venerdì 31 ottobre 2014

Aspetta Primavera, Bandini



Autore: John Fante

Prima edizione: 1938

Prima edizione italiana: 1948
Genere: Romanzo

 Da assumere in dosi quotidiane, qualche pagina ogni volta che puoi. Tenere fuori dalla portata di chi te lo chiede in prestito: sicuramente non te lo restituisce.
Recensione di: Chiara Bortolin
 
Se oggi vai su Amazon, devi solo selezionare, ordinare, pagare e due giorni dopo la tua copia di Aspetta Primavera, Bandini è sul tuo comodino. Se non ti piace comprare on line, vai in libreria e una commessa gentile ti dirà che, se vuoi, hanno anche Chiedi alla polvere e La confraternita del Chianti. Ormai lo trovi anche al supermercato, John Fante.

Quindici anni fa, quando comprai la bellissima edizione Marcos Y Marcos, quando Amazon non c’era, quando John Fante non era ancora John Fante e a consigliarlo non era un amico, ma Bukowski, non era così.
Voglio dire: se ti affidavi a un alcolizzato sessocentrico come il caro vecchio Hank per scegliere i libri, non andavi in libreria come un catecumeno alle Paoline. Andavi in libreria, in diverse librerie, con quella falsa sicurezza con cui avevi comprato la prima scatola di contraccettivi. Buongiorno, sto cercando…  AspettaPrimaveraBandiniDiJohnFante. Lo dicevi così, tutto d’un fiato, e puntualmente il libraio, che neanche alzava lo sguardo da quello che stava facendo, sibilava John Dante?  Un curioso miscuglio fra John Donne e l’Alighieri.

Non ce l’avevano, era ovvio che non ce l’avessero. E questo dava alla timidezza un tocco da radical chic, un certo orgoglio da intellettuale incompreso.  Lo trovai infine in una libreria che vendeva fondi di magazzino. Tornava tutto meravigliosamente. E’ così che un vero intellettuale cerca libri!
Poi lo lessi. Charles B. aveva ragione, lo si capisce subito.

Avanzava, scalciando la neve profonda.  Era un uomo disgustato.  Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati più avanti.  Aveva freddo, e le scarpe sfondate.  Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.
La vicenda è quella di un italiano originario dell’Abruzzo, immigrato in America per cercar fortuna. La storia è quella di un’attesa: la bella stagione, perché d’inverno, ai quei tempi, un muratore che costruiva case non lavorava e se non lavorava non mangiava, non pagava i debiti, litigava con la moglie e deludeva i figli. Suona familiare?

Il romanzo hai i tratti di un classico: le vicissitudini di ogni immigrato, in chiave storica; ma anche la trama attuale di ogni volta che ci si sente dire Lei ha un cv eccezionale, torni tra un anno; Le faremo sapere; Lei qui è sprecato: vogliamo darle l’opportunità di trovare un incarico alla sua altezza. Abbiamo tutti una primavera da aspettare, anche se non tutti noi siamo John.

Fante ha inoltre un altro merito: riesce a rendere nella brutale descrizione della miseria, materiale e morale, l’epica dell’animo umano. Nella sua scrittura senti tutto il freddo dell’inverno della povertà, ma anche il calore di una speranza condivisa.
Questo non lo fa uno scrittore di mestiere. Questo è solo di chi è uno scrittore per esigenza; perché scrivere è il primo pensiero quando si alza al mattino, prima ancora di avere acceso la sigaretta; scrivere è il motivo per cui fa un lavoro schifoso che gli consente di mangiare. Scrivere è la sua primavera da spettare.

Il sole era furioso, giallo d’ira nel cielo, vendicandosi di un mondo mondano che aveva approfittato della sua assenza per dormire e gelare. Pezzi di neve cadevano dai pioppi nudi intorno al campo di baseball, piombavano a terra sopravvivendo solo un istante, prima che la bocca gialla su nel cielo li lambisse fino a farli sparire. Il vapore fumava dalla terra, dissolvendosi nell’aria. A occidente nuvole tempestose s’allontanavano in riottosa ritirata, abbandonando il loro attacco alle montagne, le cui vette immense e innocenti protendevano le labbra appuntite al sole, riconoscenti.
Ci sono voluti decenni perché la primavera di John Fante arrivasse, dopo che il diabete gli aveva fatto amputare le gambe e perdere la vista, dopo che la voracità del sistema di Hollywood lo aveva sbranato, dopo la sua morte, avvenuta in un’anonima stanza di Los Angeles. Ci sono tanti motivi per cui questo è avvenuto, ma li lascio ai veri intellettuali, a quelli che sfiorandosi la tempia con l’indice e socchiudendo gli occhi come un gatto logoro, avvezzo a ogni cosa della vita, oggi lo santificano con tre parole: “Oh John Fante”.

 

 

 

 

venerdì 24 ottobre 2014

Anna Karenina


www.tesionline.it/default/glossario.jsp?GlossarioID=2436 Il conformismo. Anna Karenina è un romanzo sul conformismo. Il conformismo per cui si nasce in un certo ambiente, che offre determinate opportunità, impone dei limiti e indica la via. Verso dove? Verso la conservazione della struttura sociale. Un perpetrarsi di usi, di costumi, di tradizioni, di modi di vivere e di pensare.

Molti, la maggioranza, in ogni epoca, in ogni società, si adeguano. Anzi, non mettono neanche in discussione l’adesione al programma. La maggioranza, la stessa che detta le regole e ne garantisce il mantenimento, non si fa domande. Si è sempre fatto così. Punto.

Una piccola minoranza ha dei dubbi. Perché il conformismo garantisce l’accettazione sociale, non la felicità. Il conformismo dice chi devi essere, non chi puoi essere. Il conformismo offre un ruolo, non un’identità.

Di questa minoranza titubante, una maggioranza decide di risolversi il dubbio e lascia perdere. Arriva alla stessa conclusione di chi il dubbio non se l’è neanche posto: si è sempre fatto così.

Ma qualcuno, qualcuno non ci sta. Non sono gli anti-conformisti, che creano un conformismo alternativo, no, sono singoli individui. Anna. Anna, che in quel conformismo si sente soffocare, trova nell’amore la forza per rompere gli schemi.

E qui nasce il dramma, la vera tragedia di Anna, di ogni Anna che tenta di rompere gli schemi. La vera tragedia è che Anna, dopo aver rinunciato a un conformismo che conosce, finisce in un nuovo conformismo, in nuove regole, nuove abitudini, nuove convenzioni, che le sono estranee. C’è uno scollamento tra ciò che lei vorrebbe e ciò che si trova a vivere. E questa frattura tra il desiderio, pagato così a caro prezzo, e la realtà è annichilente.

Impossibile tornare indietro. Insopportabile andare avanti. Incapace di adeguarsi nuovamente, perché non può accettare di nuovo, arrendersi di nuovo, mette fine a ogni dubbio. Anna non si uccide per amore, questa è una interpretazione conformista, che non rende giustizia al genio di Tolstoj. E non rende giustizia a ogni Anna che in ogni tempo e in ogni storia ha avuto il coraggio di tentare di essere se stesso.

Che essere se stessi renda felici o meno è ancora un altro discorso. Certamente è una scelta a priori: tentare di essere felici a modo proprio o accettare di essere infelici in modo altrui. Scriverà quasi un secolo dopo J. L. Celine: “E’ forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire”.

Dopo aver rinunciato alla felicità, l’unico orgoglio non è forse essere infelice a modo proprio?
 
(questa recensione è dedicata a Emanuela, che forse un giorno leggerà Anna Karenina)

venerdì 17 ottobre 2014

Fight Club



Compri mobili. Dici a te stesso, questo è il divano della mia vita. Compri il divano, poi per un paio d’anni sei soddisfatto al pensiero che, dovesse andare tutto storto, almeno hai risolto il problema divano. Poi il giusto servizio di piatti. Poi il letto perfetto. Le tende. Il tappeto. Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, ora possiedono te.

Lo scrivo subito: questo non è un libro per tutti e non è neanche un libro che puoi leggere nei ritagli di tempo. Se stai cercando il classico romanzo Era una notte buia e tempestosa, questo libro non fa per te. Se non hai tempo, questo libro non è per te.
Questo libro si legge così: ti metti comodo sul divano, spegni il telefono, aspetti che faccia buio e poi cominci:

Tayler mi trova un posto da cameriere dopo di che c'è Tayler che mi caccia una pistola in bocca.
 
Sarebbe meglio non dover andare al lavoro il giorno dopo, per poterlo leggere, così, tutto d’un fiato, come butteresti giù una tequila.

Hai visto il film? Ok, dimenticalo. Non è che il film sia brutto, anzi, è anche un bel film, un film cult, hanno fatto del loro meglio, è proprio che il libro è un’altra cosa. Nel film non possono rendere il libro, non possono proprio, infatti il film e il libro hanno due finali diversi, ma non c’era altra via.
Quindi, se hai visto il film, non cercarlo nel libro e se non hai visto il film, guardalo dopo aver letto il libro.
Adesso che hai il tuo libro in mano, preparati a leggerlo. Questo libro può essere letto solo fidandosi, abbandonandosi, lasciandosi andare. Devi proprio. Sarà come gettarsi nel vuoto, sentirai tutto il delirio dell’autore accerchiarti, ti sembrerà di soffocare. Tranquillo, è tutto a posto. A un certo punto questo vortice si interrompe, il cerchio si chiude e tu sarai in piedi, alle tre del mattino, a fare un applauso nella tua stanza a una persona che non conosci.
Questo libro non è un capolavoro della letteratura, Chuck Palaniuk non vincerà il Nobel, non sarai una persona migliore perché lo hai letto.
Questo libro non è neanche un classico, non sarai nemmeno più colto.
Questo libro è un’esperienza. A te la scelta. In ogni caso non lo saprà nessuno.
Prima regola del Fight Club: mai parlare del Fight Club.

venerdì 10 ottobre 2014

Essere Senza Destino




Prendo il libro in mano, lo guardo, leggo il tiolo, leggo il retro, sai il riassuntino che c'è al fondo, leggo di nuovo il titolo, Essere senza destino. In che senso? Mi chiedo. Nel senso di Vivere senza destino o nel senso Un essere umano senza destino? Lì per lì scrollo le spalle. Sarà uno di quei vezzi che hanno certi traduttori che, non essendo scrittori di loro, si fanno prendere la mano dalle velleità letterarie.
Invece sbaglio. Il titolo originale è quello. Scusi, Signor Traduttore!

Il titolo originale è quello e non è un'ambiguità, è il dilemma che pervade tutto il romanzo e che si scioglie, per l'autore, alla fine. Dico per l'autore perché per il lettore è tutta un'altra faccenda e se il lettore se lo risolve o no sono pure un po' fatti suoi.
 
Il romanzo in sé non ha un tema particolarmente originale. E' uno dei tanti romanzi sulla deportazione. Voglio dire, da Primo Levi a Anna Frank, in mezzo c'è di tutto di più.
Ma questo libro, è un'altra roba! Questo libro è di una bellezza sconvolgente! Questo libro è uno dei pochi, pochissimi, libri che avrai voglia di leggere e rileggere e ogni volta ti sembrerà la prima volta.
Perché, mi chiedi Per diverse ragioni. La prima è che è un libro a cipolla. E' un romanzo, è una testimonianza autobiografica, è un libro di storia, è un libro di filosofia, è un libro di formazione. È l'essenza dell'uomo.

Prendiamo un tema a caso. L'identità, toh, una questione da niente. Il personaggio viene deportato dall'Ungheria in quanto ebreo. Il punto è che lui non si sente ebreo. Lui è nato in una famiglia ebrea, ma non è un ebreo praticante e quindi, semplicemente, non ci pensa. Di fatto scopre di essere ebreo, come etichetta, potremmo dire, perché qualcun altro gli dice "tu sei ebreo" . Uno dei dilemmi è: lui è o non è ebreo, a questo punto?

Se pensiamo alla nostra vita, non è un concetto lontano. Affatto. Noi ci vediamo in un modo, gli altri ci vedono così o in un altro modo? Noi siamo noi fino a che punto? E da dove noi siamo ciò che gli altri credono che siamo?

La questione ti sembra oziosa? Ok, allora ti faccio qualche esempio. Tu hai una certa idea politica, ma quando ti confronti con altre persone potrebbero dirti che tu non sei veramente di destra o veramente di sinistra perché il loro concetto di destra o di sinistra è diverso dal tuo. Tu puoi credere in Dio e professare il tuo culto in un certo modo. E' probabile che qualcuno ti dica che tu non sei veramente cattolico o ebreo o che so io perché pratichi il culto in un modo diverso. Questo ragionamento lo puoi applicare a mille cose: dal tifo allo stadio alle abitudini sessuali a quante volte ti fai la doccia.

Ecco, quello dell'identità è uno dei temi. Poi ce ne sono altri, fantastici!

La libertà! Ah la libertà! Io sono libero quando? Io posso essere libero anche se sono detenuto? posso essere libero se vengo privato della mia identità? E siamo di nuovo lì: sono libero se sono costretto a fare un lavoro che non mi piace? Sono libero se non posso fare quello che desidero? Sono libero?

Questo libro è ambientato in un contesto storico preciso, ma le tracce che lascia vanno oltre il tempo, oltre alla storia, già giù nella nostra anima.

Questo è un libro che parla di un uomo, di ogni uomo, quindi anche di te.

Questo libro è universale.

Questo è un Nobel che merita il Nobel.




mercoledì 8 ottobre 2014

A Ciascuno il suo contesto


Il significante è un sasso in bocca al significato. Il significante è un sasso in bocca al significato. Questa è una di quelle frasi che vorresti aver tirato fuori tu, potresti buttarci dieci anni per costruirla e altri dieci per poterla usare, ma ne varrebbe la pena.

E' una di quelle frasi topo Amor ch'a nullo amato amar perdona. eh, che vuoi aggiungere?

L'amore è l'infinito abbassato al livello dei barboncini.

Avanti!

Ditemi che queste frasi non sono belle, impossibile! Queste sono belle anche se non le capisci. Anzi, a dire il vero, la maggior parte delle volte non le capisci. Su Amor ch'a nullo amato ho sentito le più fantasiose ricostruzioni interpretative. Ma non ci si può far niente, sono belle. E' come fermarsi davanti alla Pietà. Ora, non è che devi essere uno storico dell'arte per dire che è belle. E' bella, universalmente. E' quasi un dovere morale dire che la Pietà è bella.

Bene, se poi sai anche spiegare perché è bella, la Pietà... probabilmente la vedi ancora più bella.

Il significante è un sasso in bocca al significato, oltre a essere bella ha anche un significato, che è poi il motivo per cui ho intitolato questo blog CON - TE - STO  e non, tanto per dire, quattro chiacchiere di letteratura.

Il significato, dunque! Intanto premetto. il significante: è la parola intesa come segno grafico, l'insieme delle lettere così come le scriviamo o digitiamo. Esiste quindi una corrispondenza tra la parola come segno grafico e la parola come contenuto espresso.

E qui c'è il problema. Molti segni grafici possono esprimere più di un significato e quindi possono essere ambigue.

Carmelo Bene la prendeva molto sul serio! Maledette parole che vogliono dire troppe cose e vanificano ciò che voglio dire. Un tantino speculativo, non proprio un argomento da "ciao, come va? tutto bene, tu? la famiglia? e il tuo significante?" beh, insomma un argomento su cui si potrebbe scrivere dei saggi di sei-settecento pagine poi lasciarle ai posteri, che ne facciano buon uso.

Se è vero che l'ambiguità è una roba terribile, è anche vero che ci si può ridere sopra. e giocare, non per creare equivoci, intendiamo, ma per ampliare gli orizzonti. un po' come vedere lo stesso panorama da punti di vista diversi, mica c'è da sentirsi in colpa.

E dunque, contesto è una parola che si presta a tante declinazioni, significati, interpretazioni....

Come diceva Sciascia, A Ciascuno il Suo.







Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero