giovedì 31 dicembre 2015

Homo ridens

Autore: Henri Bergson

Titolo: Il Riso, saggio sul significato del comico

Anno di Pubblicazione: 1900

Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin


Sarà sicuramente argomento di numerosi servizi in chiusura di telegiornale: il cinepanettone. L’infelice sostantivo indica quei film dal contenuto comico, talvolta demenziale, che, con grave sdegno dei saggi, riempiono le sale dei cinema nelle festività natalizie. 

Immaginifiche vacanze in posti tropicali, disgrazie lavorative che comportano improbabili relazioni, persino chirurghi inetti che cambiano connotati a improbabili boss e folle di anelanti fan che scalpitano nelle hall dei multisala.

Con una puntualità deprimente si sente chiedere ai protagonisti, sovente anche sceneggiatori, quale sia la ricetta del successo, il che, mi sia concesso, è come chiedere a un mago perché il coniglio spunta dal cappello. La risposta non può che essere una tautologia della domanda: il film ha avuto successo perché è piaciuto ed è piaciuto perché fa ridere. Lapalissiano.

La vera domanda è un’altra: Che cosa c’è in fondo al ridicolo? Che cosa avrebbero in comune la smorfia di un pagliaccio, un gioco di parole, il quiproquo di vaudeville, una storia di fine comicità? Che significa il riso?

La domanda è troppo ben formulata, evidentemente, per essere di mia produzione e infatti venne posta, a inizio Novecento, da Bergson. La risposta è contenuta nel suo saggio, davvero delizioso, sul riso.

Da Filosofo qual è, Bergson propone al suo lettore un percorso logico, tanto schematico quanto gradevole, alla ricerca delle ragioni che producono questo strano fenomeno che è la risata.

Il saggio si apre con un primo concetto fondamentale: ciò che provoca il riso è un ambito strettamente umano. Vale a dire che si ride per ciò che fanno gli uomini, oppure ciò che fanno gli animali nell’assumere un comportamento umanizzato o ciò che un oggetto riproduce di umano. Un paesaggio non farà mai sbellicare dalle risate!

Secondo concetto fondamentale: si ride quando non si entra in empatia con il soggetto che produce ilarità. Per ridere è necessario non provare compassione, non nutrire sentimenti, lasciare dormiente la sfera emotiva.   Si ride se una persona impettita inciampa perdendo il cappello, non se viene travolto da un tram.

Terzo punto fondamentale: ridere è un meccanismo di coesione sociale. Una compagnia di amici rafforza il proprio legame se passa una serata all’insegna dell’allegria e del riso, è un’esperienza comune. Ridere insieme facilita le relazioni sociali, a tutti i livelli, in tutti i gruppi. Per ridere insieme si devono condividere molti aspetti: culturali, sociali, emotivi. Per questo è difficile tradurre le battute comiche da una lingua a un’altra. 

Il connotato sociale del riso ha anche un altro risvolto: abbattere gli integralismi, individuali e collettivi. La società è garantita dal reciproco adattamento di tutti i suoi membri, coloro che si irrigidiscono costituiscono un ostacolo all’evoluzione sociale. L’ironia, il sarcasmo, la burla, la presa in giro sono tutti strumenti che  vengono utilizzati per esorcizzare gli estremismi.

Il saggio offre molte altre riflessioni sulle situazioni in cui si produce il riso, sul linguaggio che esso adotta, e come esso venga trattato nell’arte.

Un saggio utile che riesce a mantenere la leggerezza pur nella profondità di analisi. Nel leggerlo si ha la spiegazione esauriente e non tautologia del perché una commedia susciti ilarità, che tradotto alla nostra contemporaneità è la risposta alla domanda perché il cinepanettone ha tanto successo?

E se, dopo essersi contorti dalla risate sulle comode poltroncine del cinema, si ha l’impressione di un leggero raschiare in gola, di una fastidiosa malinconia, non c’è da preoccuparsi: Bergson spiega anche questo, che però non fa ridere ed è che, consapevolmente o meno, il riso non è mai ingenuo.

giovedì 17 dicembre 2015

Il Rogo di Berlino


  

Autore: Helga Schneider

Titolo: Il Rogo di Berlino

Genere: Romanzo

Anno di Pubblicazione:  1995

Recensione di: Chiara Bortolin

Dopo la nascita di mio fratello Peter, mia madre scoprì di aver sbagliato carriera. Ben presto si convinse che servire la causa del Führer fosse più onorevole dell'allevare i propri figli; così ci abbandonò entrambi in un appartamento di Berlin-Niederschönhausen e si arruolò nelle SS. Era l'autunno del 1941 e le forze tedesche se la passavano male sul fronte russo.

Nonostante questo libro sia edito da Adelphi,  casa editrice di pregio, nonostante sia reperibile in qualsiasi negozio che rechi l’insegna libreria, nonostante sia disponibile anche in formato elettronico, è assai raro imbattersi in un suo lettore.

Il fatto è assai curioso, perché Il Rogo di Berlinonon ha nulla da invidiare a molti altri testi riguardanti il periodo bellico, talvolta più venduti e meno significativi.

La vicenda narrata è una storia vera che trae origine dall’esperienza personale dell’Autrice. Volutamente ignoro il termine autobiografia, perché il primo merito della Schneider è essere riuscita a fare di una vicenda molto specifica una narrazione comprensibile a tutti.

Helga, la protagonista nella Storia e nella storia, non è solo una bambina abbandonata, istituzionalizzata, restituita a una famiglia raffazzonata. Non è nemmeno solo una dei bambini che visita il bunker del Fuhrer. Helga è un’adulta che rilegge il proprio essere stata bambina in un certo contesto storico: i ricordi sono restituiti con vivezza da una donna che ha saputo fare pace con il proprio passato.

Questa operazione, sicuramente non facile, offre credibilità alla narrazione: questo è il secondo merito. Lontana da ogni tentazione retorica, la Schneider non giudica la storia e non prende la comoda posizione della vittima che vanta un diritto di rivalsa. L’autrice, tedesca di nascita, austriaca per trasferimento e italianizzata per amore, narra il dramma della guerra.

Ancora più apprezzabile è il contenuto storico che il libro trasmette attraverso le vicissitudini personali: la Scrittrice descrive ambienti, situazioni, accadimenti, che solitamente si perdono nei libri di Storia, perché troppo specifici, e si distorcono in pubblicazioni di scarso livello e molta polemica.

E’ da credere che queste poche dolcissime pagine abbiano richiesto una grande fatica alla sua Autrice. Si dovrebbe un po’ di gratitudine a chi fa della propria sofferenza un romanzo di grande spessore; si dovrebbe essere grati a chi, con discrezione, sollecita la comprensione e non il giudizio; si dovrebbe offrire un posto nella propria libreria a un romanzo che tratta la complessità con semplicità.

Afferma la Schneider che nessuno sopravvive alla guerra, neppure i vivi. La stessa lezione di Primo Levi, la stessa di Kertez, la stessa del del Diario di Anna Frank. Vale la pena ripassarla, con questo romanzo bello, ben scritto, troppo poco conosciuto ma davvero apprezzabile.

giovedì 10 dicembre 2015

La Chimera


Autore: Sebastiano Vassalli
Titolo: La Chimera
Genere: Romanzo
Anno di Pubblicazione:,1990
Recensione di: Chiara Bortolin

Nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla.



Potrei iniziare questo commento in molti modi: potrei dire che l’Autore è scomparso di recente o che questo libro è uno dei pochi Premi Strega a mia memoria che valga la pena di essere letto; potrei scrivere che è un romanzo storico esempio dell’infaticabile lavoro di documentazione per un Autore serio; potrei anche iniziare, come si dice, ex abrupto, con la trama.

Ma il valore del libro è nel libro e quindi, parto dal libro, o meglio dal titolo, che del libro è la chiave di lettura: La Chimera. Il titolo racchiude in sé il senso della complessità dei significati. Nel linguaggio comune, la parola chimera viene utilizzata per indicare un sogno con poca probabilità di essere raggiunto, non proprio un’illusione, ma un desiderio vagheggiato seppur perseguito. Nella mitologia la chimera era un mostro: testa di leone, corpo di capra, coda di drago, dalle sue fauci uscivano terribili fiamme che incendiavano la vegetazione.

Di primo impatto si potrebbe pensare che ci sia una contraddizione tra il significato della tradizione classica e il significato contemporaneo.

Se si legge il romanzo si comprende che non solo non vi è alcuna contraddizione, ma che anzi nella duplicità del termine si racchiude uno dei tanti aspetti dell’animo umano.

Tutti i personaggi di questa storia, che solo la penna straordinaria di Vassalli ha saputo addolcire in romanzo, inseguono una chimera.

Antonia, la protagonista, anela alla felicità. Dopo un’infanzia terribile, una preadolescenza migliore, aveva ben il diritto di sperare in un futuro di libertà e amore.

Il Vescovo Bascapè insegue il suo sogno di un mondo senza peccato; Biagio, lo scemo del villaggio, vorrebbe solo un po’ d’affetto; Don Teresio vorrebbe che i suoi parrocchiani pagassero le decime con puntualità e con senso del dovere; la gente, l’opinione pubblica, la maggioranza vorrebbe solo poter avere requie, trovare una causa ai propri mali e dunque una soluzione a essi.

Ogni anelito chiaramente comporta che ogni personaggio si adoperi attivamente per fare del sogno personale uno scopo, un obiettivo raggiungibile, una realtà. Quello che disvela l’Autore è che la chimera è un mostro: il sogno di alcuni può diventare una tragedia per altri. Ma se un sogno diventa un incubo, verrebbe da chiedersi, forse è il sogno che è sbagliato. L’autore non si sbilancia: mette tutto lì, nel romanzo, date, nomi, luoghi. Gli storici non fanno la morale.

Si possono leggere molte interpretazioni di questo libro: viene definito un romanzo sulla caccia alle streghe, viene definito un libro sull’Inquisizione, una storia che tratta della superstizione e del pregiudizio, del fervore religioso e dell’integralismo, della miseria e della crudeltà. Sono tutti temi presenti, innegabile, e su ciascuno di essi si potrebbero scrivere pagine e pagine, mai belle quanto l’originale.

Ogni approccio però, se preso singolarmente, rischia di oscurare il significato primo: la chimera, una volta raggiunta, potrebbe apparire nella sua veste originale. Il mito della chimera si conclude con la sua uccisione per mano di un eroe. Nel romanzo di Vassalli, come nella Storia, ci si deve accontentare degli uomini, che sovente, pur ritenendosi eroi sembrano assumere essi stessi le vestigia di una chimera.

giovedì 3 dicembre 2015

Il Secolo Breve

Titolo: Il Secolo Breve

Autore: Eric Hobsbawm

Anno di pubblicazione: 1994

Genere: saggio

Recensione di: Chiara Bortolin

La ragione di questa impotenza non sta solo nella profondità e complessità delle crisi mondiali, ma anche nel fallimento apparente di tutti i programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano.

Questa frase non l’ha scritta ieri qualche opinionista con velleità da intellettuale, ma si trova, quasi come un inciso, verso la conclusione di questo saggio, Il Secolo Breve, scritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm nel 1994.

Sebbene io consideri questo testo fondamentale dal punto di vista della metodologia storica, non avevo mai pensato, fino a oggi, di presentarlo nel blog. Le ragioni sono diverse: la mole, tanto per cominciare, che ironicamente contraddice al titolo; la lettura, che non consente di rubare qualche minuto mentre si attende l’autobus; il tema, l’analisi del secolo passato, che non offre grandi spazi di sintesi.

I fatti recentemente accaduti in Francia, la nuova tensione tra Russia e Turchia, l’incapacità degli Stati Europei di comportarsi da Europa Unita, mi hanno però fatto ricredere. Soprattuto in considerazione della pletora di opinioni spacciate per verità che per giorni sono state sciorinate con la pedante imperfezione dei dilettanti.

Il Secolo Breve, terzo volume di una più ampia ricerca a cui l’autore si è dedicato, offre una ricca ricostruzione dei fatti, delle connessioni, delle possibili letture degli accadimenti che si sono succeduti nel Novecento.

Il titolo rimanda già a una interpretazione: per Hobsbawm il Novecento inizia nel 1914, con la prima guerra mondiale, e si chiude nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica. Questo lasso di tempo viene ulteriormente suddiviso in tre blocchi: l’età dei grandi cataclismi, dal 1914 al 1945; l’età dell’oro, dal 1946 al 1973, l’età della frana, dal 1974 al 1991. 

La visione dello storico britannico è ad ampissimo spettro perché tenta di analizzare e riallacciare un numero considerevole di eventi, fenomeni sociali, innovazioni tecnologiche, che hanno investito tutto il mondo.

Questo tentativo è già di per sé molto interessante, perché la tendenza comune è considerare singoli settori, singoli argomenti o singole aree geografiche. Hobsbawm cerca di dare un’impalcatura concettuale all’interno della quale sia successivamente possibile incastonare approfondimenti.

Non per nulla, oltre al suo studio, lo Storico offre ai suoi lettori una lunga ed esaustiva bibliografia e che è un eccellente strumento per applicare la famosa legge libro chiama libro, con la certezza di essere ben consigliati. 

Hobsbawm è uno storico e, come tutti gli storici di intelligenza, dichiara onestamente la differenza tra fatto e interpretazione, tra una possibile interpretazione e una verità oggettiva. La sua formazione, improntata al materialismo storico, lo induce a una visione piuttosto negativa del futuro, ben consapevole che le previsioni sono sempre destinate a essere fallaci.

Conoscere il passato non consente di prevedere il futuro, talvolta non consente nemmeno di comprendere il presente, ma indubbiamente offre altri vantaggi: il primo è avere un approccio critico alle opinioni che si sentono; il secondo è attribuire una dimensione storica, vale a dire temporale, ai fatti e non considerarli nel contingente; il terzo è realizzare che la storia finisce dove inizia la cronaca.

Per il Poeta T.S. Eliot “il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo”. Il secolo breve è finito in tutti e due i modi

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero