venerdì 27 marzo 2015

Rosso Malpelo


 
Titolo: Rosso Malpelo
 
Anno di pubblicazione: 1878
 
Genere: Racconto
 
Recensione: Chiara Bortolin
 
Per chi ha dei dubbi
 
Ogni volta che mi appresto a leggere questo racconto, il cuore rallenta, come se fosse in attesa. E’ quella sensazione per un incontro che al contempo può deludere o rinnovare l’incanto.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi: ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone.

Mi fermo. Sospiro. Non sono ancora diventata un callo di Calliope: trovo ancora questo racconto meraviglioso. E’ così bello che faccio fatica a scegliere l’aspetto più rilevante.

Forse è l’inizio ex abrupto: nessun preambolo, nessuna contestualizzazione. La prima parola presenta il protagonista, il nomignolo, Malpelo, di cui non hai certezza fino alla parola capelli che sia una persona. 

Forse è per il chiaro sovvertimento di causa-effetto che l’autore descrive, perché è del tutto evidente che Malpelo non può avere i capelli rossi perché cattivo. 

Forse è perché con questo scavalcamento di campo, questo straniamento, che Giovanni Verga ci fa capire immediatamente il punto di vista del narratore, che coincide con quello della gente comune e contemporaneamente rende manifesto che lui non è la gente.

Forse è perché si comprende che Malpelo manterrà il vaticinio fatto da altri: diventerà un birbone, perché così deve essere, se la comunità lo crede.

Mantiene la sua promessa anche l’autore: nella sua interezza, il racconto è abbagliante.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, tignoso e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi con suo corbello tra le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio come fanno le bestie sue pari (…).

Che Malpelo sia un ragazzo lo abbiamo capito soltanto dalle parole del narratore, perché per gli altri personaggi non appare un essere umano, ma una bestia e tutti i paragoni che ritraggono Malpelo sono sempre riferiti al mondo animale.

E questo declassamento di Malpelo è così intenso che l’unica persona che gli vuole bene, che lo accarezza persino, è il padre, il cui soprannome è Bestia.

Quando poi il padre muore, non a caso, facendo la fine del topo, gli unici affetti che restano a Malpelo sono Ranocchio, anche lui una bestiola di ragazzo, un cane e un somaro. Nessun altro vuole bene a questo ragazzo: persino la madre e la sorella lo considerano una bestia da soma e come tale lo battono finché serve e poi lo abbandonano.

Eppure l’autore riesce a insinuare il dubbio che persino in lui ci sarebbe del buono, perché sarebbe capace di amare, se solo ne avesse la possibilità. Ma il pensiero comune, la maggioranza chiacchierona e ottusa, convinta che sia il numero a fare la ragione e non la verità, lo condanna, comprovando la giustezza della pena col comportamento ferino del ragazzo.

Verga non conosceva il concetto di profezia che si autoavvera, non sapeva nulla del determinismo sociale, non conosceva il concetto di esclusione sociale.

Verga scrive questo racconto inaugurando il periodo del Verismo, ovvero la descrizione oggettiva della società, ma questo non è un libro di denuncia. Egli, come Zolà in Francia o Gogol in Russia, constatava la delusione delle aspettative brillanti che l’Illuminismo come teoria e l’innovazione scientifica come pratica avevano prospettato.

Per decenni infatti si era creduto che il miglioramento scientifico e tecnologico avrebbe recato benefici prima materiali, poi culturali e infine morali. Si era creduto che risolta la fame, sconfitte le malattie, alfabetizzata la popolazione, l’umanità sarebbe migliorata. 

Verga e gli altri scrittori Realisti constatano invece che, a un secolo degli ideali progerssisti, il popolo continua a vivere in miseria, una miseria per cui si mangia pane secco, si riusano i vestiti dei morti, si muore senza essere pianti, sullo sfondo di un degrado bestiale.

Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava.

Non c’è livore da parte di Verga nei confronti di questa spietata maggioranza di miserevoli: la sua compassione per Malpelo è nel restituirgli l’umanità che è negata da chi, in fondo, è un suo pari.

Malpelo se li lisciava (i calzoni del padre) sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nubi, e gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che soleva accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose.

Quanto agli altri, la superstizione per cui avevano dato il tormento a Malpelo da vivo, sarà il loro stesso tormento quando Malpelo scomparirà, come a dire che la miseria non ha vincitori. Questa è la riflessione finale.

Ogni volta che prendo in mano il racconto, mi si stringe la gola. Perché se Verga mantiene la sua promessa di regalare un racconto che è poesia in prosa, quasi fosse un prezioso ermellino che diventa sudario per gli ignudi, resta poi soltanto da accertare se le promesse mantenute sono quelle del progresso o quelle della superstizione.

Ma questo dubbio non riguarda la letteratura.

venerdì 20 marzo 2015

Soldati


 Titolo: Allegria di Naufragi
Anno di pubblicazione: 1919
Genere: Poesia
Recensione di: Chiara Bortolin
Per chi vuole superare il trauma scolastico
 
 

Si sta come
D’autunno
Sugli alberi
Le foglie.

Tanto per chiarire: c’è un solo un modo di fare poesia. Tutto il resto è un vacuo andare a capo di sentimenti e di emozioni, una lista della spesa del banale, che Arthur Rimbaud, con rara efficacia critica, avrebbe definito pisciate di inchiostro.
E sempre per chiarire: togliamoci dalla testa quelle balordaggini da sessantottini ghignanti che indicano i poeti come cattivi maestri. Gli unici cattivi maestri che maneggiano la poesia sono quelli che non la sanno insegnare.
Perché tutti noi ci siamo passati: in piedi davanti alla lavagna, recitando con la grazia di un merlo, l’entusiasmo di un mulo e l’arguzia di un’anguilla, un Pascoli violentato. 

Perché è questo il trattamento che la scuola inferiore solitamente riserva alla poesia: Rossi, mi enunci la parafrasi. Bianchi mi identifichi i chiasmi. Verdi faccia lo schema delle rime.
Il risultato è che se è vero che gli italiani leggono poco, quelli che leggono poesia sono una minoranza da Pubblicità Progresso. Pochissimi, dopo il trauma della scuola, riescono a uscirne riprendendo in mano un libro di poesia.

Riproviamo.
Si sta: è chiarissimo. I soldati del titolo sono per estensione gli uomini, che esistono, che vivono. E’ talmente evidente che non c’è nemmeno bisogno di riscrivere il soggetto, un articolo e un nome in meno, via.

Come: in un certo modo, il poeta vuole che ci si fermi. Respiro, a capo.
D’autunno: facile: è una stagione di transizione, non ancora il rigore dell’inverno, non più la vitalità dell’estate.
Sugli alberi: li abbiamo in mente tutti, gli alberi in autunno, radicati, sì, ma lentamente spogli.
Le foglie: lì lì per cadere, il loro colore verde orma mutato, in attesa di un soffio di vento che le faccia scivolare via.
Alla fine della poesia, quattro righe, il significato è chiarissimo: la precarietà dell’esistenza, l’attesa di un destino già noto.
Vantaggio numero uno della poesia: la poesia è sempre sintetica. Anche le poesie lunghe, sono sempre più sintetiche della prosa. Il che implica una precisione chirurgica nella scelta delle parole. La poesia è soprattutto togliere.
Vantaggio numero due: la poesia è sempre immaginifica. Tratteggia scenari, non descrive semplicemente.
Vantaggio numero tre: la poesia richiede tempo al poeta, tanto quanto ne risparmia il lettore. E’ il poeta che vive, filtra le esperienze, le condensa e le restituisce sintetizzate. Il poeta è una sorta di chimico dell'esistenza. Anche per questo dovremmo essere un po’ più benevoli, se non grati, nei suoi confronti.
Vantaggio numero quattro: la poesia è sempre fuori dal tempo. Ungaretti scrive questa poesia riferendosi al contesto della Prima Guerra Mondiale. Ma se la ricollochi nella Seconda Guerra Mondiale, nella Guerra Fredda, nella Guerra del Vietnam, nell’attuale guerra al Terrorismo, il significato non muta, sospeso tra le anime di chi è già passato tra le fila della storia e chi vi passerà in futuro.
Si finisce a trascurare la poesia, a detestarla perfino, per slittamento. Allontaniamo da noi l’oggetto della frustrazione, non la frustrazione.
Puoi anche non leggere Ungaretti, ma il senso di precarietà non lo ha inventato lui. Puoi ignorare le invettive di Dante, Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello! Ma questo non ti renderà un cittadino più soddisfatto. Puoi gettare con stizza Leopardi e Manzoni e Catullo e Blake, finita la scuola. E poi?
Scrive Parrini: Tutti prendono la parola, ma soltanto il poeta la restituisce.
E tano per chiarire: in tutti i tempi è il meglio che ci si possa aspettare.

martedì 17 marzo 2015

Consigli dai follower


Recensione di: Antonio Accogli

Oggi più che rispondere e condividere recensioni di libri da Te proposti vorrei portare l'attenzione su di un grande evento di cui quest'anno (2015) cade il centenario, sto parlando dell'entrata in guerra dell'Italia nel conflitto mondiale del 1914 - 1918.
Un centenario tragico che deve farci molto riflettere in quanto molte delle cause (la tecnologia, il capitale, le ragioni degli ortodossi, il divario sociale tra ricchi e poveri, la divisione estrema tra le esigenze del potere e quelle del popolo) che allora portarono al conflitto, vivono latenti (ma non troppo) in seno alla nostra epoca.
Un momento efficace di riflessione potrebbe essere la lettura di alcuni libri che sappiano catapultarci indietro nel tempo e renderci non dico partecipi ma almeno spettatori delle cause e delle conseguenze di un conflitto.
Di libri ve ne sono tanti, io in questo contesto ne propongo due:
  • L'ultima estate dell'Europa Il grande enigma del 1914: perché è scoppiata la prima guerra mondiale? - Fromkin David - Garzanti Libri     
Sarajevo. Domenica 28 Giugno 1914. Quella mattina le piogge erano finalmente cessate e la foschia si era dissolta. Un sole sfavillante inondava di luce l’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero Austro‐ungarico, e la sua consorte la duchessa Sofia. Il terso e luccicante profilo di Sarajevo era punteggiato di minareti. Sarajevo contava ben 100 moschee e quasi altrettante chiese cristiane. Le sinagoghe, sebbene meno numerose, testimoniavano una presenza ebraica. Una popolazione poliglotta, multinazionale, religiosamente variegata, aveva imparato a vivere in reciproca armonia, sotto qualsiasi bandiera. Sono le 10 del mattino. Fra meno di trenta minuti due colpi di pistola sconvolgeranno quel mondo. Un effetto domino incontrollato. In pochi mesi Austria, Serbia, Russia, Germania, Francia e Inghilterra si
dichiarano guerra.
Un saggio superbo che analizza puntigliosamente le ragioni della prima guerra e mette in risalto l'attuale scenario geopolitico, dalla guerra preventiva alla lotta al terrorismo. Ma soprattutto da questa analisi emerge una riflessione sul ruolo e il destino dell'Europa.
Un anno sull'Altipiano è un libro di memorie di Emilio Lusso.
Un libro di una semplicità estrema ma, così come talvolta succede con le cose più semplici, riesce fin dall'inizio a coinvolgere il lettore e trasportarlo nelle trincee tra le paure, le ansie, gli incubi, le ingiustizie, e le piccole gioie che una guerra riesce a dare. Dopo le prime dieci pagine non credo si riesca a non finire la lettura del libro che scorre come l'acqua di un ruscello di montagna, e nel contempo ci martella la testa di dubbi, di riflessioni, di verità che certamente ci costringeranno a cercare risposte.
I libri sopra menzionati si possono trovare facilmente in qualsiasi biblioteca.

venerdì 13 marzo 2015

Elogio della Follia

Titolo: Elogio della Follia

Autore: Erasmo da Rotterdam

Anno di Pubblicazione: 1509

Genere: Pamphlet

Recensione di: Chiara Bortolin

Per chi ritiene che nella vita ci voglia un pizzico di follia
 
Lo dichiaro subito: il titolo è fuorviante, sino a sfumare nella malignità. Perché dopo mezzo millennio penseresti subito a magnifici e inconcludenti discorsi di alcuni politici a noi coevi, alle cripto-minimaliste strategie di marketing per indurti a comprare l’acqua del rubinetto oppure a dei tuoi amici che crescono i figli nella venerazione degli acari albini: confermo che non si tratta di questo.

«E, tanto per cominciare, chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti di gran lunga la più lieta e gradevole? Ma che cosa hanno i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli tanto che, persino il nemico presta loro soccorso? Che cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella grazia che la provvida natura s'industria d'infondere nei neonati perché con una sorta di piacevole compenso possano addolcire le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia di chi deve proteggerli?»

Si tratta proprio di un elogio che la Follia fa di se stessa, indicandosi come elemento essenziale del vivere comune in tutte le sue declinazioni: dal matrimonio all’amicizia, dal campare quotidiano allo studio, dall’ignoranza alla sapienza.

E’ sorprendente come questo testo mantenga la freschezza dopo cinquecento anni! Certo: c’è il rimando ad alcune figure della mitologia classica che per noi sono un po’ fuori moda (veniamo a sapere per esempio che la Follia è figlia dell’Ubriachezza e dell’Ignoranza), oppure a personaggi che per la loro rappresentatività sono decisamente attuali. Arroganza, Pedanteria, 

Bramosia, Avarizia, Cupidigia sono compagni assidui del nostro tempo, come lo erano per Erasmo da Rotterdam.

«Chi non risparmia le sue critiche a nessun genere di uomini, dimostra di non avercela con nessun uomo, ma di detestare tutti i vizi.»

Erasmo, che è un teologo, non un ospite da talk show, scrive per diletto questo libello, per alleviare la convalescenza del suo amico Tommaso Moro.

E già qui dovremmo perderci delle giornate, perché anche Moro, che aveva ideato e scritto Utopia, romanzo in cui descriveva il luogo immaginario della felicità, un po’ eccentrico doveva esserlo. Io, tanto per dire, non ho amici che scrivano romanzi immaginando un mondo perfetto. E per quanto mi sforzi di credere in un mondo migliore… beh alla follia di un’Utopia non ci sono ancora arrivata!

C’è anche da dire che questa Follia che parla di se stessa in toni ampiamente esaltanti, non ha nulla di patologico. La follia come malattia psichiatrica o come esito di una degenerazione neurologica è un concetto piuttosto recente. La follia come commiserazione sociale che conduce all’esclusione è di più lunga durata e di infelice contaminazione religiosa, ma non è questa. Tantomeno ha a che fare con la stupidità.

La Follia di Erasmo è prima di tutto intelligente e come vuole l’intelligenza, comprende di politica, di religione e di uomini. E’ la follia che, dotata di misericordia, perdona le miserie umane, che rende tollerabile le ingiustizie, che fa passare oltre ai difetti dei propri cari.

«Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell’uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un’eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia.»

Tuttavia non è sempre buona, la Follia di Erasmo, perché talvolta produce divisioni, contrasti e guerre. Ma in fondo, chi di noi non crede che sia necessaria della follia per lusingare il conflitto?

Neanche a dirlo, questo libricino ebbe un successo enorme, molto più grande di tanti saggi, seppur fondamentali, di altri grandi filosofi. Fu così apprezzato che venne immediatamente tradotto dal latino in diverse altre lingue ed ebbe più ristampe, nonostante il metodo di duplicazione fosse un’invenzione recente.

Influenzò poi moltissimi autori, soprattutto nel Rinascimento, ma anche nei secoli successivi. Ludovico Ariosto l’aveva sicuramente letto, se trasformò Orlando, da eroe senza macchia e senza paura, in un Furioso, che corre nudo nei boschi roteando una spada enorme, disboscando la terra di Francia, in preda alla follia d’amore!

Questo succedeva un tempo, ma ai nostri giorni la parola Follia è caduta in disgrazia: la utilizziamo soltanto per alludere a spese esorbitanti, a pacchiane manifestazioni d’amore, a gesti tanto eclatanti quanto ridicoli.

Abbiamo addomesticato la Follia, con la frusta del rassicurante giudizio altrui.

E in perfetta coerenza con la contemporaneità, ho rispolverato questo saggio ascoltando un recente brano musicale di Caparezza, che pone l’accento sulla differenza tra la follia di Van Gogh e la stupidità che nobilita se stessa, contraffacendo un titolo che talvolta inganna il sacrosanto stigma sociale.

Questo probabilmente lo avrebbe sostenuto anche Erasmo cinquecento anni fa, pensando alle regole dei feudi medioevali, al potere temporale della Chiesa, all’ingresso della becera nobiltà nella gestione del sapere. Quindi a noi, nonostante tutto questo tempo trascorso, non posso che porgere un augurio imperativo: fingiamo di entrare in scena, recitando dietro le quinte.

«Tutta la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico.»
 
 

venerdì 6 marzo 2015

Libera Nos A Malo


Autore: Luigi Meneghello
 
Titolo: Libera Nos A Malo
 
Anno di Pubblicazione: 1963
 
Genere: Romanzo
 
Recensione di: Chiara Bortolin
 
Per ascoltare una storia raccontata a bassa voce
 
 
 
Non ricordo esattamente perché e quando comprai questo libro e ciò è strano, perché ogni libro ha una sua storia fuori dalla storia. Di Libera nos a malo ho un ricordo vago: l’università, una serata al Circo Anatra zoppa, chiacchiere con gli amici davanti a una birra.

Eppure è un ricordo gioioso, soffuso, come certi ricordi intimi, che riescono sempre a strapparti un sorriso. E questo è uno dei meriti di questo libro: un’ironica e delicata familiarità. 

Già il titolo: Libera nosa Malo che è un richiamo immediato al Pater Noster, ma che è anche un maligno richiamo al paesino di provenienza dell’autore, Luigi Meneghello.

Il titolo è una promessa mantenuta. Il racconto si svolge senza una vera e propria trama, come un fluire di ricordi, come i racconti degli anziani bonari. I fatti narrati riguardano l’infanzia e la giovinezza dell’Autore, nell’epoca del Fascismo, prima e durante la guerra.

Colpisce lo spirito della narrazione. Meneghello racconta i fatti con allegria, con ironia, con dolcezza. E’ un uomo che ha fatto già i conti con la vita, anche se ha solo una quarantina d’anni, c’è già quel distacco, quella pacificazione, quella tranquillità che hanno gli uomini che hanno perdonato e che si sono perdonati.

Nonostante si intuiscano le condizioni di vita dure, la povertà, il senso di precarietà, questo libro non è un grido di dolore, né una rivendicazione di chissà quali pomposi ideali, né l’esaltazione di vittoria eroiche. Tutto è già stato metabolizzato, quindi ci si può scherzare sopra.

Libera nos a maluamen. Non sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema.

Liberaci dal lume, dalle pericolose cadute nei laudari, così frequenti per i tuoi figlioli, è così spiacevoli: liberaci da ciò che il lume significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago!

Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia, del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muore il portone nel feroce trambusto dei rastrellamenti.

Libera, Signore, i tuoi figli da questo lume, dalla sudicia porta dell’Inferno

Ricorda, nel suo raccontare, le storie dei vecchi, quando hanno vissuto. Forse è questo che lo rende così vicino: in fondo tutti noi abbiamo sentito dei nonni raccontarci di quella volta che, con il Bepi, ché un Bepi c’è sempre, erano andati… e avevano fatto… e poi… non era finita male per un soffio.

Anche lo stile della narrazione è familiare, vivido, energico. Un passare dall’italiano al dialetto, come si faceva una volta, che il dialetto era per le cose quotidiane e la lingua, l’italiano, per le faccende serie. E il dialetto con i suoi suoni, i suoi significati speciali, ha sempre un ulteriore significato, quello che gli si attribuisce nel crescere. Meneghello vuole bene al suo dialetto, che restituisce anche ai lettori non veneti, con un immediato richiamo al proprio.

Il bromboli (insetti infestanti, ndr) muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiano un po’ sempre, sono esposti a un rischio continuo.

Il brombolo è soprattutto un arrampicatore; appoggiandolo alle supefrfici del Monumento ai Caduti in Castello, lui si aggrappa al marmo e rampica pazientemente. (…) Il brombolo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena.

Ovviamente quella di Meneghello è una selezione raffinata e qui si legge, in tutti i sensi, la vera grandezza: restituire la complessità in una forma semplice, dare profondità senza oscurità, tenere una lezione di storia senza salire in cattedra.

Mi è rammaricato, quando è mancato, Meneghello, del quale conservo a casa probabilmente una delle sue ultime lettere. E mi manca la sua prosa, che naturalmente è finzione letteraria, ma non menzogna. 

In un momento in cui per farsi ascoltare si alza la voce, in cui si usano parole sempre più roboanti per concetti sempre meno significanti, in cui si banalizzano i contenuti per evitare le difficoltà, la voce calda e rassicurante di Meneghello è come il diario di un avo raffinato ma amabile, che per anni ha insegnato nei College la letteratura agli inglesi e ancora insegna la memoria agli italiani.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero