venerdì 24 giugno 2016

Verra la morte e avrà i tuoi occhi

Titolo: Verrà la Morte e Avrà i Tuoi Occhi

Autore: Cesare Pavese

Anno di Pubblicazione: 1951

Genere: Poesia

Recensione di: Chiara Bortolin

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Fino al Novecento o, come piace agli storici, fino al Congresso di Vienna, leggere la società era piuttosto facile. Il potere politico era gestito dall’aristocrazia, il potere economico era gestito dalla borghesia, il popolo contava sulla propria forza lavoro. Con una società schematizzata, anche la produzione letteraria era codificata, poteva essere foriera di idee conservatrici o progressiste, ma il codice di trasmissione era univoco.

Il Novecento spazza via tutto, crea nuove forme di distribuzione del potere e nuovi assetti sociali, le ideologie si frantumano e si apre l’epoca che Bauman, con una buona intuizione, definisce  società liquida.

In questo diluirsi di regole e di codici, anche la poesia, che è lo specchio più lucido e raffinato della Letteratura, perde di struttura. La poesia del Novecento non usa più le strutture rassicuranti dei sonetti o la metrica serrata degli endecasillabi, si creano i versi sciolti. Così anche i concetti, pur nella sintesi, sembrano più sfuggevoli, più interpretabili, più discrezionali.

Se si fa una ricerca veloce, si vedrà che di Verrà la Morte e avrà i tuoi occhi si trovano tre chiavi interpretative: una biografica, una intimistica e una sentimentale, ciascuna supportata con buone argomentazioni.

L’interpretazione biografica trova il suo fondamento sulla relazione sentimentale di Pavese con un’attrice americana, la cui fama è più legata alle vicissitudini pavesiane che non alla propria carriera. La relazione, neanche a dirlo, non ebbe il lieto fine e Pavese, che non ebbe in amore la fortuna che ebbe con la letteratura, ne rimase profondamente segnato. 

Coloro i quali leggono la poesia sotto questa luce ricorrono al classico binomio amore e morte, con sfumature che vanno dalla psicologica elaborazione delle delusione come lutto alla conservazione del ricordo dell’amata fino all’ultimo istante.

Che un Autore come Pavese possa essere ridimensionato a un sedotto e abbandonato, con tutta l’eleganza di alcune critiche, pare proprio poco adeguato.

Di tutt’altro spessore appare la visione intimistica. L’interlocutore a cui l’Autore si rivolge è la propria anima e la poesia sarebbe un dialogo interiore. Sotto questa interpretazione, il significato muta completamente: la morte è un pensiero costante con cui il poeta si confronta, un’angoscia sedimentata, che si cerca di nascondere, ma che si ripropone quotidianamente. 

Questa ossessione per la morte ritorna nel tema pavesiano del vizio assurdo, ovvero il pensiero del suicidio, che viene visto come l’unica soluzione al mal di vivere. La consapevolezza dell’inevitabilità della morte apre un conflitto con il desiderio di vivere: si cerca una speranza, una ragione, per attenuare questo dolore. Pavese, chiaramente, non la trova. 

L’ultima interpretazione è una variante di quella intimista. Posti i temi pavesiani a fondamento, l’interlocutore del Poeta è un’altra persona, un amore, come Clizia per Montale, vera ma sublimata. Se si legge in questo modo, si conferma il senso di disperazione di fronte alla morte, ma la solitudine di questa angoscia si stempera nei tuoi occhi.



A voler essere rigorosi, la lettura filologicamente più corretta appare la seconda. Consapevoli di questo, ci si può concedere una speranza: rappresentare per una persona l’ultimo volto visto, l’ultimo sguardo vero o immaginifico, che attutisca la durezza dell’inevitabile e che dia un significato a tutto ciò che è stato prima. Visto dalla parte dell’interlocutore è il privilegio di sopraffare la morte assumendone il volto.

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Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero