giovedì 30 giugno 2016

La Mafia devota

Titolo: La Mafia Devota

Autore: Alessandra Dino

Anno di Pubblicazione: 2010

Genere: saggio

Recensione di: Chiara Bortolin

“Io sono contento quando faccio del bene qualche personale sta più male di me (…) Non credo che domani io muoio e vado al Paradiso o all’Inferno, no. Ammiro moltissimo i missionari.Infatti era una mia vocazione che io sentivo da bambino (…) Cioè partire, insozzavate questo senso di libertà e aiutare delle persone che stavano male, io (…) ho letto qualche po’ la Bibbia, il Vangelo. (…)  Non mi vedo in tutte quelle cose andare in chiesa, pregare. Guardi, lo ripeto, noi mafiosi siamo credenti, perché (…) siamo anche noi fatti di carne ossa” 

Quando associo la parola mafia e la parola chiesa, la mente mi richiama l’immagine straziante di una donna che cerca di parlare tra i singulti, aggrappata al pulpito, sorretta dal Vescovo di Palermo: è la vedova di uno degli Agenti della scorta di Borsellino e dichiara, durante il funerale, di essere pronta al perdono se quegli uomini che le hanno strappato il marito si mettessero ginocchio e chiedessero perdono, se si pentissero… ma loro non si pentono.

Per preservare questo ricordo, effige della mafia, mi sono allontanata dallo schermo della tv quando l’8 giugno scorso al telegiornale hanno parlato di un’altra donna, un’altra chiesa e la stessa mafia. Il 4 giugno, a Corleone, durante la processione patronale, il corteo fa una deviazione dal percorso previsto e sosta sotto un balcone a rendere omaggio. Il volto che compare è quello tronfio della moglie di Salvatore Riina, nata Bagattella, che assieme ad altre donne del suo calibro si gode il momento. Il sacerdote in confusione prosegue la manifestazione religiosa. I quattro Carabinieri che sono nel corteo nel corteo si allontanano. 

Di questo episodio il libro La Mafia Devota non tratta, essendo un fatto di cronaca di pochi giorni addietro, ma di fatti come questo ne sono citati una quantità sufficiente a raccomandare una lettura dosata, per non essere sopraffatti dal disgusto.

Che la mafia faccia orrore è risaputo, ma ancora più orrore, se possibile, suscita l’accostamento alla sfera del sacro. Con un metodo molto interessante, l’Autrice guida il lettore attraverso un complicato intreccio di storie di mafiosi, religiosità e Chiesa. Con intelligenza e onestà, la Sociologa aiuta a comprendere le differenti dimensioni che vanno dal personale al sociale, dalla becera devozione alle connivenze, dell’abitudine inconsapevole all’uso strumentale del rito.

Per chi è avvezzo a praticare il culto, è facile comprendere in quante occasioni, durante la vita, il luogo sacro, la chiesa, sia luogo di ritualità e di simbolo. Dalla nascita di un figlio, alla morte di un congiunto, la chiesa è lì pronta alla condivisione, in una dimensione sacra e socialmente condivisa, dell’emozione sublimata in sacralità.

Che la mafia ricorra a queste situazioni per darsi un volto pulito, per legittimarsi, per darsi visibilità non stupisce. Maggior stupore lo destano due attori di questi riti: l’uomo mafioso, il singolo, e l’uomo di Chiesa.

L’Autrice si fa carico di provare a spiegare il paradosso per cui persone che pur dichiarandosi credenti infrangono una buona quantità di precetti, tra cui alcuni piuttosto banali, come non uccidere. Il paradosso di per sé non si risolve, ma l’Autrice offre una plausibile chiave di lettura: il senso di onnipotenza della mafia, che ormai ci ha abituato a sostituirsi allo Stato, porta certi soggetti a sostituirsi anche a Dio, della cui volontà si fanno interpreti. Uccidere è sbagliato, in assoluto, ma per una buona causa…

Più complessa appare invece la posizione degli uomini di Chiesa: per un Padre Puglisi che viene assassinato per il suo impegno contro la mafia, c’è un Fra Giacinto, che viene assassinato per il suo impegno a favore della mafia. E se molti atti di eroismo isolato hanno dato speranza, atti di nascosto servilismo suscitano, proprio perché perpetrati da sedicenti servi di Dio, profondo sgomento.

Molto interessante per capire quando intricata sia la faccenda è l’analisi del fenomeno del pentitismo, talvolta ben lontano dal pentimento e viceversa. Che un mafioso rinunci alla propria attività criminale e collabori con la Giustizia non implica che sia pentito delle sue malefatte. Ben peggiore è la situazione se un mafioso va a confessare i suoi peccati in Chiesa, riceve un’assoluzione e con quattro avemaria ha risolto tutto.

Personalmente sono sempre molto diffidente nei confronti delle analisi del rapporto tra mafia e Chiesa, perché, con maggiore o minore buonafede, alcuni testi sono solo il pretesto per alimentare il qualunquismo che va da I mafiosi non sono poi così cattivi se vanno in chiesa a La Chiesa va a braccetto con la mafia.

Questo saggio è scritto con molta attenzione e si prefigge, con buoni risultati, di indagare con un approccio sociologico una materia a volte sfuggente. In più l’Autrice ha il merito, a mio avviso, di utilizzare un metodo scientificamente corretto, ma non per questo privo di umanità.

La ricca aneddotica, per quanto disgustosa, rende vivide le dinamiche che vengono poi riprese e concettualizzate, così da offrire al lettore una visione strutturale dei fenomeni. Un saggio divulgativo di sociologia della devianza che merita di essere letto, sia dai credenti, sia dai non credenti, perché la mafia è cosa di tutti.

Dovrebbe leggerlo, mi sia consentito, anche Padre Bagnasco che il 5 giugno ha emesso una delle sue sentenze contro le unioni delle coppie omosessuali nello Stato Laico Italiano. Talvolta anche gli uomini di Chiesa finiscono per far la parte delle comari che, dedite alle maldicenze sulle famiglie altrui, finiscono per trascurare la propria. 
  

L’elenco potrebbe continuare a lungo, fino ai giorni nostri, con l’uccisione Calabria di padre Giuseppe Giovinazzo, collaboratore del responsabile del santuario di Polsi, con l’omicidio di don GiuseppeDiana, parroco a Casal di Principe, in Campania, e con l’assassinio di padre Pino Puglisi a Palermo, in una strada del quartiere Bravaccio.

venerdì 24 giugno 2016

Verra la morte e avrà i tuoi occhi

Titolo: Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi

Autore: Cesare Pavese

Anno di Pubblicazione: 1951

Genere: Poesia

Recensione di: Chiara Bortolin

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Fino al Novecento o, come piace agli storici, fino al Congresso di Vienna, leggere la società era piuttosto facile. Il potere politico era gestito dall’aristocrazia, il potere economico era gestito dalla borghesia, il popolo contava sulla propria forza lavoro. Con una società schematizzata, anche la produzione letteraria era codificata, poteva essere foriera di idee conservatrici o progressiste, ma il codice di trasmissione era univoco.

Il Novecento spazza via tutto, crea nuove forme di distribuzione del potere e nuovi assetti sociali, le ideologie si frantumano e si apre l’epoca che Bauman, con una buona intuizione, definisce  società liquida.

In questo diluirsi di regole e di codici, anche la poesia, che è lo specchio più lucido e raffinato della Letteratura, perde di struttura. La poesia del Novecento non usa più le strutture rassicuranti dei sonetti o la metrica serrata degli endecasillabi, si creano i versi sciolti. Così anche i concetti, pur nella sintesi, sembrano più sfuggevoli, più interpretabili, più discrezionali.

Se si fa una ricerca veloce, si vedrà che di Verrà la Morte e avrà i tuoi occhi si trovano tre chiavi interpretative: una biografica, una intimistica e una sentimentale, ciascuna supportata con buone argomentazioni.

L’interpretazione biografica trova il suo fondamento sulla relazione sentimentale di Pavese con un’attrice americana, la cui fama è più legata alle vicissitudini pavesiane che non alla propria carriera. La relazione, neanche a dirlo, non ebbe il lieto fine e Pavese, che non ebbe in amore la fortuna che ebbe con la letteratura, ne rimase profondamente segnato. 

Coloro i quali leggono la poesia sotto questa luce ricorrono al classico binomio amore e morte, con sfumature che vanno dalla psicologica elaborazione delle delusione come lutto alla conservazione del ricordo dell’amata fino all’ultimo istante.

Che un Autore come Pavese possa essere ridimensionato a un sedotto e abbandonato, con tutta l’eleganza di alcune critiche, pare proprio poco adeguato.

Di tutt’altro spessore appare la visione intimistica. L’interlocutore a cui l’Autore si rivolge è la propria anima e la poesia sarebbe un dialogo interiore. Sotto questa interpretazione, il significato muta completamente: la morte è un pensiero costante con cui il poeta si confronta, un’angoscia sedimentata, che si cerca di nascondere, ma che si ripropone quotidianamente. 

Questa ossessione per la morte ritorna nel tema pavesiano del vizio assurdo, ovvero il pensiero del suicidio, che viene visto come l’unica soluzione al mal di vivere. La consapevolezza dell’inevitabilità della morte apre un conflitto con il desiderio di vivere: si cerca una speranza, una ragione, per attenuare questo dolore. Pavese, chiaramente, non la trova. 

L’ultima interpretazione è una variante di quella intimista. Posti i temi pavesiani a fondamento, l’interlocutore del Poeta è un’altra persona, un amore, come Clizia per Montale, vera ma sublimata. Se si legge in questo modo, si conferma il senso di disperazione di fronte alla morte, ma la solitudine di questa angoscia si stempera nei tuoi occhi.



A voler essere rigorosi, la lettura filologicamente più corretta appare la seconda. Consapevoli di questo, ci si può concedere una speranza: rappresentare per una persona l’ultimo volto visto, l’ultimo sguardo vero o immaginifico, che attutisca la durezza dell’inevitabile e che dia un significato a tutto ciò che è stato prima. Visto dalla parte dell’interlocutore è il privilegio di sopraffare la morte assumendone il volto.

giovedì 16 giugno 2016

Repubblica

Titolo: Repubblica

Autore: Platone

Datazione: IV sec. a. c.

Genere: dialogo filosofico

Commento di: Chiara Bortolin


Questo blog si occupa di recensire libri, con l'intento di divulgare bellezza. Lo spettacolo che le campagne elettorali stanno offrendo mi hanno ricondotto, come spesso accade quando mi coglie lo sconforto, ai fondamenti della bellezza del pensiero. Per questo rinuncio, in questa occasione, al commento di un libro, in favore di un suo estratto., nella speranza di ricordare a chi mi legge, che la politica, sia come elettore sia come amministratore, dovrebbe essere la massima espressione del pensiero e non la volgare manifestazione delle private meschinerie.

Per chi desiderasse approfondire la conoscenza del Testo  in oggetto o della sua storia, sono a disposizione i link evidenziati.

Buona lettura e buona politica a tutti.

LO STATO DEMOCRATICO
X- Dopo di che, sembra, dobbiamo esaminare la democrazia: come nasca e, quando è nata, quale sia il suo carattere, affinché, dopo aver a sua volta conosciuto l'indole dell'uomo democratico, possiamo porgliela accanto e giudicare. - Certo che, rispose, questo modo di procedere sarà coerente con quello che abbiamo seguito finora. 
-Dunque, ripresi, l'oligarchia non si trasforma in democrazia pressappoco così, perché si è insaziabili del bene cui si aspira, che è diventare ricchi più che si può? - Come? [c] - Quelli che governano in essa, credo, governano perché posseggono molto e perciò non vogliono impedire legalmente a tutti i giovani dissoluti di spendere e dilapidare i propri beni. Lo fanno per acquistarne le sostanze, per esercitare l'usura e diventare così ancora più ricchi e onorati. - Sì, a questo tengono più di tutto. - E in uno stato non è evidente ormai che i cittadini non possono pregiare la ricchezza pervenendo nel contempo a un [d] soddisfacente grado di temperanza, ma che si trascura per forza l'una delle due? - E abbastanza evidente, ammise. - Ora, nelle oligarchie i governanti, poiché sono negligenti e permettono una vita dissoluta, talvolta hanno costretto alla povertà uomini non ignobili. - Certo.
- Allora costoro, credo, se ne stanno oziosi nella città, muniti di pungiglioni e di armi: chi è carico di debiti, chi senza diritti civili, chi poi gravato dei due mali. E pieni di odio tramano insidie a chi ha acquistato i loro beni e agli altri, bramosi di una rivoluzione. – E’ così. - Gli [e] uomini d'affari, a testa bassa, fanno finta di non vederli nemmeno; e chi dei rimanenti dà via via segno di cedere, lo feriscono buttandogli denaro e, riportando moltiplicati i frutti di quel padre, moltiplicano nello stato i fuchi e [556 a] i poveracci. - E come non moltiplicarli?, chiese.
-Un simile funesto incendio, feci io, non vogliono estinguerlo né come s'è detto (impedendo a uno di disporre a suo piacere dei propri beni) né in quest'altra maniera che, con un'altra legge, permette di risolvere la questione.
-Quale legge? - Quella che segue all'altra e che obbliga i cittadini a non trascurare la virtù. Se infatti si [b] prescrivesse che la maggior parte dei contratti volontari venisse stipulata a proprio rischio e pericolo, essi farebbero i loro affari nello stato con minore spudoratezza, e meno numerosi vi sorgerebbero quei mali che or ora abbiamo detto. - Certo, disse. - Per tutte le ragioni accennate, ripresi, ai nostri giorni i governanti riducono così nello stato i governati. Se poi parliamo di loro stessi e dei loro figli, non rendono forse i giovani persone [c] voluttuose, schive delle fatiche fisiche e intellettuali, incapaci di sopportare piaceri e dolori, e pigre? - Sicuramente.
- E non rendono se stessi incuranti d'altro che non sia far denari, senza curare la virtù più di quanto la curino i poveri? - Non se ne curano proprio. Supponiamo dunque che, con siffatte disposizioni, i governanti e i sudditi si trovino fianco a fianco nelle marce o in altre azioni comuni, in sacre ambascerie o in spedizioni militari, o siano compagni di navigazione o di milizia; o che, ancora, [d] l'un l'altro osservandosi nel colmo del pericolo, i poveri questa volta non siano affatto sprezzati dai ricchi, ma che spesso un povero, macilento, bruciato dal sole, schierato in battaglia accanto a un ricco allevato nell'ombra e coperto di abbondante carne superflua, lo veda tutto ansante e imbarazzato. Credi che il povero non pensi allora che è la codardia di loro stessi, i poveri, ad arricchire simili persone? e che, quando i poveri s'incontrano separatamente tra loro, non si passino la parola dicendo: "Li abbiamo in [e] mano nostra, perché non valgono nulla"? - Per conto mio, rispose, so bene che fanno così. - Ora, come a un corpo malsano basta risentire un piccolo influsso esterno per cadere ammalato, e talvolta si trova discorde con se stesso anche senza cause esterne, così anche per lo stato che sia nella sua identica condizione, non basta un lieve pretesto (mentre i partiti cercano alleanza all'estero, chi da uno stato oligarchico, chi da uno democratico) per farlo ammalare e contrastare con se stesso? e talvolta non si trova discorde anche senza causeesterne? - [557 a] Sì, e molto. - Ora, credo, la democrazia nasce quando i poveri, dopo aver riportata la vittoria, ammazzano alcuni avversari, altri ne cacciano in esilio e dividono con i rimanenti, a condizioni di parità, il governo e le cariche pubbliche, e queste vi sono determinate per lo più col sorteggio. - Sì, disse, così s'instaura la democrazia, sorga essa per
via di armi o della paura che fa recedere l'altro partito.
XI.- Ebbene, disse, in che modo si amministrano questi uomini [b]? E poi, quale è il carattere di una simile costituzione? Un tale uomo, è chiaro, si manifesterà un democratico. - È chiaro, rispose. - Ora, in primo luogo, non sono liberi? e lo stato non diventa libero e non vi regna libertà di parola? e non v'è licenza di fare ciò che si vuole? - Sì, rispose, almeno lo si dice. - Ma dove c'è questa licenza, è chiaro che ciascuno può organizzarvisi un suo particolare modo di vita, quello che a ciascuno più piace. - È chiaro. - È soprattutto in [c] questa costituzione, a mio avviso, che si troveranno uomini d'ogni specie. - E come no? - Forse, ripresi, tra le varie costituzioni questa è la più bella. Come un variopinto mantello ricamato a fiori di ogni sorta, così anche questa, che è un vero mosaico di caratteri, potrà apparire bellissima. E bellissima, continuai, saranno forse molti a giudicarla, simili ai bambini e alle donne che contemplano gli oggetti di vario colore. - Certamente, [d] ammise. - E poi, benedetto amico, feci io, v'è una certa convenienza a ricercarvi una costituzione. - Perché? - Perché, per la licenza che le è propria, presenta ogni genere di costituzioni. Chi, come facevamo or ora noi, vuole organizzare uno stato, forse è costretto a recarsi in uno stato democratico per sceglierne, come andasse a una fiera di costituzioni, il tipo che gli piace; e quando l'ha scelto così, può fondare il suo stato. - Sì, rispose, (e] probabilmente non gli mancherebbero modelli.
- Ma, continuai, non aver alcun obbligo di governare in questo stato, nemmeno se ne sei idoneo, né di essere governato, se non lo vuoi, né di fare guerra quando la fanno gli altri, né di mantenere la pace quando la mantengono gli altri, se non ne hai voglia; e ancora, se una data legge ti vieta di stare al governo o di sedere in tribunale, poter ciononostante governare e giudicare se te ne viene l'estro, tutto [558 a] questo modo di vivere, di primo acchito, non è prodigioso e dolce? - A prima vista forse sì, rispose. - E non è carina la mitezza di certe sentenze giudiziarie? Non hai ancora veduto uomini che tale regime ha colpiti di sentenza di morte o di esilio, cionondimeno restare e girare tra la gente ? e ciascuno va attorno come un eroe quasi che nessuno se ne curasse né lo scorgesse? Ne ho veduti molti, sì, rispose. Veniamo all'indulgenza [b] e all'assoluta mancanza di meticolosità che le sono proprie, anzi al disprezzo dei principi che noi esponevamo con tanto rispetto quando fondavamo lo stato. Dicevamo che se uno non ha una natura straordinaria, non potrà mai diventare un onesto uomo, a meno che fin da bambino non si diverta con giochi belli o non attenda a ogni cosa simile. Ora, con quanta alterigia la democrazia calpesta tutto questo, senza curare quali studi uno segua per prepararsi all'attività politica; anzi lo onora non appena [c] affermi di essere ben disposto verso la massa popolare! -Regime indubbiamente nobile!, disse. - Ecco dunque, continuai, quali saranno le caratteristiche della democrazia, con altre a loro affini. A quanto sembra, sarà una costituzione piacevole, anarchica e varia, dispensatrice di uguaglianza indifferentemente a uguali e ineguali - Quelle che dici, rispose, sono cose ben note. 

venerdì 10 giugno 2016

Fotti Il Potere





Titolo: Fotti il potere

Autore: Francesco Cossiga con Andrea Cangini

Anno di Pubblicazione: 2010

Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
 
Questa recensione non intende danzare sullo scivoloso patinoire delle considerazioni partitiche o politiche, perché l’oggetto della critica è un libro, scritto sì da chi ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Interno, Presidente del Consiglio, Presidente del Senato e Presidente della Repubblica Italiana, ma che in questo caso è evocato per un prodotto editoriale.

Una premessa sull’arte del governo tuttavia appare necessaria: la Politica a cui si riferisce Cossiga è soprattutto quella che un tempo deteneva il primato delle scelte e delle decisioni nel Paese. Attualmente invece le cose non stanno più così, perché oggi il primato spetta all’economia e 
soprattutto alla sua anima inafferrabile ai più, cioè la finanza. La Politica infatti oggi appare come una sovrastruttura tecnica necessaria alla legittimazione del potere economico, che in ultimo vezzo di concertazione,
si pone in rapporto dialettico, proprio quando non può farne a meno, come una sorta di atto consultivo dovuto, agli elettori ed ai loro rappresentanti.

Un secondo aspetto riguarda invece il Cossiga che scrive nel 2010, ovvero ormai fuori dai giochi politici e addirittura prossimo al termine della propria esperienza terrena. In funzione di questi due aspetti, ritroviamo un autore che non usa mediazioni e non intende convincere con le armi della retorica. In fondo Cossiga è sempre stato un politico anomalo, addirittura irrilevante all’interno della Democrazia Cristiana (come egli stesso si definisce più volte), ma sempre presente nei passaggi più importanti di oltre quarant’anni di vita politica italiana.

In questo libro così possiamo leggere numerose dichiarazioni sorprendenti, ancora più se ci ricordiamo della biografia del Presidente: cattolico credente figlio di massoni e mai entrato nella Massoneria, cugino di Enrico Berlinguer e avversario di “fiducia” del più grande Partito Comunista Europeo, ciclotimico presunto che sarebbe potuto diventare due volte Presidente della Repubblica, dopo la prima in cui aveva presentato le dimissioni.

Ciò che leggiamo non è soltanto sorprendente:

“Nel rapimento Moro, le Brigate Rosse non si erano rese conto di avere
vinto”;

“Dobbiamo rassegnarci perché il potere mafioso, quello camorrista e quello
‘ndranghetista non ci sono estranei”;

“Per il Vaticano contano solo i soldi”;

“E’ la forza e non il diritto a dare forma al mondo”.

Questi sono colpi che arrivano dritto allo stomaco, soprattutto se chi li pronuncia è stato l’autorità suprema della Repubblica Italiana. Eppure queste esternazioni e molte altre dello stesso tenore, se immediatamente disturbano e generano un senso di ripulsa, al fondo della lettura concorrono a fornire un metodo di lettura Politica. Se infatti ci si lascia pervadere da queste affermazioni, il lettore troverà al termine una chiave di interpretazione che attribuisce senso a numerosissimi fenomeni, anche attuali, che viceversa non sarebbero interpretabili attraverso la logica lineare e “legittima” di un cittadino comune.






Questo è il primo aspetto che attrae del libro: Cossiga fornisce gli elementi base della logica politica, che se estranea e sempre meno intelligibile ai più, dall’altra risulta ancora viva nei partiti e nella vita parlamentare, anche se privata di un aspetto che ne ha decretato i fasti passati: il potere effettivo. Comprendiamo così, con una dose forse eccessiva di realtà, che i principi alti, democratici e universali debbono utilizzare la verità dei fatti in maniera strumentale e parziale per potersi affermare e riaffermare. E se i principi del politico sono fondamentalmente quelli di noi tutti, i mezzi per raggiungerli e garantirli possono non essere altrettanto trasparenti o socialmente accettabili.




Sarà per questo che chi ha avuto a lungo un consenso di massa tramite cui ha stabilito le sorti italiane è poi immancabilmente finito appeso a testa in giù, esiliato, sepolto sbrigativamente con vergogna o processato con infamia?

Precisamente questo è il passaggio più delicato per chi intende parlare di politica al massimo livello: al di sopra degli uomini di Governo non c’è nulla di antropologicamente sacro né laicamente concreto. Il ribadire o addirittura l’incarnare un principio è innanzitutto atto di solitudine, che deve essere solido, in virtù di un ragionamento. La trasmissione invece del medesimo può avere forme liquide e alterate, ma deve esserci per poter svolge un ruolo fondamentale ai fini della sopravvivenza del primo.

Se manca una dei due elementi, ci fa capire Cossiga, si ha a che fare con un cialtrone. Oppure, se chi legge la politica non ha questo ben chiaro, rischia di commettere errori madornali di valutazione. Sia come candidato, sia come elettore.

Il secondo aspetto invece che erompe qua e là nel libro è il concetto di potere. Questo termine, ben lontano dall’essere una caratteristica quasi immanente, è illustrato via via come qualcosa di completamente instabile, variabile, difficile e ribelle da gestire. Ed inoltre non ne esiste soltanto uno.

Come già anticipato poco sopra, Cossiga ad esempio nel trattare di organizzazioni mafiose, non ripropone il banale e trito salmodiare a favore di una società di diritto o di uno Stato territorialmente presente. Cossiga dice chiaramente che bisogna rassegnarsi, perché la mentalità mafiosa non nasce spontaneamente altrove e viene importata di contrabbando in Italia: essa è parte di mentalità e culture radicate e rappresenta un autentico potere da riconoscere (non da legittimare, intendiamoci…) perché se lo si riconosce come tale non lo si sottovaluta e lo si può comprendere molto più a fondo.

Il libro del Presidente Cossiga quindi, pur duro in molti passaggi e di primo acchito spregiudicato, ricorda il Principe di Machiavelli, o meglio ne ricorda l’ambigua geometria di riferimenti: scrivere per il potente come governare il popolo, ma al contempo comunicare al popolo come il potente ragiona mentre governa.


 

giovedì 2 giugno 2016

Suo Marito


Titolo: Suo Marito

Autore: Luigi Pirandello

Anno di Pubblicazione: 1911

Genere: Romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin


Da quindici giorni Attilio Raceni, direttore della rivista femminile Le Grazie scontava con infinite nome, arrabbiature e dispiaceri d’ogni genere una sua gentile idea: quella di salutare con un banchetto la giovane e già illustre scrittrice Silvia Roncella, venuta da poco tempo con marito a stabilirsi da Taranto a Roma.

Se per caso, mettendo a posto la libreria di famiglia o svuotando la soffitta del bisnonno, ti capitasse per le mani un’edizione 1911 di questi romanzo, tienilo da conto, anche se sgualcito, perché sarebbe un vero tesoro. 

Il fatto che il titolo non ti sia familiare non deve trarti in inganno. Di fronte all’immensa produzione pirandelliana, di fronte all’eccezionalità della qualità di un Il Fu Mattia Pascal o un Uno Nessuno Centomila, è naturale che questo romanzo sia messo in secondo piano nel percorso scolastico ordinario. Questo senza dimenticare che la penna è la medesima, gli argomenti trattati sempre profondi e la sua storia editoriale assai curiosa. 

Suo Marito è già un titolo interessante, perché annuncia in due parole sia i personaggi principali, un uomo e una donna, sia il tema portante ovvero che il loro rapporto priva entrambi di una propria identità. La protagonista si chiama Silvia Roncella e viene introdotta inizialmente solo come riflesso, ovvero attraverso le parole e le azioni del marito, Giustino Boggiolo. Silvia è una scrittrice, giovane e spontanea, che ottiene un inatteso successo. Giustino è un piccolo impiegato, che coglie immediatamente il potenziale economico e sociale dell’attività della moglie e si impegna in un’intensa attività manageriale.

Questa situazione offre a Pirandello la possibilità di indagare molti temi a lui cari. Il primo, ovviamente, è quello dell’identità: Silvia da ingenua scrittrice, diventa una professionista del mestiere, proprio come vorrebbe il marito, diventando però un’altra persona e allontanandosi dalla sua vita precedente; il marito, dal canto suo, prima perde il riconoscimento sociale, perché tutti lo dileggiano per il successo della moglie, poi perde il suo lavoro, infine, perde anche i suoi ruoli di marito e di padre. Entrambi i protagonisti perdono la loro identità, inseriti in un contesto in cui gli altri modificano senza migliorare.

Il secondo tema è il complesso rapporto uomo donna e, dal momento che Pirandello è Pirandello, questo aspetto presenta tante prospettive diverse: dalla difficoltà di essere se stessi nel rapporto, alla difficoltà di avere un’identità di coppia; dalle aspettative sociali rurali, a quelle urbane e mondane della capitale; dai valori tradizionali che vogliono una donna rinchiusa tra le pareti domestiche con un marito buon padre di famiglia, alla decadenza morale dell’assenza di ruoli definiti.

Se vorrai leggere questo bellissimo romanzo, avrai dunque la possibilità di riflettere su temi ancora oggi attuali, con il garbo che riserva questo eccezionale Scrittore di provar sempre compassione per la miseria umana e di preferire, nel descriverla, l’ironia allo stigma. La lettura si presenta scorrevole e intrigante, a tratti persine divertente, con quelle pennellate di poesia che appaiono più come una carezza consolatoria che come uno schiaffo moralizzatore.

L’edizione attualmente in vendita non è l’originale, ma una revisione che ne fece il figlio Stefano, si auspica in accordo con i voleri paterni, quando diede nuovamente il libro alle stampe nel 1973. Questa è un’altra storia, che il romanzo reca con sé, assai bizzarra. Pirandello aveva pubblicato il romanzo a Roma, dove si era trasferito da poco, in un clima culturale effervescente che annoverava tra i suoi protagonisti altre eccellenze della Letteratura, come D’Annunzio, Carducci e Boito. 

Il romanzo venne accolto con favore, naturalmente, ma ben presto divenne anche oggetto di pettegolezzi e di malignità, non già rivolte all’Autore, ma alla giovane Deledda, che, in ascesa nella carriera letteraria, s’era trasferita a Roma e che, alle malelingue dei salotti, pareva assomigliare molto alla protagonista del romanzo. Nonostante Pirandello avesse più volte rifiutato ogni accostamento, la Deledda si risentì moltissimo, che oltre e non condividere il genio evidentemente non non condivideva nemmeno l’ironia dell’illustre collega: tanto fece e tanto disse, che Pirandello, da signore, qual era, fece ritirare il libro dal mercato.


Che l’Autore tenesse al suo romanzo è provato dal fatto che continuò, negli anni successivi, a correggerlo e a migliorarlo. Si deve essere grati al figlio che lo restituì alle stampe, a sessant’anni di distanza, offrendo a tutti la possibilità di godere di questo delizioso scritto, di cui non solo la Deledda non era protagonista, ma nemmeno avrebbe meritato di esserlo.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero