Autore: John Fante
Prima edizione: 1938
Prima edizione italiana: 1948
Genere: Romanzo
Quindici anni fa, quando
comprai la bellissima edizione Marcos Y Marcos, quando Amazon non c’era, quando
John Fante non era ancora John Fante e a consigliarlo non era un amico, ma Bukowski,
non era così.
Voglio dire: se ti affidavi a
un alcolizzato sessocentrico come il caro vecchio Hank per scegliere i libri,
non andavi in libreria come un catecumeno alle Paoline. Andavi in libreria, in
diverse librerie, con quella falsa sicurezza con cui avevi comprato la prima
scatola di contraccettivi. Buongiorno,
sto cercando… AspettaPrimaveraBandiniDiJohnFante.
Lo dicevi così, tutto d’un fiato, e puntualmente il libraio, che neanche
alzava lo sguardo da quello che stava facendo, sibilava John Dante? Un curioso
miscuglio fra John Donne e l’Alighieri.
Non ce l’avevano, era ovvio
che non ce l’avessero. E questo dava alla timidezza un tocco da radical chic,
un certo orgoglio da intellettuale incompreso. Lo trovai infine in una libreria che vendeva
fondi di magazzino. Tornava tutto meravigliosamente. E’ così che un vero
intellettuale cerca libri!
Poi lo lessi. Charles B. aveva
ragione, lo si capisce subito.
Avanzava, scalciando
la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo
Bandini e abitava in quella strada, tre isolati più avanti. Aveva freddo,
e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di
cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva
pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.
La vicenda è quella di un italiano
originario dell’Abruzzo, immigrato in America per cercar fortuna. La storia è
quella di un’attesa: la bella stagione, perché d’inverno, ai quei tempi, un
muratore che costruiva case non lavorava e se non lavorava non mangiava, non pagava
i debiti, litigava con la moglie e deludeva i figli. Suona familiare?Il romanzo hai i tratti di un classico: le vicissitudini di ogni immigrato, in chiave storica; ma anche la trama attuale di ogni volta che ci si sente dire Lei ha un cv eccezionale, torni tra un anno; Le faremo sapere; Lei qui è sprecato: vogliamo darle l’opportunità di trovare un incarico alla sua altezza. Abbiamo tutti una primavera da aspettare, anche se non tutti noi siamo John.
Fante ha inoltre un altro
merito: riesce a rendere nella brutale descrizione della miseria, materiale e
morale, l’epica dell’animo umano. Nella sua scrittura senti tutto il freddo
dell’inverno della povertà, ma anche il calore di una speranza condivisa.
Questo non lo fa uno scrittore
di mestiere. Questo è solo di chi è uno scrittore per esigenza; perché scrivere
è il primo pensiero quando si alza al mattino, prima ancora di avere acceso la
sigaretta; scrivere è il motivo per cui fa un lavoro schifoso che gli consente
di mangiare. Scrivere è la sua primavera
da spettare.
Il
sole era furioso, giallo d’ira nel cielo, vendicandosi di un mondo mondano che aveva
approfittato della sua assenza per dormire e gelare. Pezzi di neve cadevano dai
pioppi nudi intorno al campo di baseball, piombavano a terra sopravvivendo solo
un istante, prima che la bocca gialla su nel cielo li lambisse fino a farli
sparire. Il vapore fumava dalla terra, dissolvendosi nell’aria. A occidente
nuvole tempestose s’allontanavano in riottosa ritirata, abbandonando il loro
attacco alle montagne, le cui vette immense e innocenti protendevano le labbra
appuntite al sole, riconoscenti.
Ci sono voluti decenni perché
la primavera di John Fante arrivasse, dopo che il diabete gli aveva fatto amputare
le gambe e perdere la vista, dopo che la voracità del sistema di Hollywood lo
aveva sbranato, dopo la sua morte, avvenuta in un’anonima stanza di Los Angeles.
Ci sono tanti motivi per cui questo è avvenuto, ma li lascio ai veri
intellettuali, a quelli che sfiorandosi la tempia con l’indice e socchiudendo
gli occhi come un gatto logoro, avvezzo a ogni cosa della vita, oggi lo
santificano con tre parole: “Oh John Fante”.