giovedì 28 maggio 2015

Memoria di una bigotta


 
Testo di riferimento: I Promessi Sposi
Anno di Pubblicazione: 1842
Genere: Romanzo
 
Perché l'intransigenza è sempre sospetta.
 
 
Mi è tornata in mente in questi giorni, Donna Prassede. Con allegria, perché quando i classici sussurrano all’orecchio te lo avevo detto, io mi sento sempre confortata. Nessun Oh tempora Oh mores di compiaciuto disprezzo per la decadenza dei costumi: l’uomo è così da sempre!
Buon per lei [Lucia, N.d.R.], che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche 5 figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre   eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza.
Donna Prassede è un personaggio minore dei Promessi Sposi, la incontri nella lettura delle vicissitudini di Lucia, nei capitoli XXV e XXVII.
Quasi inciampi in questo personaggio e, nel quadro complessivo del romanzo, solitamente la dimentichi con la stessa velocità con cui la storia si è dimenticata di tutte le Donne Prassede che nei secoli hanno frainteso l’ideale di cambiare il mondo con l’impiccarsi dei fatti altrui.
(…) era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza
L’irrilevanza di Donna Prassede ha un suo fascino, dovuto alla grazia tagliente del Manzoni. Donna Prassede è, dal punto di vista letterario, una perla. In un romanzo come I Promessi Sposi, di cui è stato scritto di tutto e di più, di cui potrei parlare per ore, senza esaurire il tema, di cui non saprò mai abbastanza, Donna Prassede è un dettaglio di fino, come un filo d’oro che arricchisce un arazzo.
Il personaggio, come avrai intuito, è una donna dell’alta società, che quindi, per la sfortuna di Lucia e di tante altre persone, non deve lavorare per mantenersi e che ha deciso di investire questo lusso che è il tempo libero in opere pie. Così dice lei, sottolinea il Manzoni. Si capisce subito che questa donna cafona e zelante non va a genio al suo Autore, che, con pochi tratti e molta ironia, la fa apparire, in sostanza, un’ottusa.
Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d'ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de' nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso vanno come possono. Con le idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve fare con gli amici: n'aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata: Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care…
Donna Prassede diventa, nel ritaglio di narrazione che Manzoni le concede, un altro dei tanti caratteri: se Don Abbondio è l’icona del pavido, se Don Rodrigo è un prepotente, se Padre Cristoforo è la grandezza, Perpetua addirittura diventa per antonomasia, nella lingua italiana, la tuttofare del Parroco, Donna Prassede ha un suo piccolo momento di gloria: lei è la bigotta
In buona compagnia, anche oggi. Perché le abbiamo davanti agli occhi al telegiornale, con le loro facce senza volto, le Donne Prassede del 2015; le troviamo immortalate nelle copertine dei giornali, compite in un rigore crudele senza rimorso; chiassose portavoce di un dio senza mandato
Manzoni si toglie uno sfizio, nel castigare con l’oblio, nel ridurre a comparsa, l’intransigenza priva di intelligenza. E questa sorta di leggerezza è molto consolante: le Donne Prassede ci sono sempre state, ma nessuno le ricorda.
Se non in poche righe, se non per celebrare la penna del Manzoni, che riesce a strappare un sorriso anche da un ghigno.
Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto.

venerdì 22 maggio 2015

1984


Autore: George Orwell

Titolo: 1984

Anno di Pubblicazione 1948

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin

Tu sei sicuro di non essere il Grande Fratello?
 
 
Ci sono le utopie e ci sono le distopie, poi c’è l’immondezzaio dell’umanità che di immenso ha solo la dimensione. 

Intendo dire: per immaginare un mondo perfetto ci va una certa immotivata fiducia negli uomini; per immaginare una distopia, l’esperienza ha già notevolmente aiutato; ma per realizzare che un concetto come quello di Grande Fratello si riducesse a essere lo spioncino degli annoiati sulla vita degli incapaci, era necessaria una crudele realtà.

D’altra parte non nutrivano per gli eventi pubblici neanche quell’interesse minimo per capire che cosa stava accadendo. L’incapacità di comprendere salvaguardava la loro integrità mentale. Ignoravano tutto, senza batter ciglio, e ciò che ingoiavano non le faceva soffrire perché non lasciava traccia alunna, allo stesso modo in cui un chicco di grano passa indigerito attraverso il corpo di un uccello.

Ecco qui il futuro che George Orwell, nel 1948, intuisce, piuttosto prossimo: il 1984. Appena fuori dall’esperienza totalitaria, l’Autore immagina una società sottoposta a omologazione, succube del potere, instupidita dal quotidiano: un nuovo totalitarismo che, non troppo diverso dal vecchio, si fonda sulla mancanza di consapevolezza.

Il Grande Fratello detiene il controllo attraverso un mezzo tecnologico innovativo: le telecamere. Tutti sono spiati, sempre, ovunque, con chiunque. 

Chiaramente il potere si esercita in molti altri modi, come la storia, e non la creatività, ci hanno insegnato, per esempio con la manipolazione della cultura, con la distribuzione delle risorse economiche o con il terrore.

Ma come in tutti i totalitarismi, come in tutte le utopie, che una volta realizzate non possono che diventare l’incubo di se sesse, c’è sempre qualcuno che esce dagli schemi.

Era un solitario fantasma che proclamava una verità che nessuno avrebbe mai udita. Ma per tutto il tempo impiegato a proclamarla, in un qualche misterioso modo la continuità non sarebbe stata interrotta. Non era con il farsi udire, ma con il resistere alla stupidità che si sarebbe potuta portare innanzi la propria eredità d0uomo.

Winston, il protagonista, integrato nel sistema, assorbito da esso, si accorge, pian piano, confutando se stesso, di non essere libero. Gli accade ciò che solo a un uomo può accadere: si innamora. E l’amore, che in questo contesto non ha nulla di romantico o di patinato, è il propellente per diventare consapevole.

Questa sarà la sua condanna. Ovvio. Ma questa è la vera utopia che si nasconde nella distopia di Orwell: che ci sia sempre un uomo, un Uomo, consapevole. 

C’è qualcosa di beffardo nella storia del Grande Fratello. L’innovazione che Orwell introduce, l’uso di telecamere diffuse in ogni strada, in ogni luogo di lavoro, è davvero fantascienza nel 1948. Per questo il Grande Fratello sembra così terribile, perché non esiste. Una specie di Uomo Nero per gli adulti.

Trent’anni dopo l’anno di ambientazione del romanzo: telecamere di sorveglianza in casa, al supermercato, in banca; Google Earth Google Street; satelliti per lo spionaggio internazionale; ma ancora di più nei nostri pc, nei nostri telefoni, nei nostri appartamenti. E tutto questo non ci fa più paura. Anzi: ci piace parlare con nostro zio in Australia e guardare fuori dalla sua finestra; ci piace condividere il panorama mozzafiato della scalata che abbiamo appena compiuto; e come rinunciare a un selfie con la migliore amica nel camerino di un negozio d’abbigliamento?!

Non ci sarebbe mai arrivato, Orwell, con tutta la sua sfiduciata fantasia. Non avrebbe creduto che noi posteri avremmo amato il Grande Fratello, che ne saremmo anzi stati accalorati sostenitori, impagabili fagocitatori della nostra privacy. Non sarebbe mai arrivato a pensare che noi saremmo stati il Grande Fratello.

Il Grande Fratello Vi guarda. Il monito che appariva ovunque per ricordare ai concittadini di Winston di essere sotto controllo. 

Non ci sarebbe mai arrivato Orwell a pensare che noi avremmo inocato con i nostri commenti su Facebook, con le nostre condivisioni su TripAdvisor, con i nostri geolocalizzatori, Grande Fratello, ti prego, guardami.

Non avrebbe mai immaginato, Orwell, che il Grande Fratello potesse esistere sul serio, pronto a rubarci i dati delle carte di credito, a sottrarci informazioni personali mentre facciamo un quiz, a rubarci l’identità con un clic.

Potremmo però noi immaginare una nuova utopia e sperare che il Grande Fratello sia un fratello maggiore, che ci protegge, nelle camere di ospedale, in un incidente stradale, durante un’aggressione e non un fratellastro che ci tradisce, infettandoci con un virus, privandoci dei nostri segreti, intercettando la nostra posizione per derubarci nell’androne di casa.

O forse, forse dovremmo iniziare a pensare che il Grande Fratello non sia un ente esterno a noi, ma la somma di noi tutti. Osservati e osservanti che compongono un unico sistema che si auto-alimenta e si auto-condiziona.

Se così fosse, chi potrebbe mai diventare, nella realtà altrettanto inquietante, il controllo del romanzo di Orwell? Non sia mai l’uomo il quale, per scelta o per necessità, risulti esterno al sistema stesso.
 
Non devi neanche pensare, Winston, che i posteri ti renderanno giustizia. I posteri non sapranno mai nulla di te. Tu sarai cancellato totalmente dal corso della storia (…) Di te non resterà nulla, né il nome in qualche archivio, né il ricordo nella mente di qualche essere vivente. Tu sarai annientato, sia nel passato, sia nel futuro.

giovedì 14 maggio 2015

Sostiene Pereira

Autore: Antonio Tabucchi

Titolo: Sostiene Pereira

Anno di Pubblicazione: 1994

Genere: Romanzo

Per inseguire le farfalle


Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava - Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, lui si trovava nell’imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il Lisbona aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte.

Succede così con i grandi scrittori: che ti dicono tutto in poche righe, con una semplicità che evoca l’ovvio pur essendo straordinario. Sono garbati, i grandi scrittori, ti mettono a tuo agio. Ti prendono per mano e mostrano ciò che è sempre stato davanti a te e tu non hai visto.

Pereira è un uomo senza grandi pregi, senza grandi peccati. Conduce la sua vita: ama la cultura francese, dialoga con il ritratto della moglie morta, attraversa la storia del regime politico nazionale senza aderirvi, ma anche senza obiezioni. Non nuoce a nessuno, non giova a nessuno. Fa il suo lavoro, con la pignoleria degli annoiati ingrigiti.

Pensa sovente alla morte Pereira, con una sfumatura intellettuale poco credibile perché non interiorizzata; pensa al dolore della perdita, che non ha nulla di culturale perché è un fatto personale.

Così scorre la vita di Pereira, consolante nella sua abitudinaria solitudine. Troppo dentro i fatti per vederli, troppo fuori dalla realtà per capirla. 

Poi, un giorno, tutto cambia. Incontra un ragazzo. A questi affida il compito di redigere dei coccodrilli, ovvero i necrologi di persone famose, preparati in anticipo rispetto all’effettiva dipartita, così, tanto per essere pronti all’occorrenza.

Questo incontro gli cambia la vita. Le vicissitudini che legano il ragazzo a Pereira e alla sua fidanzata e come queste si concludano sono la trama nel libro, per cui sarebbe inopportuno rivelarla.

Tanto più che la scrittura di Tabucchi è una corsa a perdifiato in un campo di papaveri, dietro la scia di una farfalla. Vola la parola, leggera in questo orizzonte soleggiato di umanità, di scandalo senza rancore, di dissenso istintivo, di idee senza ideali. Tu corri e corri, e una volta presa la farfalla cerchi di trattenerla, con il timore di non sentirne l’essenza tanto è leggera, con la tua incomprensione.

… vedono la personalità come una confederazione di varie anime, peché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

E quando la farfalla è lì, la senti nel palmo, viva e vivace, sai già che avrai un istante solo per guardarla e ricordarne il colore, perché quando si librerà nuovamente nell’azzurro, non ti apparterrà più.

Questo accade con Sostiene Pereira, il cui significato che vola leggero, ti sfiorerà per un momento chiarissimo

Ti sembrerà lampante il fatto che Pereira sia un mediocre senza qualità e che anche nel suo unico tentativo di riscuotersi non possa che esserlo in maniera mediocre.

O forse ti sembrerà che sia un uomo a cui è capitata una seconda occasione e ti immaginerai che il suo domani sia, o almeno possa essere, migliore del suo ieri.

Forse ancora ti sembrerà un eroe, perché in fondo, con un imperdonabile ma incolpevole ritardo, fa quello che può, e non è eroismo assoluto, ma è il massimo per un uomo qualunque. Ecco il massimo per un uomo qualunque, che contiene in sé un invito personale al lettore.

O ancora: semplicemente su quelle ali indugerai per clemenza, quella clemenza poco onorevole che tutti riserviamo a noi stessi. Osserverai con benevolenza Pereira, gentile concessione al  personale disimpegno, quell’assoluzione preventiva, quel non disturbare.

Succede così che quando chiudi l’ultima pagina, ti rendi conto che la farfalla tenuta prima fra le mani è volata via ma te ne resta la sensazione nello stomaco, e vagamente assomiglia alla nostalgia.

Non si sentì rassicurato, sentì invece una grande nostalgia, di cosa non saprebbe dirlo, ma era una grande nostalgia di una vita passata e di una vita futura, sostiene Pereira.



venerdì 8 maggio 2015

Trilogia sporca dell'Avana


Titolo: Trilogia Sporca dell'Avana



Anno di Pubblicazione: 2001

Genere: Racconto Lungo

Per conoscere Cuba



In quel periodo mi stavo allenando a non prendere niente sul serio. Un uomo può commettere tanti piccoli errori. E non importa. Ma se gli errori sono grandi e si ripercuotono sulla sua vita, l’unica cosa che può fare è non prendersi sul serio. Solo così evita di soffrire. La sofferenza prolungata può essere mortale.

L’isola di Cuba, per il sentire europeo, non è un territorio reale, così come per la maggior parte di coloro che ci vanno. Cuba è un immaginario condiviso, pieno di -ismi.

La Cuba contraffatta deve molto, dal punto di vista ideologico, a un socialismo reale che ha trovato una patria, almeno da parte di chi vive altrove e ridimensiona l’equanime distribuzione della povertà, preferendola all’iniqua distribuzione della ricchezza occidentale.

Cuba ancora, ma in maniera più triviale, evoca in certi smaniosi charteristi folle di nudi fantasmi femminili pronti a resuscitare le membra.

Come avrai capito, Cuba è un non-luogo mentale che provoca in me poco interesse antropologico, perché solitamente diviene, nelle fotografie dei turisti, un supermercato del divertimento, con scaffali, carrelli e prezzi uguali a ogni altro supermercato del mondo in cui si vendono vacanze.

Non ho quindi letto Pedro Juan Gutierrez per questa Cuba. Ho letto Gutierrez per Gutierrez. E un po’ perché lo consigliava Bukowski, in quanto il caro vecchio Hank, che a mio avviso ha sempre letto meglio di quanto non abbia mai scritto, sui libri difficilmente si sbaglia.

Veniamo tutti scaraventati nella giungla, così, a calci in culo. Si esce dalle gabbie ci si trova nel bel mezzo della lotta per la sopravvivenza, in piena giungla. Questo è il fatto. Usciamo dalle gabbie atrofizzati. Paurosi e sonnolenti. Senza la benché minima idea di come sia la lotta nella giungla. Ma tocca farlo lo stesso. Per trentacinque anni siamo rimasti chiusi nelle gabbie dello zoo. Ci passavano qualcosa da mangiare e un po’ di medicine, ma non avevamo la minima idea di come fosse il mondo al di là delle sbarre. 

Ecco, penso che questo possa dire molto a molti dei nostri.

Ti chiederai di cosa tratta il libro. Potrei dirti che è un’autobiografia discendente di un giornalista fallito. Fallito professionalmente perché incapace, nonostante la gabbia, di adeguarsi allo zoo che deve descrivere; fallito nei sentimenti e socialmente devastato. Neanche a dirlo, dedito a tutta una serie di peccati senza gioia, più ossessivi che frivoli: il rum, il sesso e le foglie secche a cinque punte.

Ci va un certo dignitoso odio per se stesso nel consumarsi con metodo, rimanendo consapevoli, vivi nonostante tutto.

E questo è il fil rouge del romanzo. Poi c’è la vera discesa agli inferi, che non è dentro il protagonista, ma tutt’attorno. Perché Pedro Juan è come il topolino ingoiato dal serpente: vivo nello stomaco della bestia, vivo ma inerme di fronte alla lenta e ineluttabile digestione. Pedro Juan descrive sempre quel momento preciso.

Solo pochi sopravvivono: i campioni e i vigliacchi.

Ma il topolino Gutierrez non è per nulla remissivo, anche nell’uso della lingua: ogni oggetto, ogni paesaggio, ogni incontro è descritto con una brutalità cui non si è avvezzi. Finalizzata intendiamoci, ma non all’ingegnerismo linguistico, perché non c’è tempo per questo nella miseria, ma a una precisa volontà di ferire.

Una parola, un pugno. Conserva Gutierrez quello stile allampanato che hanno tutti gli scrittori sudamericani, che qualcuno definisce il realismo onirico, come per Marquez o Soriano, tutti figli (adottivi) di Borges. C’è sempre un soffio d’esotico che ci sfugge e ci ammalia culturalmente. Per me è il rendere l’evanescenza con il calore tropicale, perché il caldo alla lunga appanna il lettore. C’è sempre qualcosa di allucinato, anche negli scrittori eleganti.
In Gutierrez di allucinato è l’esistere, il quotidiano, lo squallore e se Borges, da raffinato scrittore può scrivere libri di sabbia, Gutierrez può solo rimestare tra gli avanzi dell’umanità.

Non ho mai pensato di affollare questa Cuba, questo Avana, questo Malecón che non esiste e dopo aver letto Trilogia sporca de L’Avana, ho provato il desiderio di non andarci, per una sorta di aprioristico rispetto.

Perché Cuba non la capiremo senza smettere di andarci come se fossimo cubani. Abbiamo chiuso gli zoo per rispettare gli animali, in quanto certi che debbano vivere nel loro luogo naturale, mentre con questo popolo evidentemente non siamo sensibili fino a quel punto. Il libro di Gutierrez può aiutarci a comprendere, può invitarci a compiere un passo in avanti, verso noi stessi.

venerdì 1 maggio 2015

Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e di Mistr Hyde

Autore: Robert Louis Stevenson

Anno di Pubblicazione: 1886

Genere: Romanzo

Per chi cerca domande


Ma, facendo uscire sempre più spesso da me Hyde, la sua natura si rafforzava. Capii che se avessi continuato sarei diventato lui in maniera permanente e che si trattava di scegliere in termini definitivi.

E’ strano come le parole cambino forma e significato con il passare del tempo. Il titolo di questo romanzo, soprattutto nella sua contrazione Dottor Jekyll e Mister Hyde, è addirittura diventato un modo di dire. Nel linguaggio comune si usa questa espressione per indicare una persona che detiene un comportamento pericolosamente ambiguo.

Ah i guasti della storia! Perché il romanzo, in sé, tratta dell’esatto opposto. Il protagonista, il Dottor Jekyll, appassionato di studi sul comportamento umano, decide, da vero scienziato, di fare un esperimento usando come cavia se stesso. La ricerca conduce il Medico a creare una pozione che, ingerita, lo trasforma in un’altra persona, il Signor Hyde.

La trama, per altro assai intrigante, ruota attorno alle alterne vicende del protagonista che, di volta in volta, muta dallo scienziato alla di lui mutazione. 

E qui c’è la prima confutazione al luogo comune: il Dottor Jekyll e il Signor Hyde sono, a tutti gli effetti, due persone diverse. L’autore ci tiene così tanto a questo punto da attribuire perfino un aspetto fisico del tutto diverso tra i due.

Il Dottor Jekyll è un uomo per bene, rispettato, che gode di una certa considerazione e, diremmo noi oggi, socialmente integrato, che cammina a testa alta, alla luce del sole.

Il Signor Hyde invece è un uomo che non ha e non sa instaurare relazioni, perché nell’incontrare gli altri produce solo effetti negativi e vive di notte, cammina nell’ombra, oscurando il proprio volto.

Seconda considerazione: i due soggetti non hanno un comportamento ambiguo, ma due comportamenti coerenti in se stessi, ma del tutto opposti.

Da qui sorge la terribile riflessione del Dottor Jekyll, che si rende conto che i due non possono convivere in un’alternanza, ma che uno dei due dovrà avere il predominio.

Sia sul piano scientifico sia su quello morale, venni dunque gradualmente avvicinandomi a quella verità, la cui parziale scoperta m’ha poi condotto a un così tremendo naufragio; l’uomo non è veracemente uno, ma veracemente due.

E qui evocherei un’ulteriore confutazione: non una persona che agisce, per opportunismo o per malafede in modi diversi, ma una persona che si trova davanti alla scelta delle scelte: o essere coerentemente buono o essere coerentemente cattivo.

E qui però anche mi fermo. Ché se dovessi tentare una lezione di storia della letteratura dovrei, ma proprio dovrei, trattare del grande tema del doppio in letteratura. Se dovessi scrivere un saggio critico, potrei identificare le diverse interpretazioni che sono state date del romanzo. Potrei anche sbilanciarmi circa l’evoluzione dell’identità che da sociale diventa individuale. Oppure addentrarmi in considerazioni di tipo psicologico che affondano le radici nel manicheismo e nella Legge divina che divide il Bene e il Male.

Ma il Novecento è finito, quindi mi limito a suggerirti di leggere questo romanzo, senza il pregiudizio del luogo comune, così da  indurti a trovare le tue domande, come il Dottor Jekyll. 

Forse la domanda, almeno in questo caso, è più interessante della risposta.

E’ impossibile fare distinzioni basandoci sulle nostre esperienze; l’una è vivida e intensa, l’altra insignificante; l’una è piacevole, l’altra dolorosa ricordare; eppure non c’è modo di dimostrare quale sia quella che definiamo autentica o quella che riteniamo frutto di un sogno. Il passato oggi su una base instabile: un altro lieve strappo nel campo della metafisica ed eccocene derubati. 

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero