La
ratio che ha spinto a disturbare la Magistratura, per reclamare il
silenzio del Museo di Antropologia Criminale di Torino, mi è ostica e
altrettanto mi riesce la sollecita verve della protesta parallela sui
social network. L'accusa di razzismo a danno delle persone originarie del Sud Italia sarebbe di per sé più affine al ridicolo che al tragico.
Cesare
Lombroso era un medico, che spese la propria vita nel cercare una
motivazione di origine organica ai comportamenti criminali. Era sua
convinzione che le ragioni alla predisposizione criminale fossero di
natura anatomica e che quindi si potessero individuare delle anomalie
nella struttura cerebrale, direttamente responsabili del comportamento
deviato. Se così fosse stato, la tendenza criminale avrebbe avuto
inoltre una sorta di ereditarietà, tramite cui si sarebbe spiegata una
discendenza predestinata al crimine. Solo in un secondo tempo, Lombroso
iniziò a considerare come elementi influenti anche i fattori
socioculturali.
Le
ricerche di Lombroso furono condotte comunque con un metodo rigoroso:
da un lato, la sua formazione di medico lo spinse ad analizzare
centinaia di cervelli appartenuti a delinquenti abituali, per la ricerca
di anomali anatomiche; dall’altro visitò per anni manicomi e bagni
penali, acquisendo innumerevoli testimonianze, al fine di comprendere
cosa avesse portato le persone a perpetrare dei crimini, quale fosse il
loro modus operandi e quali sentimenti avessero provato, così da
compiere una ricerca che noi oggi definiremmo psicologica. Non ultimo,
analizzò e conservò i manufatti che i detenuti e i ricoverati
produssero, convinto che le anomalie cerebrali determinassero anche i
tratti artistici, creativi ed intellettivi.
Molte
delle conclusioni a cui Lombroso era giunto si sono dimostrate in
seguito errate, in particolar modo il legame tra anomalia cerebrale e
fisiognomica, e da un punto di vista scientifico, strictu sensu, sono oggi considerate pseudoscienza.
E’
necessario tuttavia riconoscere alcuni meriti di questo alacre
studioso: Lombroso fu il primo a considerare la possibilità che ci fosse
un nesso tra malattia e comportamento deviato, relazione che oggi è
riconosciuta sia in termini legali, con l’infermità mentale, sia in
termini clinici e nelle diverse sfere delle psicopatologie, delle
neuropatologie e della genetica; Lombroso fu quindi uno dei primi ad
ascoltare, e dunque a dare voce a una categoria sociale di esclusi, di
emarginati e di fuoriusciti dalla società; le sue ricerche diedero
origine all’indagine scientifica per fini giudiziari e impulso agli
studi sociologici, finalizzati alla ricerca di motivazioni ambientali e
familiari, che determinano quello che noi ora definiamo disagio;
contribuì infine a contrastare i pregiudizi morali e religiosi, che
gravavano sui miserabili e che risultavano irricevibili per i suoi
principi positivisti.
Il Museo, da lui fondato nel 1898, conserva oggi
il materiale da lui raccolto: i reperti anatomici, gli scritti, gli
strumenti, i manufatti dei detenuti e una collezione di ricostruzioni
facciali di alcuni pazienti che furono oggetto dei suoi studi.
Chi
avesse voglia di visitare questo curato e prezioso Museo, potrà
verificare di persona che non vi è nulla di macabro, né di volgare, né
tantomeno di razzista
. Al termine del percorso museale, si trova
inoltre un piccolo book shop, ove si possono acquistare alcuni degli
scritti più noti di Lombroso, come L’uomo Delinquente, e altri testi di storia della psicologia, criminologia e sociologia della devianza.
Coloro
i quali oggi chiedono la chiusura di questo Museo
inconsapevolmente
perpetuano un’antica e superflua rivalsa di natura politica della Roma
classica: la damnatio memoriae. Se si arrivasse davvero a negare
l’accesso al pubblico per il Museo di Antropologia Criminale, in forza
di un patrimonio culturale un tempo condiviso, si rischierebbe di creare
un precedente allarmante per altri luoghi: il Museo della Tortura di
Volterra, ad esempio, perché rammenta le barbarie che sono state
compiute; il Colosseo, perché lì i Romani gioivano degli scontri
tra fiere voraci e prigionieri inermi; oppure
il campo di sterminio di Auschwitz, magari per dimostrare che si rifiuta
in questo modo il nazionalsocialismo. Si ricerca davvero la
cancellazione del nostro passato, magari più pericoloso, convinti che questo ci vaccini da errori futuri?
Infine un monito: ci sono voluti
secoli, travagliati parti giuridici e vite immolate per consentire
l’accesso alla cultura a tutti. Vietare un Museo al pubblico è demandare
la cultura ad un ristretto gruppo di persone; segregare la conoscenza tout court
nei palazzi è menomare la democrazia; riservare l’accesso alla memoria
conservata nel Museo Lombroso ai pochi significa gettare nell'oblio un patrimonio comune, non di Piemontesi, non di Italiani, ma di Uomini.
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