venerdì 10 luglio 2015

De Senectute - Della Senilità

Autore: Marco Tullio Cicerone

Titolo: De Senectute

Anno di Pubblicazione: 44 a.c.

Genere: Saggio


Non per invecchiare bene, ma per vivere bene.

Cato Maior de senectute (Catone il Vecchio, sulla vecchiaia) è un’opera filosofica di Marco Tullio Cicerone, composta nel 44 a.C. La vicenda è ambientata nel 151 quando il personaggio da cui prende nome lo scritto, ovvero l’ottantatreenne Catone il Censore, sostiene un dialogo con Gaio Lelio Minore e Scipione Emiliano.

Tema dell’opera è la vecchiaia appunto, che sembra quasi portata in giudizio nel tribunale dei giovani. Avvocato d’eccellenza di questo scomodo imputato è il Censore, che considerando una dopo l’altra le maggiori accuse, che pure ciascuno di noi rivolgerebbe ancora alla vecchiaia, risponde evidenziando come molti degli stereotipi tramandati non  hanno veri fondamenti.

Questo scritto ha quindi ancora oggi la sua attualità, perché raccoglie in non molte pagine, alcune delle riflessioni più profonde che pochi esseri umani, anche se vissuti a lungo, potrebbero mai regalare.

Scopriamo ad esempio che la decadenza fisica, così temuta oggi ed esorcizzata tramite mille espedienti di cui nessuno può dirsi efficace, può apparire come fuorviante. Per tutte le epoche storiche, compresa quindi anche la nostra, soltanto una società intrinsecamente edonistica ed intellettualmente atrofizzata, può porre l’accento sulla mancanza di prestazioni fisiche ed escludere del tutto la somma di esperienza e di formazione rintracciabili in un vecchiezza di qualità. Su questo è bene intendersi subito: vivere a lungo non significa maggior autorevolezza, perché senza una continua volontà di accresce la propria personalità e le proprie conoscenze si ottiene semplicemente il prolungamento della stupidità e dell’inettitudine. 

Su questo Cicerone è politicamente scorretto, quindi sacrosanto: 

La vecchiezza che tutti sperano di raggiungere, per maledirla poi; tanta è l’incoerenza, tanta la bizzarria degli sciocchi. Dicono, costoro, che la vecchiezza sopraggiunge di soppiatto, più presto di quanti avessero pensato. Ora, prima di tutto, chi li ha obbligati a credere quello che non è? E come fa la vecchiezza ad arrivare, e di soppiatto poi, addosso alla giovinezza, più rapidamente di quanto questa raggiunga la fanciullezza? E poi la vecchiezza, per costoro, sarebbe veramente meno pesante se arrivassero a ottocento, anziché a ottant’anni? Perché una volta trascorso il tempo, per lungo che sia stato, non v’è consolazione capace di addolcire l’uggia di una vecchiaia stolta.

In questo brano, così come nell’intero libro, si possono trovare confutazioni straordinarie della banalità e della mediocrità di molti dei pensieri comuni, soprattutto che sentiamo pronunciare dagli anziani. Non pensate comunque che chi ha vissuto molto sia giudicato fondamentalmente inutile: la vecchiezza non è sinonimo di esperienza e non produce alcuna qualità superiore se deprivata della formazione, ma viceversa se coltivata nel corso di tutta una vita produce effetti straordinari.

Cicerone passa quindi a celebrare le caratteristiche di una vecchiezza raffinata dagli anni e giudica tale apporto alla società come indispensabile per gli uomini di governo. Il messaggio è chiaro: meglio un ottantenne intelligente e colto al governo piuttosto che l’elezione politica dovuta alla retorica della discendenza basata sulla famiglia, o aggiornando il concetto per i nostri tempi, sulla retorica del popolo ingenuo ma pulito.

Altra accusa, anch’essa smontata pezzo a pezzo da Cicerone, è quella che vuole la vecchiezza causa dell’affievolirsi dei piaceri e quindi della bellezza della vita: poco cibo, poco alcol, pochissimo sesso e zero divertimenti. Ma se queste abitudini, pur importanti per la cultura romana dell’epoca, non fossero così preziose? Anche in questo caso l’autore invita a soppesare nel modo giusto la qualità dei piaceri, che potrebbero giovare non soltanto al proprio sistema nervoso, ma anche agli altri: Cicerone parla dei piaceri dello spirito. 

Oggi potremmo tradurre il concetto sostenendo che l’individualismo ha un periodo da crisalide che consiste nel ricercare unicamente i piaceri fisici. Affermazioni del tipo: l’importante è stare bene con se stessi tendenzialmente escluderebbe la possibilità che si possa star bene con gli altri, perché disconosce il prossimo nella ricerca sterile della propria soddisfazione. E certamente chi vive unicamente ricercando la sensazione, una volta che essa si è esaurita, non può che giudicare pessima la vecchiaia; ma in effetti sarebbe da riconsiderare tutta la propria esistenza, come fondamentalmente sciocca e insensata. Il rimpianto della giovinezza è la giusta punizione per una vita inutile, potremmo chiosare.

Ultimo tema affrontato, il più arduo e il più ostico, riguarda la morte, perché la vecchiezza termina con la fine e quindi già soltanto per questo motivo dovrebbe essere disprezzata.

Cicerone invece, dapprima separa i due eventi, perché pur essendo più probabile la morte in età avanzata, essa non è esclusa nella giovinezza. In seguito spinge la riflessione al di là: la morte non è la fine della vecchiaia, ma la fine della vita e se la vita stessa non è stata impiegata nel modo migliore, ciò significa che non si lascerà alcuna presenza di sé. La propria esistenza quindi diventa paragonabile, per importanza generale, ad una mosca morta sul davanzale ad esempio, oppure a quella volta in cui ho vinto due euro al grattaevinci o al mandarino aspro che ho assaggiato venti minuti fa: la vita si sovrappone alla morte, in un anticipo tremendo.

L’autore in quest’ultima parte fa riferimento al concetto di anima ed alla sua immortalità come significanza escatologica. Tale tema oggi è più poco sentito, ma a Cicerone dobbiamo una parte importante delle caratteristiche dell’uomo moderno: il tentativo di vincere la morte attraverso ciò che si lascia al mondo e ciò che ha prodotto la nostra esistenza. In questo modo tuttavia dovremmo essere disposti a pensare a noi stessi non tanto come ad uno straordinario e definitivo fiore bellissimo, quanto piuttosto come ad un seme, che trasferisce ad un altro seme parte di sé: esso dovrà marcire perché possa germogliare, ma tenderà sempre ad innalzarsi verso il cielo, poiché se sbaglia direzione sprofonderà nella terra, come un assurdo vegetale con le radici esposte al vento che si nutre d’aria fresca.

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Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero