venerdì 26 agosto 2016

Canale Mussolini

Titolo: Canale Mussolini
Autore: Antonio Pennacchi
Anno di Rappresentazione: 2010
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin






Il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’aver pure ragione.

Mi piacerebbe poterti raccontare che ho scoperto questo libro per caso, girovagando tra le scaffalature malferme di una libreria di quartiere, con l’aria annoiata da intellettuale scafato: questo romanzo meriterebbe una storia così.
Purtroppo la vicenda è molto meno avvincente: ho letto on line un estratto del romanzo subito dopo l’assegnazione del Premio Strega. A mia parziale soddisfazione, posso dire che ero andata a cercarlo, non tanto per il premio, che ormai di rado offre garanzie di qualità, quanto per l’Autore, Pennecchi. 
Mi era rimasto in mente il suo nome per un fatto curioso: al termine di un convegno e relativo battibecco con Gianni Vattimo, Pennacchi aveva concluso lo scambio di opinioni assestando al professore un poco accademico: “Ah Vattimo, vedi d’annattela a pijà ’n der culo”. E’ del tutto evidente che l’offesa è l’arma di chi non possiede argomenti e che pertanto è necessario evitare colorite ma inutili ostilità, tuttavia questo atto ebbe il merito di porre in evidenza alle case editrici questo autore, come a dire: non tutto il male vien per nuocere.
Questo a maggior ragione se si considera che  lo Scrittore aveva tentato più volte la pubblicazione, con titoli diversi e la risposta, quando arrivava, era no, grazie. Pennacchi apostrofa un membro autorevole della comunità dei saggi e qualcuno finalmente legge il romanzo e scopre, guarda il caso, che non è male. E non è male, non è affatto male.

Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? e non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei nostri vicini. Ogni pianta. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare di venire fino a qui?

Il romanzo tratta le vicende della famiglia Peruzzi, in epoca fascista e nell’immediato dopoguerra. La peculiarità è che i protagonisti fanno parte di un gruppo di famiglie venete selezionate dalla burocrazia fascista per il ripopolamento delle aree bonificate dell’Agro Pontino. 
La prima nota di merito dell’Autore è aver saputo fare di questa famiglia un modello storico valido per moltissime famiglie di quel tempo. Non solo la narrazione delle vicissitudini di Pericle e dei suoi congiunti traduce le vicissitudini di altre migliaia di  persone che dal Veneto si trasferirono nel Lazio, ma l’atmosfera ricreata è molto vicina alle memorie dei vecchi e questo conferisce una certa familiarità, che magari non è veritiera, ma che è credibile.

Lui pure sapeva com’è che va il mondo. Faceva il carrettiere e non è che avesse un’idea politica vera e propria, lui sapeva che esistono e sono sempre esistiti i ricchi e i poveri e non c’è niente da fare, è inutile che ti fai venire idee strane. è meglio che ti rassegni e basta.

Il secondo merito è che l’Autore si è preso la briga di fare qualche ricerca e, tra un episodio e l’altro, fornisce anche qualche pillola di storia del nostro Paese, che male non fa.
Si apre qui un’altra parentesi di bravura: l’Autore riesce a rendere il rapporto ambiguo che esiste tra la Storia, fatta da pochi e non sempre grandi uomini, e le storie di chi la Storia la vive nel quotidiano, come può, come riesce, come capisce. E per buona pace dei radical chic che tuttora si cuciono le giacche di velluto con toppe di antifascismo, mi limito a concordare con Churchill che così commentava il dopoguerra italiano: “Bizzarro popolo gli Italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”.
Notevole è l’impianto narrativo, con un gustoso colpo di scena in chiusura che svela l’identità dell’io narrante. Notevole l’uso del dialetto a dare solidità e profondità ai personaggi nella dimensione intima, come si usava all’epoca, quando l’italiano era riservato alle questioni ufficiali o alle classi agiate. Notevole in ultima analisi, l’aver saputo raccontare fatti tragici con il sorriso, non per sminuirne il valore, ma per renderli più digeribili. 

Certo, ripeto, era pieno di fascino il Mussolini e mio nonno se lo stava a sentire estasiato, perché parlava addirittura meglio del Rossoni: frasi secche e incisive che tu capivi subito. Con lui pareva tutto semplice, non i ragionamenti complicati che ci vuole l’avvocato per capirli.

Canale Mussolini è una lettura piacevole, racconta una storia avvincente e offre, a chi vuole cogliere, qualche spunto di riflessione, senza la pretese di avere ragione. Quella l’Autore la manifesta altrove e anche in quel caso ci si potrebbe chiedere se abbia torto.

“Fino all’anno prima tutti: Du-ce Du-cee vinceremo. Adesso non lo aveva mai potuto vedere nessuno. Tale e quale ai socialisti nel 19-21. Ma pure al Pci e allaDemocrazia Cristiana intorno al 1994. Craxi non ne parliamo, tra poco - lei vedrà - pure al Berlusconi e fra cent’anni al cascherò che ci sarà: - Chi io? ma ti pare che io ho potuto dare il voto un cascherò di quella maniera.”

venerdì 19 agosto 2016

Il Conte di Montecristo


Titolo: Il Conte di Montecristo
Autore: Alexandre Dunas
Anno di Rappresentazione: 1846
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin






Il Conte di Montecristo è per antonomasia il romanzo della vendetta e proprio questa sua nomea è il motivo che spinge la maggior parte dei lettori a prendere in mano questo tomo. 

D’altronde, non c’è nessun altro motivo per cui leggerlo. Dal punto di vista letterario se ne può dire solo male: la trama è fragile e a tratti le crepe sono evidenti; i personaggi sono, per dirla come un noto critico, di carta pesta; per quanto concerne la scrittura,  definirla mediocre è un eufemismo. Eppure questo mediocre romanzo sopravvive al trascorrere dei decenni e questo è bastevole a renderlo degno di nota se non di studio.

Il Conte di Montecristo narra le vicende di Edmond Dantes, che, vittima di un complotto di invidiosi e opportunisti, viene incarcerato con un’accusa falsa. Durante la prigionia incontra un abate che, oltre a trasmettergli tutto il suo vastissimo sapere, gli rivela il nascondiglio di un tesoro, sito nell’isola di Montecristo. Fuggito dal carcere, il protagonista recupera il tesoro e vota la propria vita a perpetrare la sua vendetta. 

E qui, che piaccia o meno, sta il merito dell’Autore: obbligare a riflettere sul tema della vendetta, su cosa sia e sul suo significato. La vendetta pare, in prima battuta, come la reazione a un’ingiustizia subita. Ma questa definizione, così immediata, ci si accorge subito essere lacunosa. L’ingiustizia dovrebbe trovare riparazione nella giustizia, il che implica che la vendetta, in quanto tale, abbia un che di diverso dal giusto.

Questo è il punto di partenza per alcune riflessioni. Punto numero uno: la vendetta è una faccenda personale, viene perseguita da Dantes in piena autonomia; il protagonista non si rivolge alla Magistratura, non chiede la riapertura del processo e la riabilitazione pubblica del suo nome; il suo unico scopo è annientare coloro che lo hanno danneggiato.

Punto numero due: la vendetta ha un che in più della giustizia. Dantes non cerca di pareggiare i conti: potrebbe far incarcerare chi lo ha mandato in carcere, potrebbe cercare la donna amata e riconquistarla, potrebbe sbaragliare economicamente chi ha avuto successo affondando lui. Invece no: l’agire di Dantes è volto alla distruzione delle vite altrui, non alla ricostruzione della propria vita.

Punto numero tre: il desiderio di giustizia è volto a ricostruire un nuovo equilibrio, la vendetta ha come unico fine la rottura dello squilibrio precedente. Dantes non guarda al futuro, non ha sogni, non si chiede cosa succederà dopo, la sua vita si blocca in un presente lunghissimo che consuma la sua e le altrui vite.

Questi alcuni degli argomenti salienti, se non altro perché sono quelli che reggono la flebilissima trama, ma ce ne sono altri, più nascosti, tra le righe: i mezzi attraverso cui la vendetta si realizza, i metodi utilizzati, l’intelligenza necessaria, le menzogne, le connivenze che si creano, gli interessi personali che sfruttano altri interessi personali.

Il successo di questo romanzo sta qui, nel suo lato positivo e nel suo lato negativo. In negativo perché Dantes rappresenta una proiezione di una parte meschina e crudele che è in ogni uomo:  a tutti è sicuramente capitato di essere vittima di un’ingiustizia e tutti hanno provato, almeno per un stante, il desiderio di rendere quanto subito con una piccola giunta. In positivo, perché è evidente che la vendetta non rovina solo chi la subisce, ma anche chi la persegue. Ne scaturisce la domanda fondamentale: ne vale la pena?

La Letteratura offre molte opportunità, una di queste è che permette di avere un patrimonio di esperienza a disposizione, senza necessariamente viverla in prima persona. Dantes è un sogno di riscatto, ma è anche un incubo di annullamento. Che poi la storia sia mal scritta, mal congegnata, con abbozzi di caratteri, non fa che rendere questo romanzo più vicino alla vita, che sovente non ha una sua trama, che è piena di crepe e che presenta talvolta persone della consistenza della cartapesta.

venerdì 12 agosto 2016

LA fine del mondo storto

Titolo: La Fine del Mondo Storto
Autore: Mauro Corona
Anno di Rappresentazione: 2010
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin


A essere sincera ho comprato e letto questo libro con delle riserve. Prima di tutto il tema apparente non è nelle mie corde, in secondo luogo non amo le narrazioni surreali, in terzo luogo detesto cordialmente i profeti delle catastrofi.
Il romanzo è ambientato nell’epoca contemporanea, in un inverno a caso, quando accade un fatto terribile: finiscono le scorte di combustibile. Dall’oggi al domani, niente più gas e petrolio: il mondo si ferma. Tutto va in tilt, con tutto ciò che ne consegue. 
E proprio le conseguenze negative e positive di questo dramma sono oggetto della narrazione del romanzo di Corona.
L’Autore non si sofferma sulle cause che hanno provocato il dramma, le considera irrilevanti, si sofferma piuttosto su ciò che ogni uomo è costretto a recuperare, nel momento in cui perde tutto.
I concetti riportati all’evidenza sono semplici, in coerenza con il pensiero dell’Autore, che non costruisce un’impalcatura concettuale, ma linee guida. 
Punto numero uno: gli uomini non sanno più fare niente, a parte qualche comunità professionalmente circoscritta, per dirla come l’Autore, non sappiamo più usare le mani. Accendere un fuoco, catturare un animale, fare un orto sono abilità per lo più dimenticate e se anche qualcuno si diletta in queste attività, lo fa sempre con il supporto della tecnologia. Fare cose semplici dal niente è un sapere perso.
Secondo punto: gli uomini sono circondati da cose che non servono a niente. Ciascuno di noi si circonda di oggetti che hanno un valore monetario, affettivo, sociale che, all’atto pratico, si possono rivelare di ben scarsa utilità.
Punto numero tre: la qualità della vita di ciascuno è intrinsecamente collegata al valore sociale che si ha. Felicità e infelicità sono spesso collegati al successo, al raggiungimento di un obiettivo, alla conquista di un traguardo. Se tutto si fermasse, se si dovesse ricominciare da capo, ciascuno riporterebbe il concetto di felicità a dimensioni decisamente più ridotte.
Quarto punto: gli uomini non sono più abituati a collaborare, che non vuol dire andare d’accordo o stimarsi, ma comprendere che unire gli sforzi è più utile che agire individualmente.
Questi sono i punti salienti che emergono dal romanzo e che, di primo impatto, non avrebbero minimamente suscitato il mio interesse. 
Siamo sommersi dalle chiacchiere degli ambientalisti più radicali che gridano alla catastrofe ambientale in ogni convegno che sia organizzato, che raggiungono in aereo come tutti noi. 
Siamo annoiati di prediche sul veri valori della vita, su quanto sia importante avere un atteggiamento aperto agli altri, su quanto cibo sprechiamo! 
Non avrei mai comprato questo libro, se non mi fosse capitato di sentire alcune interviste a Mauro Corona, che dell’intellettuale predicatore profeta non ha proprio niente. E’ un uomo, semplicemente, di buon senso, di buona cultura e del tutto indifferente al consenso. Anzi, questo scrittore è uno dei pochi che riesce a essere contro i pensieri comuni. 
I temi che lui tratta sono i cavalli di battaglia di molti -ismi, ma la sua originalità sta proprio nel trattarli fuori dagli schemi. Si può essere d’accordo o meno con le sue opinioni, ma bisogna riconoscere che stimola ad avere una propria risposta con cui controbattere, in un campo di battaglia dialettico che non ammette retorica e luoghi comuni.
Il romanzo ha poi dalla sua l’essere scritto con grazia, il che lo rende leggibile con leggerezza; con allegria, il che rende divertente; con ottimismo, il che lo rende credibile.
Questo libro è un garbato monito, non solo all’inutilità di tanta parte di ciò che ci circonda, ma anche a mantenere libero il pensiero: anche chi maneggia la cultura potrebbe scoprire, un giorno, che se non ha  un’applicazione utile, se ne può fare a meno. 






venerdì 5 agosto 2016

Lo strano caso di Romeo e Giuletta


Titolo: The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Rome and Juliet

Autore: William Shakespeare

Anno di compilazione: 1594

Genere: Teatro

Recensione di: Chiara Bortolin



Non su tu, ma io non mi sognerei mai di augurare a due sposi Siate come Romeo e Giulietta o Amatevi come Romeo e Giulietta, perché se è vero che nel pensiero comune le vicende sentimentali di questi due giovani sono assurti a icona dell’amore assoluto, è pur vero che il testo originale non rende affatto invidiabile la loro situazione. Non mi riferisco solo all’epilogo, che già di per sé pare poco desiderabile, considerando che si suicidano tutti e due nel giro di pochi minuti, ma proprio all’intera vicenda.

Io, di un Romeo, non mi fiderei. Non ci si può fidare di uno che si dichiara follemente innamorato di Rosalinda e che per essere distratto dalle pene d’amore viene portato dal cugino e dall’amico a una festa a casa dei peggiori nemici della sua famiglia! Come minimo, lui e i suoi amici sono degli incoscienti! Alla festa, poi, incontra Giulietta e in una manciata di ore la povera Rosalinda è sostituita con la più disponibile Giulietta. In preda all’amore, modo garbato per definire una più realistica e meno romantica propensione erotica, congeda gli amici e si intrattiene con la nuova fiamma.

Giulietta: chi sei tu,cosi' nascosto dalla notte,
inciampi nei miei pensieri piu' nascosti?

Romeo: non so dirti chi sono, adoperando un nome. Perche' il mio nome, o diletta santa, e' odioso a me stesso, perche' e nemico a te. E nondimeno strapperei il foglio dove lo trovassi scritto. 

Giulietta: le mie orecchie non hanno ancora udito un centinaio di parole pronunciate dalla tua lingua ,e nondimeno riconosco la tua voce : non sei forse tu Romeo, nonche' uno dei Montecchi?

Romeo: non sono ne l'uno ne l'altro, fanciulla, se a te questo dispiace.

Non so tu, ma a me Romeo sembra un frescone che pur di compicciare dichiarerebbe d’essere chiunque. Giulietta, che a questo punto non pare molto più sveglia, ricambia l’impegno d’amore e i due decidono, così su due piedi, di sposarsi. Il giorno dopo, grazie alla complicità della balia di Giulietta e di Frate Lorenzo, i due si sposano di nascosto.

A buon senso, penseresti che questo serva a mettere le famiglie di fronte al fatto compiuto, invece no. Non dicono niente a nessuno e ognuno se ne torna a casa propria, come se nulla fosse. Romeo anzi va a zonzo con glia amici e in una scaramuccia tra scapestrati, uccide Tebaldo, che un momento prima aveva ucciso il suo amico Mercuzio. Romeo viene bandito dalla città e scappa, non prima di aver finalmente consumato il matrimonio. Giulietta che rimane a casa sua, sola e deflorata, viene promessa in sposa a un altro, dal momento che il padre non sa che lei è già sposata. Qui precipita tutto.

Il Frate, altro personaggio sulla cui intelligenza varrebbe la pena riflettere, organizza un piano per far ricongiungere i due sposi e svelare a tutti che loro sono già uniti in matrimonio. Neanche a dirlo, va tutto storto. Il messo che dovrebbe informare Romeo della finta morte di Giulietta non arriva in tempo, sicché Romeo, dopo aver reso omaggio al presunto cadavere, e dopo aver incidentalmente ammazzato il pretendente di Giulietta, si uccide. Lei si sveglia e si uccide. Arrivano i familiari di tutti e, di fronte a tanto spargimento di sangue, decidono di riappacificarsi. Fine della storia. Detto inter nos, a me non convince per niente.

Non che Giulietta faccia un figura migliore di Romeo. A parte il suo rapido innamoramento, che getta un’ombra sospetta sulla sua moralità, la fanciulla racconta una quantità indegna di menzogne ai genitori, gabba il suo pretendente e si fida di una balia ottusa e di un frate pasticcione.

Perché questa storia abbia avuto tanto successo resta un mistero. Non che la critica letteraria, quella seria intendo, sappia offrire grandi orizzonti di riflessione. Una buona parte di studiosi è ancora intenta a dibattere se quest’opera sia da ritenersi effettivamente una tragedia, come il titolo originale vorrebbe, o se sia invece da considerarsi una commedia, nel dubbio si media su un tragicomico e via. Tutti concordi sul giudizio che Romeo e Giulietta sia lontanissimo dai risultati stilistici e contenutistici di un Amleto o di un Otello, nessuno ha ancora trovato spiegazioni esaustive né circa il successo dell’opera in sé, né nella mitizzazione di questa infelice storia d’amore.

Forse è che si cercano spiegazioni complesse a fenomeni ordinari. Forse è solo che in fondo due ragazzini convinti di essere innamorati fanno tenerezza; forse è che in fondo tutti noi speriamo di incontrare un grande amore per cui valga più la pena morire che vivere; forse è che le storie si prestano al mutamento dei tempi con adattamenti non ortodossi ma piacevoli.


Che Romeo e Giulietta oggi rappresentino un sogno d’amore non nuoce a nessuno e anzi giova a chi ne ha fatto un business. Basta ricordare che il E vissero felici e contenti non riguarda quest’opera e quindi è bene non fare auspici rivolti ad altre persone, che se tutti conoscono per sentito dire la storia dei Montecchi e dei Capuleti, capita anche che qualcuno l’abbia letta.

Questa mattina porta una pace che rattrista; nemmeno il sole mostrerà la sua faccia. Andiamo via da qui, a ragionare di questi dolorosi avvenimenti. Per alcuni sarà il perdono, per altri il castigo immediato: poiché mai storia fu più triste di quella di Giulietta e del suo Romeo.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero