venerdì 30 ottobre 2015

Cuore

Titolo: Cuore

Autore: Edmondo De Amicis

Anno di Pubblicazione: 1886

Genere: Romanzo

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: – Dunque, Enrico, siamo separati per sempre?

Disse di De Amicis Benedetto Croce: Non artista puro, ma moralista. Il Carducci, che lo soprannominava Edmondo dei languori, non fu più benevolo: Ha messo la tenerezza dove non c’era ragione pura e la soavità della buona promessa dove non c’era che un ansito di lotta. Artificioso, mediocre, stucchevole erano gli aggettivi più garbati che le recensioni riservarono a Cuore. De Amicis, serafico, si limitò a rispondere alla marea di critiche che sembrava sommergere la sua carriera I grandi scrittori destano meraviglia, l’entusiasmo; gli altri solo simpatia. Ebbene anche far nascere simpatia mi sembra un effetto che giustifichi un libro. Perché il grande dovrebbe escludere il piccolo? Il bellissimo escludere il grazioso?

Che Cuore non sia un capolavoro della letteratura è inopinabile, ma è altrettanto evidente che l’Autore non si proponeva di scrivere un romanzo di altissimo livello letterario, Lo dimostrano anche le scelte stilistiche. Prima di tutto De Amicis scelse un genere letterario, il diario, che di per sé non ha proprio nulla di nobile. Fosse almeno stato un epistolario, via, una possibilità ci sarebbe stata, ma il diario è già uno taglio minore. Per giunta, l’espediente del narratore in prima persona è affidata a un bambino: tanto valeva buttare il calamaio dalla finestra. Un bambino non ha proprio nulla da insegnare al mondo! I temi, poi: la vita quotidiana di bambinetti, la scuola elementare, le letterine di mamma e papà, i racconti mensili di eroismo infantile.

Io mi immagino il Croce, che si dedicava al dilemma tra contenuto morale dell’estetica e il contenuto estetico della morale, che si immerge nella lettura di queste banalità!

Resta l’onestà che si chiede a uno scrittore: di mantenere la promessa fatta, di rispettare il tacito accordo con il lettore. De Amicis scrisse un libro che si proponeva di educare le giovani generazioni, di ispirare un amor patrio che non esisteva, in quanto la Patria era neonata, di instillare alcuni valori civili, di condivisione e di appartenenza a una collettività. Il libro era, per sua stessa natura, rivolto ai bambini, lo lessero in massa anche gli adulti!

Tanto severo sprezzo per un libro per l’infanzia da parte dei detentori del sapere pare persino eccessivo. Un libro per bambini, letto anche dai grandi, tutto qui. Come se gli adulti, poi, leggessero sempre libri di alto profilo! Non succedeva a fine Ottocento più di quanto non succeda ora!

Al netto di queste considerazioni, personalmente l’ho riletto con molta tenerezza, Cuore. Prima di tutto perché nonostante l’italiano desueto, resta una narrazione semplice, snella, pulita. In secondo luogo perché, pur nell’assenza di profondità psicologica, i caratteri stilizzati dei personaggi hanno un che di familiare e di esperito: abbiamo avuto tutti un compagno spilorcio, un compagno di eccezionale bravura, un compagno buono fino a sembrare babbeo. E i sorrisi bonari che la lettura ci strappa, vanno oltre il giudizio critico.

De Amicis credeva che fosse possibile creare un’Italia unita non solo geograficamente; che si potessero creare, attraverso la scuola e la famiglia, dei cittadini leali, nei confronti dello Stato e degli altri Cittadini; credeva che potesse esistere un mondo in cui l’uguaglianza si fondava sul rispetto delle diversità, fossero questo sociali, economiche, culturali.

Cuore ebbe un enorme successo alla sua uscita e rimane uno dei libri della letteratura italiana più venduti e più tradotti. Un bella storia di buoni sentimenti, di virtù premiate e cattiverie punite: una favola, insomma, che tutti noi adulti, non solo i grandi Scrittori, sappiamo essere lontana dal vero, ma che regala un po’ di dolcezza, senza pretese.

venerdì 23 ottobre 2015

Alda Merini; una vita per la poesia

Veleggio come un ombra
nel sonno del giorno
e senza sapere
mi riconosco come tanti
schierata su un altare
per essere mangiata da chissà chi.
Io penso che l'inferno
sia illuminato da queste stesse
strane lampadine.
Vogliono cibarsi della mia pena
perchè la loro forse
non s'addormenta mai.




E questa è Poesia. Potrei argomentare perché e per come, tecnicamente, si può affermare che questa sia Poesia, ma gli elementi retorici, che esaltano chi conosce una materia, solitamente annoiano chi della medesima vuol cogliere solo la bellezza.


La bellezza ha il pregio di chiarirsi da sola: è una sorta di malia, un istinto innato, un’intuizione. Succede questo con la Poesia perché si rende un distillato d’esperienza, una narrazione universale, un itinerario nell’animo degli uomini. I temi di cui un singolo componimento tratta sono sempre goccioline di questo distillato di vita. Per ciò la Poesia è familiare anche quando non la si studia per professione.


Alda Merini trattò nella sua vita di artista diversi temi: la mistica, la malattia mentale, il rapporto con il mondo, la bellezza, la sofferenza, la solitudine e l’amore. La sua voce, che appare con un sussurro orfico, è la rassicurante dolcezza di una veggente. Gli autentici Poeti spingono così a fondo il proprio sguardo nell’abisso umano che l’orizzonte sembra dissolvere.


E molte volte ci si dissolvono anche loro, perché non scelgono ma semplicemente vivono, la Poesia. Si può decidere di fare il cardiochirurgo, il muratore, anche lo scrittore, ché d’ottimi mestieranti della penna sono carichi i pallet, ma non si sceglie la Poesia: si è Poeta. Se così non fosse, bisognerebbe essere veramente folli per augurarsi la Poesia, la quale pretende l’abdicazione dalla propria esistenza per comprenderne l’essenza. Tanto più che di buono, l’essere Poeta, ha veramente poco. Certamente non si campa di quello, ché anzi i Poeti sono soliti spuntare il proprio intelletto per apparecchiare la cena. Certamente non si è Poeti per il successo: i Poeti vendono meno libri delle nobili suggeritrici di raffinate ricette per le patate lesse. E sicuramente non si è Poeti per la gloria, che se arriva, molto spesso lucida soltanto i solchi delle lettere scolpite sui marmi delle lapidi.


Alda Merini non scelse di fare il Poeta più di quanto non scelse di soffrire di un disturbo bipolare o di ammalarsi di sarcoma. Fu Poeta perché non poteva essere altro. Lei stessa affermava la frustrazione dello scrivere, del dover inchiodare le parole su carta, quando queste sarebbero potute essere semplicemente un volo di farfalla. Tant’è che in molte raccolte dei suoi componimenti non c’è un ordine cronologico, ma tematico, ricostruito a posteriori dai curatori. 


Diceva Catone: Rem tene, verba sequentur, che si può tradurre con: se possiedi il concetto, le parole verranno da se stesse. Per questo le parole sono supreme per i Poeti: le parole sono la forma significante del pensiero e poiché il loro pensiero è l’essenza dell’esperienza, la parola può prendere una e una forma soltanto.


La bellezza che i Poeti liberano è la loro condanna: un perenne esilio dai cicli del giorno, un’incolmabile solitudine, un eccesso di vita che li estranea da se stessi. La Poesia, in fondo, è un lungo addio.

Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita. 

venerdì 16 ottobre 2015

Chi ha paura di Lombroso

La ratio che ha spinto a disturbare la Magistratura, per reclamare il silenzio del Museo di Antropologia Criminale di Torino, mi è ostica e altrettanto mi riesce la sollecita verve della protesta parallela sui social network. L'accusa di razzismo a danno delle persone originarie del Sud Italia sarebbe di per sé più affine al ridicolo che al tragico.

Cesare Lombroso era un medico, che spese la propria vita nel cercare una motivazione di origine organica ai comportamenti criminali. Era sua convinzione che le ragioni alla predisposizione criminale fossero di natura anatomica e che quindi si potessero individuare delle anomalie nella struttura cerebrale, direttamente responsabili del comportamento deviato. Se così fosse stato, la tendenza criminale avrebbe avuto inoltre una sorta di ereditarietà, tramite cui si sarebbe spiegata una discendenza predestinata al crimine. Solo in un secondo tempo, Lombroso iniziò a considerare come elementi influenti anche i fattori socioculturali.
Le ricerche di Lombroso furono condotte comunque con un metodo rigoroso: da un lato, la sua formazione di medico lo spinse ad analizzare centinaia di cervelli appartenuti a delinquenti abituali, per la ricerca di anomali anatomiche; dall’altro visitò per anni manicomi e bagni penali, acquisendo innumerevoli testimonianze, al fine di comprendere cosa avesse portato le persone a perpetrare dei crimini, quale fosse il loro modus operandi e quali sentimenti avessero provato, così da compiere una ricerca che noi oggi definiremmo psicologica. Non ultimo, analizzò e conservò i manufatti che i detenuti e i ricoverati produssero, convinto che le anomalie cerebrali determinassero anche i tratti artistici, creativi ed intellettivi.
Molte delle conclusioni a cui Lombroso era giunto si sono dimostrate in seguito errate, in particolar modo il legame tra anomalia cerebrale e fisiognomica, e da un punto di vista scientifico, strictu sensu, sono oggi considerate pseudoscienza.
E’ necessario tuttavia riconoscere alcuni meriti di questo alacre studioso: Lombroso fu il primo a considerare la possibilità che ci fosse un nesso tra malattia e comportamento deviato, relazione che oggi è riconosciuta sia in termini legali, con l’infermità mentale, sia in termini clinici e nelle diverse sfere delle psicopatologie, delle neuropatologie e della genetica; Lombroso fu quindi uno dei primi ad ascoltare, e dunque a dare voce a una categoria sociale di esclusi, di emarginati e di fuoriusciti dalla società; le sue ricerche diedero origine all’indagine scientifica per fini giudiziari e impulso agli studi sociologici, finalizzati alla ricerca di motivazioni ambientali e familiari, che determinano quello che noi ora definiamo disagio; contribuì infine a contrastare i pregiudizi morali e religiosi, che gravavano sui miserabili e che risultavano irricevibili per i suoi principi positivisti. 
Il Museo, da lui fondato nel 1898, conserva oggi il materiale da lui raccolto: i reperti anatomici, gli scritti, gli strumenti, i manufatti dei detenuti e una collezione di ricostruzioni facciali di alcuni pazienti che furono oggetto dei suoi studi.
Chi avesse voglia di visitare questo curato e prezioso Museo, potrà verificare di persona che non vi è nulla di macabro, né di volgare, né tantomeno di razzista . Al termine del percorso museale, si trova inoltre un piccolo book shop, ove si possono acquistare alcuni degli scritti più noti di Lombroso, come L’uomo Delinquente, e altri testi di storia della psicologia, criminologia e sociologia della devianza.
Coloro i quali oggi chiedono la chiusura di questo Museo inconsapevolmente perpetuano un’antica e superflua rivalsa di natura politica della Roma classica: la damnatio memoriae. Se si arrivasse davvero a negare l’accesso al pubblico per il Museo di Antropologia Criminale, in forza di un patrimonio culturale un tempo condiviso, si rischierebbe di creare un precedente allarmante per altri luoghi: il Museo della Tortura di Volterra, ad esempio, perché rammenta le barbarie che sono state compiute; il Colosseo, perché lì i Romani gioivano degli scontri tra fiere voraci e prigionieri inermi; oppure il campo di sterminio di Auschwitz, magari per dimostrare che si rifiuta in questo modo il nazionalsocialismo.  Si ricerca davvero la cancellazione del nostro passato, magari più pericoloso, convinti che questo ci vaccini da errori futuri?  Infine un monito: ci sono voluti secoli, travagliati parti giuridici e vite immolate per consentire l’accesso alla cultura a tutti. Vietare un Museo al pubblico è demandare la cultura ad un ristretto gruppo di persone; segregare la conoscenza tout court nei palazzi è menomare la democrazia; riservare l’accesso alla memoria conservata nel Museo Lombroso ai pochi significa gettare nell'oblio un patrimonio comune, non di Piemontesi, non di Italiani, ma di Uomini.

giovedì 8 ottobre 2015

Nobel e No-bel


«Mi faccia capire: a Lei la Deledda non piace?» Esame di Storia della Letteratura Contemporanea II, un programma che non finiva più ,dieci romanzi, un libro di critica per romanzo, un manuale di storia della letteratura contemporanea e un manuale di storia della critica. E da cosa può iniziare l’esame? Da un argomento che detesti, ovvio.

«No, non mi piace» Mentire non è il mio forte.

«Lei è consapevole del fatto che la Deledda è Premio Nobel per la Letteratura?». Annuisco. «Allora dovrà argomentarmi in modo assai persuasivo la sua posizione».

Sono passati un po’ di anni da quell’argomentazione, ma io continuo a pensarla allo stesso modo: a me la Deledda non piace. E a essere sincera non è l’unico Nobel su cui io nutra delle riserve. Vero è che c’è un aspetto molto personale di gusto, di sensibilità, per cui certi temi e certi stili possono suscitare maggior empatia, ma, oltre questo ci sono altre ragioni.

Sia chiaro: il sistema di assegnazione del Nobel è molto complesso e serio. Subito dopo l’assegnazione del Premio, la Fondazione già lavora alle candidature successive: vengono contattati esperti, che stilano una prima lista, si effettua una prima cernita, vengono rimandati indietro i nomi dei selezionati e qui c’è un altro giro di consultazione, poi una cerchia più ristretta di esperti. Dei candidati si valutano le pubblicazioni, il profilo personale, la profondità e la continuità delle tematiche indagate. Non è certo un caso che i Premiati possano essere anche totalmente sconosciuti al grande pubblico e non è neanche un caso che si riscontri la tendenza a premiare chi, dopo aver dedicato la vita alla Letteratura, sia in procinto di abbandonare entrambe!


Non metto dunque in dubbio la severissima selezione, semplicemente mi riservo il diritto, da lettore, di elaborare una mia personalissima scala di attribuzione del Nobel, per cui, alla fine di una lettura mi sento di dire Nobel o No-bel.

La mia scala di valutazione prevede tre valori: il concetto, lo spirito poetico e l’universalità. Se un romanzo ottiene tre su tre è un Nobel, diversamente viene declassato a Nobel-strumentale. Il Nobel strumentale è quello che, a mio avviso, viene dato a scrittori il cui lavoro o la cui personalità hanno raggiunto altri obiettivi. D’altronde la Letteratura, a differenza della Medicina o della Chimica, non offre verità assolute e verificabili, ma presenta, per sua natura, un margine di ambiguità che può giustificare molte opinioni diverse.

In un romanzo che riceva il Nobel io cerco in prima battuta il contenuto: la trama e la narrazione devono essere un pretesto per presentare un contenuto importante: Pirandello e la ricerca dell’io, Kerthez e la libertà, Gordimer è l’identità. Sono questi concetti che trascendono dalla storia che viene raccontata.

Poi ci deve essere lo spirito poetico ovvero la perizia con cui l’Autore usa la lingua deve essere totale, come nella poesia. Si deve, leggendo un Nobel, percepire la scelta di ogni parola: quella e non un’altra; si deve poter leggere in una metafora la perfetta corrispondenza tra oggetto linguistico e oggetto simbolico; si deve poter incontrare la bellezza delle parole come esaltazione del contenuto. Nel romanzo di un Nobel è necessario leggere frasi così ricche di significato e così belle nell’espressione del medesimo da essere costretti a fermarsi e pensare.

Infine, un Nobel deve essere universale ovvero deve racchiudere così tante sfere di significato che almeno una di esse sia chiara a chiunque, anche al lettore meno avveduto. Questo comporta due caratteristiche fondamentali: che l’Autore riesca a eviscerare il tema portante sotto punti di vista diversi e che questi siano espressi in maniera così agevole che chiunque possa leggere, con impegno, sì, ma non con disagio.

Un Nobel che non abbia nulla da farci pensare, ma solo una storia da raccontare, che non sappia colpire o che sia riservato a una cerchia ristretta di cultori, per me, non è un Nobel per la Letteratura.

Chiarezza per chiarezza: quanto io affermo non è la verità, ma la mia personale opinione. Sicuramente molte persone non la pensano come me e hanno ottimi argomenti per confutare quanto scrivo.

Scrivo queste considerazioni perché il Nobel è ancora uno dei pochi riconoscimenti a cui venga attribuito un valore condiviso: dei Nobel ci si fida e quindi si può scegliere di acquistare un libro sulla garanzia che sia un prodotto di qualità. Se poi la lettura non piace, ci si sente in qualche modo in difetto o quantomeno a disagio. E’ ovvio che non si possa leggere un Nobel con la leggerezza del romanzo da spiaggia e quindi se si arranca nella lettura può essere che ci si ritenga a ragione dei cattivi lettori.

Se è bene conoscere i propri limiti, come in tutte le cose, è altrettanto vero che si deve mantenere la mente libera, anche di dire che un Nobel è No-bel.

giovedì 1 ottobre 2015

Gli Strumenti del Comunicare


Titolo: Marshall McLuhan
Anno di pubblicazione: 1964
Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin


Il mezzo di comunicazione è comunicazione. Leggi una frase così e, prima ancora di averla capita, hai capito che è fantastica. Allora la ripeti, a voce alta, per ascoltarti mentre la pronunci. Il mezzo di comunicazione è comunicazione.

E’ talmente semplice che ti chiedi come hai fatto a non pensarci prima! In realtà non è che non ci hai pensato, no, è che non sapevi esprimere adeguatamente il concetto, serviva uno come McLuhan, che di parole se ne intendeva, per arrivare a una definizione così semplice e intuitiva. Non che il concetto in sé sia complesso, ma è talmente vasto, che l’orizzonte del possibile confonde.

Vero è che McLuhan non ci è arrivato in un giorno, sia chiaro, ha investito anni si vita e di studio, ma il risultato è indubbiamente straordinario. E pensare che oggi, poveretto, non se lo ricorda quasi più nessuno.

Nell’era della comunicazione, in cui comunicare è diventato un elemento essenziale della nostra esistenza, in cui i professionisti più pagati sono gli esperti di comunicazione, in cui proliferano corsi più o meno avanzati e iper-specializzati di comunicazione, l’autore che ne è un cardine è caduto nell’oblio, gettato nella soffitta della cultura come si butta nel cassetto un cellulare che non sia smart, quasi con vergogna.

Gli strumenti del comunicare è il saggio in cui McLuhan esprime alcuni concetti basilari dell’era dei mezzi di comunicazione di massa.

Il primo è quello che ho scritto sopra: il mezzo di comunicazione è comunicazione, concetto non propriamente banale perché la parola sedia in dieci lingue, sembrerebbe negare il teorema. Il secondo è che esistono mezzi di comunicazione caldi e mezzi di comunicazione freddi. Il terzo è il concetto di villaggio globale. Ovviamente se leggerai il saggio, intenderai molti altri contenuti notevoli, ma tanto per avere un’idea, questi tre sono già sufficienti per dormire poco.

Ti faccio un rapido adattamento al quotidiano. Se la comunicazione è per antonomasia uno scambio di contenuti tra chi emette un messaggio e chi lo riceve, McLuhan ci ammonisce: il modo in cui tu veicoli un messaggio è esso stesso un messaggio. Mandare un sms, non ha lo stesso significato dello scrivere una lettera a mano; fare una telefonata non ha lo stesso significato dello scrivere un’email; postare il proprio stato su Facebbok non è la stessa come dare una pacca alla spalla di un amico mentre gli si dice ho una bella notizia da darti.

Questo, nell’ambito della comunicazione strictu sensu, è dire che il tuo taglio di capelli, il tuo modo di gesticolare, quell’orrenda camicia con il tucano stampato che ti ostini a indossare agli aperitivi, tutte queste specificità sono comunicazione.

La mancata consapevolezza dei mezzi attraverso cui si comunica e la mancata comprensione di mezzi che gli altri scelgono per comunicare possono creare guasti molto seri.  

Punto due: non tutti i mezzi di comunicazione coinvolgono chi riceve il messaggio nello stesso modo, da qui la distinzione tra mezzi di comunicazione caldi e freddi. Più il mezzo è caldo, cioè completo nella sua comunicazione, minore è la partecipazione del destinatario; viceversa, più il mezzo è freddo, ovvero detiene una definizione dei contenuti minore, più il destinatario deve essere partecipe per integrare l’informazione. Faccio un esempio: la tv è un mezzo freddo, una fotografia è un mezzo caldo.

Dulcis in fundo: il villaggio globale. Ora questa locuzione viene usata da tutti, per lo più a sproposito: mangi il caviale pescato due giorni prima nel Volga e trasportato da un jet direttamente sul tuo piatto? Villaggio globale. Hai su una mensola una statuetta in legno del Congo che hai comprato sotto casa? Villaggio globale. La tua migliore amica ti propina solo più cene etniche? Villaggio globale. Scemenze! Il villaggio globale di cui McLuhan scrive è quello della trasmissione delle informazioni.

Nel regime della tecnologia elettrica il compito dell’uomo diventa quello di imparare e di sapere; tutte le forme di ricchezza derivano dallo spostamento d’informazione.

McLuhan non visse abbastanza per conoscere Internet, i Social Network, le web tv, ma le sue teorie sono ben strutturate e facilmente applicabili ai mezzi di comunicazione di massa attuali.

Un aspetto che McLuhan non tratta, forse perché lo considerava un a priori, è che la comunicazione dovrebbe avere anche un ricevente e in un mondo in cui tutti considerano fondamentale emettere comunicazione, chi sa anche ascoltare vince la partita.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero