venerdì 10 giugno 2016

Fotti Il Potere





Titolo: Fotti il potere

Autore: Francesco Cossiga con Andrea Cangini

Anno di Pubblicazione: 2010

Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
 
Questa recensione non intende danzare sullo scivoloso patinoire delle considerazioni partitiche o politiche, perché l’oggetto della critica è un libro, scritto sì da chi ha ricoperto l’incarico di Ministro dell’Interno, Presidente del Consiglio, Presidente del Senato e Presidente della Repubblica Italiana, ma che in questo caso è evocato per un prodotto editoriale.

Una premessa sull’arte del governo tuttavia appare necessaria: la Politica a cui si riferisce Cossiga è soprattutto quella che un tempo deteneva il primato delle scelte e delle decisioni nel Paese. Attualmente invece le cose non stanno più così, perché oggi il primato spetta all’economia e 
soprattutto alla sua anima inafferrabile ai più, cioè la finanza. La Politica infatti oggi appare come una sovrastruttura tecnica necessaria alla legittimazione del potere economico, che in ultimo vezzo di concertazione,
si pone in rapporto dialettico, proprio quando non può farne a meno, come una sorta di atto consultivo dovuto, agli elettori ed ai loro rappresentanti.

Un secondo aspetto riguarda invece il Cossiga che scrive nel 2010, ovvero ormai fuori dai giochi politici e addirittura prossimo al termine della propria esperienza terrena. In funzione di questi due aspetti, ritroviamo un autore che non usa mediazioni e non intende convincere con le armi della retorica. In fondo Cossiga è sempre stato un politico anomalo, addirittura irrilevante all’interno della Democrazia Cristiana (come egli stesso si definisce più volte), ma sempre presente nei passaggi più importanti di oltre quarant’anni di vita politica italiana.

In questo libro così possiamo leggere numerose dichiarazioni sorprendenti, ancora più se ci ricordiamo della biografia del Presidente: cattolico credente figlio di massoni e mai entrato nella Massoneria, cugino di Enrico Berlinguer e avversario di “fiducia” del più grande Partito Comunista Europeo, ciclotimico presunto che sarebbe potuto diventare due volte Presidente della Repubblica, dopo la prima in cui aveva presentato le dimissioni.

Ciò che leggiamo non è soltanto sorprendente:

“Nel rapimento Moro, le Brigate Rosse non si erano rese conto di avere
vinto”;

“Dobbiamo rassegnarci perché il potere mafioso, quello camorrista e quello
‘ndranghetista non ci sono estranei”;

“Per il Vaticano contano solo i soldi”;

“E’ la forza e non il diritto a dare forma al mondo”.

Questi sono colpi che arrivano dritto allo stomaco, soprattutto se chi li pronuncia è stato l’autorità suprema della Repubblica Italiana. Eppure queste esternazioni e molte altre dello stesso tenore, se immediatamente disturbano e generano un senso di ripulsa, al fondo della lettura concorrono a fornire un metodo di lettura Politica. Se infatti ci si lascia pervadere da queste affermazioni, il lettore troverà al termine una chiave di interpretazione che attribuisce senso a numerosissimi fenomeni, anche attuali, che viceversa non sarebbero interpretabili attraverso la logica lineare e “legittima” di un cittadino comune.






Questo è il primo aspetto che attrae del libro: Cossiga fornisce gli elementi base della logica politica, che se estranea e sempre meno intelligibile ai più, dall’altra risulta ancora viva nei partiti e nella vita parlamentare, anche se privata di un aspetto che ne ha decretato i fasti passati: il potere effettivo. Comprendiamo così, con una dose forse eccessiva di realtà, che i principi alti, democratici e universali debbono utilizzare la verità dei fatti in maniera strumentale e parziale per potersi affermare e riaffermare. E se i principi del politico sono fondamentalmente quelli di noi tutti, i mezzi per raggiungerli e garantirli possono non essere altrettanto trasparenti o socialmente accettabili.




Sarà per questo che chi ha avuto a lungo un consenso di massa tramite cui ha stabilito le sorti italiane è poi immancabilmente finito appeso a testa in giù, esiliato, sepolto sbrigativamente con vergogna o processato con infamia?

Precisamente questo è il passaggio più delicato per chi intende parlare di politica al massimo livello: al di sopra degli uomini di Governo non c’è nulla di antropologicamente sacro né laicamente concreto. Il ribadire o addirittura l’incarnare un principio è innanzitutto atto di solitudine, che deve essere solido, in virtù di un ragionamento. La trasmissione invece del medesimo può avere forme liquide e alterate, ma deve esserci per poter svolge un ruolo fondamentale ai fini della sopravvivenza del primo.

Se manca una dei due elementi, ci fa capire Cossiga, si ha a che fare con un cialtrone. Oppure, se chi legge la politica non ha questo ben chiaro, rischia di commettere errori madornali di valutazione. Sia come candidato, sia come elettore.

Il secondo aspetto invece che erompe qua e là nel libro è il concetto di potere. Questo termine, ben lontano dall’essere una caratteristica quasi immanente, è illustrato via via come qualcosa di completamente instabile, variabile, difficile e ribelle da gestire. Ed inoltre non ne esiste soltanto uno.

Come già anticipato poco sopra, Cossiga ad esempio nel trattare di organizzazioni mafiose, non ripropone il banale e trito salmodiare a favore di una società di diritto o di uno Stato territorialmente presente. Cossiga dice chiaramente che bisogna rassegnarsi, perché la mentalità mafiosa non nasce spontaneamente altrove e viene importata di contrabbando in Italia: essa è parte di mentalità e culture radicate e rappresenta un autentico potere da riconoscere (non da legittimare, intendiamoci…) perché se lo si riconosce come tale non lo si sottovaluta e lo si può comprendere molto più a fondo.

Il libro del Presidente Cossiga quindi, pur duro in molti passaggi e di primo acchito spregiudicato, ricorda il Principe di Machiavelli, o meglio ne ricorda l’ambigua geometria di riferimenti: scrivere per il potente come governare il popolo, ma al contempo comunicare al popolo come il potente ragiona mentre governa.


 

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Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero