Titolo: Canale Mussolini
Autore: Antonio Pennacchi
Anno di Rappresentazione: 2010
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin
Il dramma della condizione umana è proprio questo: sei quasi perennemente condannato a vivere nel torto, pensando peraltro d’aver pure ragione.
Mi piacerebbe poterti raccontare che ho scoperto questo libro per caso, girovagando tra le scaffalature malferme di una libreria di quartiere, con l’aria annoiata da intellettuale scafato: questo romanzo meriterebbe una storia così.
Purtroppo la vicenda è molto meno avvincente: ho letto on line un estratto del romanzo subito dopo l’assegnazione del Premio Strega. A mia parziale soddisfazione, posso dire che ero andata a cercarlo, non tanto per il premio, che ormai di rado offre garanzie di qualità, quanto per l’Autore, Pennecchi.
Mi era rimasto in mente il suo nome per un fatto curioso: al termine di un convegno e relativo battibecco con Gianni Vattimo, Pennacchi aveva concluso lo scambio di opinioni assestando al professore un poco accademico: “Ah Vattimo, vedi d’annattela a pijà ’n der culo”. E’ del tutto evidente che l’offesa è l’arma di chi non possiede argomenti e che pertanto è necessario evitare colorite ma inutili ostilità, tuttavia questo atto ebbe il merito di porre in evidenza alle case editrici questo autore, come a dire: non tutto il male vien per nuocere.
Questo a maggior ragione se si considera che lo Scrittore aveva tentato più volte la pubblicazione, con titoli diversi e la risposta, quando arrivava, era no, grazie. Pennacchi apostrofa un membro autorevole della comunità dei saggi e qualcuno finalmente legge il romanzo e scopre, guarda il caso, che non è male. E non è male, non è affatto male.
Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? e non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui? Lì eravamo sempre stati e lì stavano tutti i nostri parenti. Conoscevamo ogni ruga del posto e ogni pensiero dei nostri vicini. Ogni pianta. Ogni canale. Chi ce lo faceva fare di venire fino a qui?
Il romanzo tratta le vicende della famiglia Peruzzi, in epoca fascista e nell’immediato dopoguerra. La peculiarità è che i protagonisti fanno parte di un gruppo di famiglie venete selezionate dalla burocrazia fascista per il ripopolamento delle aree bonificate dell’Agro Pontino.
La prima nota di merito dell’Autore è aver saputo fare di questa famiglia un modello storico valido per moltissime famiglie di quel tempo. Non solo la narrazione delle vicissitudini di Pericle e dei suoi congiunti traduce le vicissitudini di altre migliaia di persone che dal Veneto si trasferirono nel Lazio, ma l’atmosfera ricreata è molto vicina alle memorie dei vecchi e questo conferisce una certa familiarità, che magari non è veritiera, ma che è credibile.
Lui pure sapeva com’è che va il mondo. Faceva il carrettiere e non è che avesse un’idea politica vera e propria, lui sapeva che esistono e sono sempre esistiti i ricchi e i poveri e non c’è niente da fare, è inutile che ti fai venire idee strane. è meglio che ti rassegni e basta.
Il secondo merito è che l’Autore si è preso la briga di fare qualche ricerca e, tra un episodio e l’altro, fornisce anche qualche pillola di storia del nostro Paese, che male non fa.
Si apre qui un’altra parentesi di bravura: l’Autore riesce a rendere il rapporto ambiguo che esiste tra la Storia, fatta da pochi e non sempre grandi uomini, e le storie di chi la Storia la vive nel quotidiano, come può, come riesce, come capisce. E per buona pace dei radical chic che tuttora si cuciono le giacche di velluto con toppe di antifascismo, mi limito a concordare con Churchill che così commentava il dopoguerra italiano: “Bizzarro popolo gli Italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”.
Notevole è l’impianto narrativo, con un gustoso colpo di scena in chiusura che svela l’identità dell’io narrante. Notevole l’uso del dialetto a dare solidità e profondità ai personaggi nella dimensione intima, come si usava all’epoca, quando l’italiano era riservato alle questioni ufficiali o alle classi agiate. Notevole in ultima analisi, l’aver saputo raccontare fatti tragici con il sorriso, non per sminuirne il valore, ma per renderli più digeribili.
Certo, ripeto, era pieno di fascino il Mussolini e mio nonno se lo stava a sentire estasiato, perché parlava addirittura meglio del Rossoni: frasi secche e incisive che tu capivi subito. Con lui pareva tutto semplice, non i ragionamenti complicati che ci vuole l’avvocato per capirli.
Canale Mussolini è una lettura piacevole, racconta una storia avvincente e offre, a chi vuole cogliere, qualche spunto di riflessione, senza la pretese di avere ragione. Quella l’Autore la manifesta altrove e anche in quel caso ci si potrebbe chiedere se abbia torto.
“Fino all’anno prima tutti: Du-ce Du-cee vinceremo. Adesso non lo aveva mai potuto vedere nessuno. Tale e quale ai socialisti nel 19-21. Ma pure al Pci e allaDemocrazia Cristiana intorno al 1994. Craxi non ne parliamo, tra poco - lei vedrà - pure al Berlusconi e fra cent’anni al cascherò che ci sarà: - Chi io? ma ti pare che io ho potuto dare il voto un cascherò di quella maniera.”
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