Autore: Henri Bergson
Titolo: Il Riso, saggio sul significato del comico
Anno di Pubblicazione: 1900
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin
Sarà sicuramente argomento di numerosi servizi in chiusura di telegiornale: il cinepanettone. L’infelice sostantivo indica quei film dal contenuto comico, talvolta demenziale, che, con grave sdegno dei saggi, riempiono le sale dei cinema nelle festività natalizie.
Immaginifiche vacanze in posti tropicali, disgrazie lavorative che comportano improbabili relazioni, persino chirurghi inetti che cambiano connotati a improbabili boss e folle di anelanti fan che scalpitano nelle hall dei multisala.
Con una puntualità deprimente si sente chiedere ai protagonisti, sovente anche sceneggiatori, quale sia la ricetta del successo, il che, mi sia concesso, è come chiedere a un mago perché il coniglio spunta dal cappello. La risposta non può che essere una tautologia della domanda: il film ha avuto successo perché è piaciuto ed è piaciuto perché fa ridere. Lapalissiano.
La vera domanda è un’altra: Che cosa c’è in fondo al ridicolo? Che cosa avrebbero in comune la smorfia di un pagliaccio, un gioco di parole, il quiproquo di vaudeville, una storia di fine comicità? Che significa il riso?
La domanda è troppo ben formulata, evidentemente, per essere di mia produzione e infatti venne posta, a inizio Novecento, da Bergson. La risposta è contenuta nel suo saggio, davvero delizioso, sul riso.
Da Filosofo qual è, Bergson propone al suo lettore un percorso logico, tanto schematico quanto gradevole, alla ricerca delle ragioni che producono questo strano fenomeno che è la risata.
Il saggio si apre con un primo concetto fondamentale: ciò che provoca il riso è un ambito strettamente umano. Vale a dire che si ride per ciò che fanno gli uomini, oppure ciò che fanno gli animali nell’assumere un comportamento umanizzato o ciò che un oggetto riproduce di umano. Un paesaggio non farà mai sbellicare dalle risate!
Secondo concetto fondamentale: si ride quando non si entra in empatia con il soggetto che produce ilarità. Per ridere è necessario non provare compassione, non nutrire sentimenti, lasciare dormiente la sfera emotiva. Si ride se una persona impettita inciampa perdendo il cappello, non se viene travolto da un tram.
Terzo punto fondamentale: ridere è un meccanismo di coesione sociale. Una compagnia di amici rafforza il proprio legame se passa una serata all’insegna dell’allegria e del riso, è un’esperienza comune. Ridere insieme facilita le relazioni sociali, a tutti i livelli, in tutti i gruppi. Per ridere insieme si devono condividere molti aspetti: culturali, sociali, emotivi. Per questo è difficile tradurre le battute comiche da una lingua a un’altra.
Il connotato sociale del riso ha anche un altro risvolto: abbattere gli integralismi, individuali e collettivi. La società è garantita dal reciproco adattamento di tutti i suoi membri, coloro che si irrigidiscono costituiscono un ostacolo all’evoluzione sociale. L’ironia, il sarcasmo, la burla, la presa in giro sono tutti strumenti che vengono utilizzati per esorcizzare gli estremismi.
Il saggio offre molte altre riflessioni sulle situazioni in cui si produce il riso, sul linguaggio che esso adotta, e come esso venga trattato nell’arte.
Un saggio utile che riesce a mantenere la leggerezza pur nella profondità di analisi. Nel leggerlo si ha la spiegazione esauriente e non tautologia del perché una commedia susciti ilarità, che tradotto alla nostra contemporaneità è la risposta alla domanda perché il cinepanettone ha tanto successo?
E se, dopo essersi contorti dalla risate sulle comode poltroncine del cinema, si ha l’impressione di un leggero raschiare in gola, di una fastidiosa malinconia, non c’è da preoccuparsi: Bergson spiega anche questo, che però non fa ridere ed è che, consapevolmente o meno, il riso non è mai ingenuo.
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