scivola su uno stile elegante. Una grande dolcezza, una grande pietà, una grande comprensione viene riservata dall’Autore ai suoi personaggi. Un monito ai suoi lettori: una società che rende la morale legge, l’opinione comune dogma e la diversità colpa è una società ingiusta, ma più di tutto è una società infelice.

Siate sinceri! siate sempre sinceri. E mostrate francamente al mondo, se non proprio il vostro lato peggiore, almeno qualche aspetto, da cui possa essere noto il peggiore male che è in voi.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero