Autore: Luigi Meneghello
Titolo: Libera Nos A Malo
Anno di Pubblicazione: 1963
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin
Per ascoltare una storia raccontata a bassa voce
Non ricordo esattamente
perché e quando comprai questo libro e ciò è strano, perché ogni libro ha una
sua storia fuori dalla storia. Di Libera nos a malo ho un ricordo vago:
l’università, una serata al Circo Anatra zoppa, chiacchiere con gli amici
davanti a una birra.
Eppure è un ricordo gioioso,
soffuso, come certi ricordi intimi, che riescono sempre a strapparti un
sorriso. E questo è uno dei meriti di questo libro: un’ironica e delicata
familiarità.
Già il titolo: Libera nosa Malo che è un richiamo immediato al Pater Noster, ma che è anche
un maligno richiamo al paesino di provenienza dell’autore, Luigi Meneghello.
Il titolo è una promessa mantenuta.
Il racconto si svolge senza una vera e propria trama, come un fluire di
ricordi, come i racconti degli anziani bonari. I fatti narrati riguardano l’infanzia
e la giovinezza dell’Autore, nell’epoca del Fascismo, prima e durante la
guerra.
Colpisce lo spirito della
narrazione. Meneghello racconta i fatti con allegria, con ironia, con dolcezza.
E’ un uomo che ha fatto già i conti con la vita, anche se ha solo una
quarantina d’anni, c’è già quel distacco, quella pacificazione, quella tranquillità
che hanno gli uomini che hanno perdonato e che si sono perdonati.
Nonostante si intuiscano le
condizioni di vita dure, la povertà, il senso di precarietà, questo libro non è
un grido di dolore, né una rivendicazione di chissà quali pomposi ideali, né l’esaltazione
di vittoria eroiche. Tutto è già stato metabolizzato, quindi ci si può
scherzare sopra.
Libera nos a maluamen. Non
sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così.
Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che
una preghiera centri così un problema.
Liberaci dal lume, dalle
pericolose cadute nei laudari, così frequenti per i tuoi figlioli, è così
spiacevoli: liberaci da ciò che il lume significa, i negri spruzzi della morte,
la bocca del leone, il profondo lago!
Liberaci dalla morte
ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in
Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal
sottopancia, del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto,
del topo di chiavica che stride tra il muore il portone nel feroce trambusto
dei rastrellamenti.
Libera, Signore, i tuoi
figli da questo lume, dalla sudicia porta dell’Inferno
Ricorda, nel suo raccontare,
le storie dei vecchi, quando hanno vissuto. Forse è questo che lo rende così
vicino: in fondo tutti noi abbiamo sentito dei nonni raccontarci di quella
volta che, con il Bepi, ché un Bepi c’è sempre, erano andati… e avevano fatto…
e poi… non era finita male per un soffio.
Anche lo stile della
narrazione è familiare, vivido, energico. Un passare dall’italiano al dialetto,
come si faceva una volta, che il dialetto era per le cose quotidiane e la
lingua, l’italiano, per le faccende serie. E il dialetto con i suoi suoni, i
suoi significati speciali, ha sempre un ulteriore significato, quello che gli
si attribuisce nel crescere. Meneghello vuole bene al suo dialetto, che
restituisce anche ai lettori non veneti, con un immediato richiamo al proprio.
Il bromboli (insetti infestanti, ndr) muoiono tranquillamente
nel sonno; e siccome dormicchiano un po’ sempre, sono esposti a un rischio
continuo.
Il brombolo è soprattutto un
arrampicatore; appoggiandolo alle supefrfici del Monumento ai Caduti in
Castello, lui si aggrappa al marmo e rampica pazientemente. (…) Il brombolo non
muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra
che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta,
ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena.
Ovviamente quella di
Meneghello è una selezione raffinata e qui si legge, in tutti i sensi, la vera
grandezza: restituire la complessità in una forma semplice, dare profondità
senza oscurità, tenere una lezione di storia senza salire in cattedra.
Mi è rammaricato, quando è
mancato, Meneghello, del quale conservo a casa probabilmente una delle sue
ultime lettere. E mi manca la sua prosa, che naturalmente è finzione
letteraria, ma non menzogna.
In un momento in cui per
farsi ascoltare si alza la voce, in cui si usano parole sempre più roboanti per
concetti sempre meno significanti, in cui si banalizzano i contenuti per
evitare le difficoltà, la voce calda e rassicurante di Meneghello è come il
diario di un avo raffinato ma amabile, che per anni ha insegnato nei College la
letteratura agli inglesi e ancora insegna la memoria agli italiani.
Nessun commento:
Posta un commento