Titolo: De Senectute
Anno di Pubblicazione: 44 a.c.
Genere: Saggio
Non per invecchiare bene, ma per vivere bene.
Cato
Maior de senectute (Catone il Vecchio, sulla vecchiaia) è un’opera
filosofica di Marco Tullio Cicerone, composta nel 44 a.C. La vicenda è
ambientata nel 151 quando il personaggio da cui prende nome lo scritto,
ovvero l’ottantatreenne Catone il Censore, sostiene un dialogo con Gaio
Lelio Minore e Scipione Emiliano.
Tema
dell’opera è la vecchiaia appunto, che sembra quasi portata in giudizio
nel tribunale dei giovani. Avvocato d’eccellenza di questo scomodo
imputato è il Censore, che considerando una dopo l’altra le maggiori
accuse, che pure ciascuno di noi rivolgerebbe ancora alla vecchiaia,
risponde evidenziando come molti degli stereotipi tramandati non hanno
veri fondamenti.
Questo
scritto ha quindi ancora oggi la sua attualità, perché raccoglie in non
molte pagine, alcune delle riflessioni più profonde che pochi esseri
umani, anche se vissuti a lungo, potrebbero mai regalare.
Scopriamo
ad esempio che la decadenza fisica, così temuta oggi ed esorcizzata
tramite mille espedienti di cui nessuno può dirsi efficace, può apparire
come fuorviante. Per tutte le epoche storiche, compresa quindi anche la
nostra, soltanto una società intrinsecamente edonistica ed
intellettualmente atrofizzata, può porre l’accento sulla mancanza di
prestazioni fisiche ed escludere del tutto la somma di esperienza e di
formazione rintracciabili in un vecchiezza di qualità. Su questo è bene
intendersi subito: vivere a lungo non significa maggior autorevolezza,
perché senza una continua volontà di accresce la propria personalità e
le proprie conoscenze si ottiene semplicemente il prolungamento della
stupidità e dell’inettitudine.
Su questo Cicerone è politicamente scorretto, quindi sacrosanto:
La
vecchiezza che tutti sperano di raggiungere, per maledirla poi; tanta è
l’incoerenza, tanta la bizzarria degli sciocchi. Dicono, costoro, che
la vecchiezza sopraggiunge di soppiatto, più presto di quanti avessero
pensato. Ora, prima di tutto, chi li ha obbligati a credere quello che
non è? E come fa la vecchiezza ad arrivare, e di soppiatto poi, addosso
alla giovinezza, più rapidamente di quanto questa raggiunga la
fanciullezza? E poi la vecchiezza, per costoro, sarebbe veramente meno
pesante se arrivassero a ottocento, anziché a ottant’anni? Perché una
volta trascorso il tempo, per lungo che sia stato, non v’è consolazione capace di addolcire l’uggia di una vecchiaia stolta.
In
questo brano, così come nell’intero libro, si possono trovare
confutazioni straordinarie della banalità e della mediocrità di molti
dei pensieri comuni, soprattutto che sentiamo pronunciare dagli anziani.
Non pensate comunque che chi ha vissuto molto sia giudicato
fondamentalmente inutile: la vecchiezza non è sinonimo di esperienza e
non produce alcuna qualità superiore se deprivata della formazione, ma
viceversa se coltivata nel corso di tutta una vita produce effetti
straordinari.
Cicerone
passa quindi a celebrare le caratteristiche di una vecchiezza raffinata
dagli anni e giudica tale apporto alla società come indispensabile per
gli uomini di governo. Il messaggio è chiaro: meglio un ottantenne
intelligente e colto al governo piuttosto che l’elezione politica dovuta
alla retorica della discendenza basata sulla famiglia, o aggiornando il
concetto per i nostri tempi, sulla retorica del popolo ingenuo ma
pulito.
Altra
accusa, anch’essa smontata pezzo a pezzo da Cicerone, è quella che
vuole la vecchiezza causa dell’affievolirsi dei piaceri e quindi della
bellezza della vita: poco cibo, poco alcol, pochissimo sesso e zero
divertimenti. Ma se queste abitudini, pur importanti per la cultura
romana dell’epoca, non fossero così preziose? Anche in questo caso
l’autore invita a soppesare nel modo giusto la qualità dei piaceri, che
potrebbero giovare non soltanto al proprio sistema nervoso, ma anche
agli altri: Cicerone parla dei piaceri dello spirito.
Oggi
potremmo tradurre il concetto sostenendo che l’individualismo ha un
periodo da crisalide che consiste nel ricercare unicamente i piaceri
fisici. Affermazioni del tipo: l’importante è stare bene con se stessi
tendenzialmente escluderebbe la possibilità che si possa star bene con
gli altri, perché disconosce il prossimo nella ricerca sterile della
propria soddisfazione. E certamente chi vive unicamente ricercando la
sensazione, una volta che essa si è esaurita, non può che giudicare
pessima la vecchiaia; ma in effetti sarebbe da riconsiderare tutta la
propria esistenza, come fondamentalmente sciocca e insensata. Il
rimpianto della giovinezza è la giusta punizione per una vita inutile,
potremmo chiosare.
Ultimo
tema affrontato, il più arduo e il più ostico, riguarda la morte,
perché la vecchiezza termina con la fine e quindi già soltanto per
questo motivo dovrebbe essere disprezzata.
Cicerone
invece, dapprima separa i due eventi, perché pur essendo più probabile
la morte in età avanzata, essa non è esclusa nella giovinezza. In
seguito spinge la riflessione al di là: la morte non è la fine della
vecchiaia, ma la fine della vita e se la vita stessa non è stata
impiegata nel modo migliore, ciò significa che non si lascerà alcuna
presenza di sé. La propria esistenza quindi diventa paragonabile, per
importanza generale, ad una mosca morta sul davanzale ad esempio, oppure
a quella volta in cui ho vinto due euro al grattaevinci o al mandarino
aspro che ho assaggiato venti minuti fa: la vita si sovrappone alla
morte, in un anticipo tremendo.
L’autore
in quest’ultima parte fa riferimento al concetto di anima ed alla sua
immortalità come significanza escatologica. Tale tema oggi è più poco
sentito, ma a Cicerone dobbiamo una parte importante delle
caratteristiche dell’uomo moderno: il tentativo di vincere la morte
attraverso ciò che si lascia al mondo e ciò che ha prodotto la nostra
esistenza. In questo modo tuttavia dovremmo essere disposti a pensare a
noi stessi non tanto come ad uno straordinario e definitivo fiore
bellissimo, quanto piuttosto come ad un seme, che trasferisce ad un
altro seme parte di sé: esso dovrà marcire perché possa germogliare, ma
tenderà sempre ad innalzarsi verso il cielo, poiché se sbaglia direzione
sprofonderà nella terra, come un assurdo vegetale con le radici esposte
al vento che si nutre d’aria fresca.
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