venerdì 31 luglio 2015

Storie di Ordinaria Follia


Autore: H. Charles Bukowski

Titolo: Storie di ordinaria follia

Anno di Pubblicazione: 1972

Genere: Racconti


Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: "Oh, è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga è una cosa tremenda." Poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz'anima, senza culo, né bocca, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avranno fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa.

Il nome di Henry Charles Bukowski è uno dei più noti e abusati nell’ambito della cosiddetta letteratura underground, sia da parte dei suoi devoti fan sia da parte dei suoi detrattori. 

Non è affatto difficile comprendere come lo stile ed i contenuti dei racconti di Bukowski possano generare una netta cesura fra chi lo ama e chi lo odia come scrittore, perché il nucleo centrale è sempre l’ostile estraneità e l’irrilevanza dei suoi personaggi rispetto al resto del consesso umano.

Alcol e sesso, violenza e degrado sono le ovvie conseguenze, su cui non si dovrebbe indulgere perché, a ben guardare, rappresentano dei semplici corollari, delle manifestazioni, di ciò che lo stesso autore definisce follia.

Vi son fondati motivi per mettere fuori legge LSD e affini (questi stupefacenti possono far uscire di senno) ma altrettanto dicasi del raccogliere barbabietole, dell'avvitare bulloni in una fabbrica d'auto, o lavar piatti o insegnare lettere all'università. Se mettessimo fuorilegge tutto ciò che fa diventar matta la gente, l'intera struttura sociale crollerebbe: il matrimonio, la guerra, i trasporti pubblici, il mattatoio, l'apicoltura, la chirurgia, tutto quanto. Qualsiasi cosa può far diventare matta la gente poiché la società è fondata su basi false. 

Bisognerebbe forse separare l’opera dalla biografia personale, intervento non certo semplice perché le esperienze dello scrittore sono quasi sempre trasposte sulle carta, ma se si considerasse la possibilità di far vivere i personaggi per quello che sono, ne emergerebbe una valutazione complessiva più compiutamente letteraria.

In questo libro di racconti, Storie di ordinaria follia, il rischio maggiore per il lettore è considerarlo come una celebrazione della vita alternativa alle convenzioni sociali o addirittura,una sorta di esaltazione del contro a ogni costo, un esempio che si proponga di attentare al senso comune. Bukowski invece rappresenta l’autentica follia dall’aperta e incurante esibizione di diversità, senza valore e senza paradigmi, che tuttavia risulta sovrapponibile alla follia e all’insensatezza della vita rispettabile. 

E ancora: La macchina da fottere, Dodici scimmie volanti che non volevano fornicare come si deve, Gli stupidi cristi, Violenza carnale, Una calibro 9 per pagare l'affitto, sono emblemi di ciò che esiste molte volte nei bassifondi delle città e, aspetto più inquietante, nel fondo dell’animo delle persone. Di qualunque persona. Questo aspetto è ciò che probabilmente irrita o addirittura offende chi non apprezza Bukowski: ciascuno di noi potrebbe essere uno dei degradati personaggi di cui si legge, a causa dei rovesci di fortuna oppure per libera scelta.

Ciò che emerge è la rassicurante considerazione bukowskiana che se anche così fosse, se anche si a toccasse il fondo dell’esistenza, non ne conseguirebbe comunque un giudizio negativo, perché non può esistere una pietra di paragone che sia valida in sé.

Per lo stesso motivo non c’è alcun compiacimento: l’Autore considera alla pari gli integrati ed i respinti, in quanto accumunati da un’insensatezza di fondo che permea ogni esistenza. Nessuna critica, nessuna retorica, nella ideologia di fondo.

Solo l’arte, intesa soprattutto come creazione letteraria, pittorica o musicale, è l’aspetto della vita che svolge il ruolo di discrimine fra essere umano e no, perché non apprezzare Hemingway o una composizione di Mahler determina l’appartenenza alla specie.

Solo i poveri conoscono il significato della vita:
chi ha soldi e sicurezza può soltanto tirare a indovinare.

giovedì 23 luglio 2015

Il Libro Nero delle Brigate Rosse


Autore: Pino Casamassima

Titolo: Il Libro Nero delle Brigate Rosse

Anno di Pubblicazione:

Genere:  Saggio


Recensione dii: Chiara Bortolin




Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino, ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo. (Aldo Moro)

 
Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è dovere farlo.

Ne avevamo fatto cenno per Il Gattopardo, se ricordi: c’è il sistema e c’è qualcuno che prova a operare fuori dal sistema. Il Terrorismo, in tutte le sue forme, da quello della nostra storia più recente alla cronaca, è l’emblema del contro-sistema.

Non è la mia opinione, intendiamoci. E’ una chiara e precisa rivendicazione di coloro i quali fanno parte delle organizzazioni rivoluzionarie.

Il Libro Nero delle Brigate Rosse non è un romanzo, non tratta di finzione narrativa, è un saggio storico che ripercorre la nascita e l’evoluzione della più rappresentativa organizzazione sovversiva italiana. L’oggettività dei fatti è ribadita nelle parti che succedono alla narrazione: un elenco di date, di nomi, di biografie. La storia nel suo significato più asettico.

L’Autore sceglie un approccio interessante. Solitamente si legge nei libri di storia contemporanea del Terrorismo come fenomeno che ha attraversato la storia, che è tautologicamente Storia del Sistema. Un certo approccio storico-sociologico addirittura considera il sistema così evoluto da prevedere e annientare un’anomalia interna: in questa interpretazione il Terrorismo sarebbe da considerare un fenomeno prevedibile, gestibile e, comodamente definito a posteriori, risolvibile.

L’Autore sceglie un punto di vista differente: racconta la storia del Terrorismo in un contesto storico più ampio che è quello dell’Italia post sessantottina. La Storia, quella grande, quella che ha vinto, diventa la base di questa narrazione di fatti, ma su questa base si stagliano le figure che per alcuni anni hanno dato vita a quell’organizzazione che ormai ricordiamo tutta d’un fiato lebrigaterosse.

Dentro le fabbriche, in alcuni circoli di partito, nei corridoio delle università, dentro i palazzi costruiti in fretta e nei giardinetti sotto casa, singoli individui compiono delle scelte, si incontrano, condividono idee e attivanp il primo nucleo trasversale di un’organizzazione terroristica.

I nostri punti di riferimento sono il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l’esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani.

Io mi sono sempre incagliata su questo. Non ho mai capito, lo dico sinceramente. Non ho mai capito come sia possibile che una persona possa fare un salto nell’ombra di questo genere. Lo so: vai al bar al mattino, sullo schermo trasmettono il telegiornale e mentre raschi lo zucchero dal fondo della tazzina, Mario, il barista, commenta la quotidiana strage di innocenti che si è verificata in un luogo che tu ignori non solo geograficamente. Alzi le spalle, scuoti la testa, Mario dice “Ma come si fa?” e dà un colpo di straccio al bancone, tu lasci una moneta mormorando “D’altronde…”

No, io me lo chiedo sul serio. Perché voglio capire. Mi metto nei panni scomodi di chi ha perso. Io sono una persona integrata: ho un lavoro o sto studiando, ho dei genitori oppure una moglie, magari un figlio, magari mi sono anche comprato una motoretta. A un certo punto ho una pistola in mano e sto sparando a uno sconosciuto in nome della lotta proletaria.
 
Mi ci romperò la testa sopra, non ci arrivo. Ammazzare una persona o rapirla o derubarla, non è uno scherzo, non è una cosa che possono fare tutti. Lo si dice, così, per scherzare, con una superficialità che ci si rimprovera un attimo dopo, ma farlo!

La motivazione che ci va. Io non ci arrivo. Ma queste persone ci sono arrivate e queste persone hanno dei nomi, dei volti delle storie che non sono diverse da altre, se non nell’epilogo.

Il libro ripercorre le biografie, personali e ideologiche, l’evoluzione delle idee, il susseguirsi delle decisioni che divennero fatti. Perché i fatti, quelli sì, non hanno punto di vista, ma solo punti fermi. Lapidari.

Nel libro l’Autore ci offre una carrellata di documenti che riproducono le analisi pro e contro il sistema, la lotta per un sistema alternativo che aveva dei passaggi da compiere, ma di cui, curiosamente, non si immaginava un futuro. Si progettavano nei minimi dettagli rapine, assalti, rapimenti in nome di un futuro che non era stata progettato. Si combatteva il sistema, in nome di un altro che si presupponeva migliore. Si faceva l’assalto al Palazzo d’inverno, non sapendo davvero che cosa si sarebbe fatto: dalla manutenzione alle scelte più radicali.

Io credo che sia importante conoscere i meccanismi del sistema, ma credo che sia altrettanto importante conoscere i meccanismi del contro-sistema, che è comunque un sistema, e che, se vincesse, diventerebbe il nuovo.

Io non ho capito e per questo continuo a studiare, continuo a leggere, e riapro ogni tanto questo libro, perché la domanda “Come si fa?” deve ricevere, prima o poi, una risposta cha vada oltre un sospiro.


 

venerdì 17 luglio 2015

Il Gattopardo

Autore: Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Titolo: Il Gattopardo

Anno di Pubblicazione: 1959

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin


Per giocare, bisogna conoscere le regole
 
 
Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.

I Gattopardi, ovvero chi gestisce il potere. Il punto focale del libro è che i Gattopardi ci sono e ci saranno sempre. Ci sarà sempre un ristretto gruppo di persone che gestisce un potere enorme. Questo romanzo tratta del sistema che alimenta se stesso.

Curioso è che nel sistema ci cadde anche l’Autore: perché le prime due case editrici che ricevettero il manoscritto lo rifiutarono. Mondadori e Einaudi lo rimandarono indietro, con tanti ringraziamenti e un secco diniego. Tant’è che Tomasi non lo vide mai pubblicato.

Il romanzo venne dato alle stampe postumo, dopo grandi insistenze, da Feltrinelli. Ricevette il premio Strega e divenne un best-seller in pochissimo tempo. Ebbe inoltre una trasposizione cinematografica, anch’essa di grande successo.

Curioso, ma significativo: il sistema ha le sue regole. La lezione che Tomasi avrebbe voluto impartire, si sarebbe realizzata come una profezia. Pare che Elio Vittorini ne fosse poi molto rammaricato, il suo più grande errore editoriale. Forse.

Il romanzo è ambientato in Sicilia, negli anni del Risorgimento e, attraverso i due protagonisti, descrive il passaggio del potere da aristocratico a borghese. La vicenda delinea questa lotta, combattuta con garbo nei salotti, per il mantenimento, nel mutamento, del potere.

Dinamiche sottili come stiletti: battaglie affrontate a suon di valzer, di corteggiamenti e di amene discussioni in studioli ovattati. Il volto pulito del potere che non riesce a coprire il fetore dei cadaveri che lascia per strada.

L'immagine di quel corpo sbudellato riappariva però spesso nei ricordi come per chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale. Perché morire per qualche d'uno o per qualche cosa, va bene, è nell'ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.

Il Risorgimento, come esempio, come contesto, per spiegare un meccanismo che fa parte della storia dell’uomo, da quando vive in gruppi sociali: ci sarà sempre qualcuno che gestisce il potere e qualcuno che lo demanda e lo riceve indietro sotto forma di Legge.

Il potere ha le sue regole, i suoi confini, i suoi giocatori. Il primo problema è capire chi detiene il potere. Il secondo problema invece è capire chi può entrare in gioco. Il terzo problema è giocare. Infine, chi può cambiare le regole del gioco e migliorarle. La faccenda ricorda una situazione di gioco tra bambini: qualcuno porta il pallone, qualcuno fa le squadre, qualcuno chiede di aggiungersi, qualcuno propone nuove regole. 

E’ evidente che qualcuno resta fuori dal gioco oggi, domani, sempre. E’ evidente che molti potranno giocare e rivelarsi campioni, mediocri o incapaci. E’ evidente che un buon lavoro di squadra potrebbe far vincere o perdere. Ma ancora più evidente è che il proprietario del pallone decide sempre. 

L’autore ci guida attraverso una narrazione avvincente e una struttura al contempo complessa e semplice alla scoperta di un gioco che non riguarda i bambini ma il sistema di potere. Il sistema e i sistemi perché, come ogni giocatore necessita di una squadra, gli uomini di potere necessitano di alleanze.

E ogni squadra avrà necessità di una squadra avversaria, un sistema precedente, un vecchio alleato divenuto nemico da sfidare. I veri campioni, i veri Gattopardi, riescono sempre a trovare una squadra in cui giocare, sono anzi cercati dalle squadre, i veri campioni sfilano il pallone del potere, se lo fanno passare e ne diventano i legittimi proprietari per abilità.

Tomasi di Lampedusa aveva fatto tesoro della sua esperienza familiare e aveva dato una lettura al passato recente, con tremendo anticipo sul futuro prossimo. Come dire: la palla ruota per il campo d’Italia, attraverso la storia, attraverso i personaggi, veri o immaginari.

Proprio perché la lezione è sempre quella, questo romanzo sembra così attuale. Il libro venne dato alle stampe nel 1959: dieci anni dopo sarebbero iniziati gli anni di piombo. Se qualche escluso dal campo prova a sottrarre il pallone per giocare un’altra partita, avrà due nemici, perché se c’è un pallone, c’è un solo campo. Se vuoi partecipare giochi nel sistema, non fuori di esso. Qualcuno non aveva imparato la lezione.
 
Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.

Il sistema può mutare, può assumere volti diversi, può sposare un’ideologia o un’altra, ma resta sempre e solo un gioco di potere in cui i veri campioni sono sempre i Gattopardi. 

venerdì 10 luglio 2015

De Senectute - Della Senilità

Autore: Marco Tullio Cicerone

Titolo: De Senectute

Anno di Pubblicazione: 44 a.c.

Genere: Saggio


Non per invecchiare bene, ma per vivere bene.

Cato Maior de senectute (Catone il Vecchio, sulla vecchiaia) è un’opera filosofica di Marco Tullio Cicerone, composta nel 44 a.C. La vicenda è ambientata nel 151 quando il personaggio da cui prende nome lo scritto, ovvero l’ottantatreenne Catone il Censore, sostiene un dialogo con Gaio Lelio Minore e Scipione Emiliano.

Tema dell’opera è la vecchiaia appunto, che sembra quasi portata in giudizio nel tribunale dei giovani. Avvocato d’eccellenza di questo scomodo imputato è il Censore, che considerando una dopo l’altra le maggiori accuse, che pure ciascuno di noi rivolgerebbe ancora alla vecchiaia, risponde evidenziando come molti degli stereotipi tramandati non  hanno veri fondamenti.

Questo scritto ha quindi ancora oggi la sua attualità, perché raccoglie in non molte pagine, alcune delle riflessioni più profonde che pochi esseri umani, anche se vissuti a lungo, potrebbero mai regalare.

Scopriamo ad esempio che la decadenza fisica, così temuta oggi ed esorcizzata tramite mille espedienti di cui nessuno può dirsi efficace, può apparire come fuorviante. Per tutte le epoche storiche, compresa quindi anche la nostra, soltanto una società intrinsecamente edonistica ed intellettualmente atrofizzata, può porre l’accento sulla mancanza di prestazioni fisiche ed escludere del tutto la somma di esperienza e di formazione rintracciabili in un vecchiezza di qualità. Su questo è bene intendersi subito: vivere a lungo non significa maggior autorevolezza, perché senza una continua volontà di accresce la propria personalità e le proprie conoscenze si ottiene semplicemente il prolungamento della stupidità e dell’inettitudine. 

Su questo Cicerone è politicamente scorretto, quindi sacrosanto: 

La vecchiezza che tutti sperano di raggiungere, per maledirla poi; tanta è l’incoerenza, tanta la bizzarria degli sciocchi. Dicono, costoro, che la vecchiezza sopraggiunge di soppiatto, più presto di quanti avessero pensato. Ora, prima di tutto, chi li ha obbligati a credere quello che non è? E come fa la vecchiezza ad arrivare, e di soppiatto poi, addosso alla giovinezza, più rapidamente di quanto questa raggiunga la fanciullezza? E poi la vecchiezza, per costoro, sarebbe veramente meno pesante se arrivassero a ottocento, anziché a ottant’anni? Perché una volta trascorso il tempo, per lungo che sia stato, non v’è consolazione capace di addolcire l’uggia di una vecchiaia stolta.

In questo brano, così come nell’intero libro, si possono trovare confutazioni straordinarie della banalità e della mediocrità di molti dei pensieri comuni, soprattutto che sentiamo pronunciare dagli anziani. Non pensate comunque che chi ha vissuto molto sia giudicato fondamentalmente inutile: la vecchiezza non è sinonimo di esperienza e non produce alcuna qualità superiore se deprivata della formazione, ma viceversa se coltivata nel corso di tutta una vita produce effetti straordinari.

Cicerone passa quindi a celebrare le caratteristiche di una vecchiezza raffinata dagli anni e giudica tale apporto alla società come indispensabile per gli uomini di governo. Il messaggio è chiaro: meglio un ottantenne intelligente e colto al governo piuttosto che l’elezione politica dovuta alla retorica della discendenza basata sulla famiglia, o aggiornando il concetto per i nostri tempi, sulla retorica del popolo ingenuo ma pulito.

Altra accusa, anch’essa smontata pezzo a pezzo da Cicerone, è quella che vuole la vecchiezza causa dell’affievolirsi dei piaceri e quindi della bellezza della vita: poco cibo, poco alcol, pochissimo sesso e zero divertimenti. Ma se queste abitudini, pur importanti per la cultura romana dell’epoca, non fossero così preziose? Anche in questo caso l’autore invita a soppesare nel modo giusto la qualità dei piaceri, che potrebbero giovare non soltanto al proprio sistema nervoso, ma anche agli altri: Cicerone parla dei piaceri dello spirito. 

Oggi potremmo tradurre il concetto sostenendo che l’individualismo ha un periodo da crisalide che consiste nel ricercare unicamente i piaceri fisici. Affermazioni del tipo: l’importante è stare bene con se stessi tendenzialmente escluderebbe la possibilità che si possa star bene con gli altri, perché disconosce il prossimo nella ricerca sterile della propria soddisfazione. E certamente chi vive unicamente ricercando la sensazione, una volta che essa si è esaurita, non può che giudicare pessima la vecchiaia; ma in effetti sarebbe da riconsiderare tutta la propria esistenza, come fondamentalmente sciocca e insensata. Il rimpianto della giovinezza è la giusta punizione per una vita inutile, potremmo chiosare.

Ultimo tema affrontato, il più arduo e il più ostico, riguarda la morte, perché la vecchiezza termina con la fine e quindi già soltanto per questo motivo dovrebbe essere disprezzata.

Cicerone invece, dapprima separa i due eventi, perché pur essendo più probabile la morte in età avanzata, essa non è esclusa nella giovinezza. In seguito spinge la riflessione al di là: la morte non è la fine della vecchiaia, ma la fine della vita e se la vita stessa non è stata impiegata nel modo migliore, ciò significa che non si lascerà alcuna presenza di sé. La propria esistenza quindi diventa paragonabile, per importanza generale, ad una mosca morta sul davanzale ad esempio, oppure a quella volta in cui ho vinto due euro al grattaevinci o al mandarino aspro che ho assaggiato venti minuti fa: la vita si sovrappone alla morte, in un anticipo tremendo.

L’autore in quest’ultima parte fa riferimento al concetto di anima ed alla sua immortalità come significanza escatologica. Tale tema oggi è più poco sentito, ma a Cicerone dobbiamo una parte importante delle caratteristiche dell’uomo moderno: il tentativo di vincere la morte attraverso ciò che si lascia al mondo e ciò che ha prodotto la nostra esistenza. In questo modo tuttavia dovremmo essere disposti a pensare a noi stessi non tanto come ad uno straordinario e definitivo fiore bellissimo, quanto piuttosto come ad un seme, che trasferisce ad un altro seme parte di sé: esso dovrà marcire perché possa germogliare, ma tenderà sempre ad innalzarsi verso il cielo, poiché se sbaglia direzione sprofonderà nella terra, come un assurdo vegetale con le radici esposte al vento che si nutre d’aria fresca.

venerdì 3 luglio 2015

Arancia Meccanica


 
Titolo: Arancia Meccanica
 
Anno di Pubblicazione: 1962
 
Genere: Romanzo
 
Folleggiammo alquanto con altri viaggiatori della notte da autentici sbarazzini della strada, poi decidemmo che era ora di eseguire il numero "visita a sorpresa": un po' di vita, qualche risata e una scorpacciata di ultraviolenza
 
 
Ho letto di recente un articolo che Burgess scrisse per spiegare le finalità e gli spunti che questo libro offre. E visto che Burgess si spiega benissimo da solo, non c’è proprio bisogno che io faccia brutta figura tentando di riassumerlo. Trovi l’articolo cliccando sul nome dell’Autore.

Vorrei invece soffermarmi su un altro aspetto di questo libro, da cui è stato tratto l’omonimo discusso film, ovvero l’immaginario.

La maggior parte delle persone non ha mai letto il libro, qualcuno ha visto il film, ma tutti pensano di avere un’opinione abbastanza circostanziata. Questo perché l’eco, a decenni dalla pubblicazione, è ancora forte.

La maggioranza delle persone ritiene che Arancia Meccanica sia la rappresentazione più eclatante della violenza peggiore: ingiustificata, discrezionale e appagante. Per questo le brave presone non leggono il libro, non guardano il film, vietano entrambi ai minori.

Che mi si dovrebbe spiegare, di grazia, perché si proteggano i minori da Arancia Meccanica, ma si consenta loro di accedere a contenuti di cronaca, di una crudeltà inusitata, con la leggerezza del quotidiano telegiornale mentre si cena.

Parrebbe che l’immaginario faccia più paura del reale, che la fantasia della crudeltà sia più pericolosa della sua realizzazione, che intuire il male sia peggio che guardarlo in faccia.

Arancia Meccanica tratta di violenza è vero, ma con intelligenza. La lettura del libro obbliga a rispolverare la propria. Nell’affrontare la lettura si è costretti a ragionare, a porsi delle domande, a rivedere i propri confini. Ci si scopre a stanare se stessi e a chiedersi: ma io da che parte sto?

Sto dalla parte di Alex, che nell’esercitare la propria libertà commette atti efferati, ma che nel non esercitarla viene annullato?

Sto dalla parte delle vittime casuali e innocenti, che legittimamente chiedono giustizia, ovvero l’esercizio legale e strutturato della violenza?

Sto dalla parte della Legge? Sto dalla parte della Morale? Quale legge? Quale morale? Perché entrambe cambiano nei tempi e non ci sarà mai un concetto definitivamente giusto o definitivamente sbagliato.

Allora forse è questo che fa paura: il dubbio. Non si rifiuta la violenza, ma il disorientamento che questa produce. Non si elimina il dolore, si ingurgita l’analgesico dell’ignorarlo. Non si sceglie di proteggere i minori da scene cruente, si evita di dare loro spiegazioni scomode.

Ci si racconta che il mondo è già brutto così, che tanto le disgrazie già accadono e che quindi non è il caso di infarcire la testa di altre balzane idee. In definitiva si sceglie di non sapere.

Arancia Meccanica ha due finali. E questo ti obbliga a scegliere. Non voglio sostenere che si deve per forza leggere questo libro, dico che se si sceglie di non leggerlo, si dovrebbe avere almeno chiaro il perché, come in tutte le scelte.

L’unico punto fondante dell’esercizio della libertà, in tutte le sue forme, è sempre la consapevolezza. Se si abdica alla consapevolezza, si rinuncia alla libertà. Il problema è che questo non sc esime dalla responsabilità e  neanche della violenza.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero