Si sta come
D’autunno
Sugli alberi
Le foglie.
Tanto per chiarire: c’è un solo un modo di fare
poesia. Tutto il resto è un vacuo andare a capo di sentimenti e di emozioni,
una lista della spesa del banale, che Arthur Rimbaud, con rara efficacia
critica, avrebbe definito pisciate di inchiostro.
E sempre per chiarire: togliamoci dalla testa quelle
balordaggini da sessantottini ghignanti che indicano i poeti come cattivi
maestri. Gli unici cattivi maestri che maneggiano la poesia sono quelli che non
la sanno insegnare.
Perché tutti noi ci siamo passati: in piedi
davanti alla lavagna, recitando con la grazia di un merlo, l’entusiasmo di un
mulo e l’arguzia di un’anguilla, un Pascoli violentato. Perché è questo il trattamento che la scuola inferiore solitamente riserva alla poesia: Rossi, mi enunci la parafrasi. Bianchi mi identifichi i chiasmi. Verdi faccia lo schema delle rime.
Il risultato è che se è vero che gli italiani leggono poco, quelli che leggono poesia sono una minoranza da Pubblicità Progresso. Pochissimi, dopo il trauma della scuola, riescono a uscirne riprendendo in mano un libro di poesia.
Riproviamo.
Si sta: è chiarissimo. I soldati del titolo sono per estensione
gli uomini, che esistono, che vivono. E’ talmente evidente che non c’è nemmeno
bisogno di riscrivere il soggetto, un articolo e un nome in meno, via.
D’autunno: facile: è una stagione di transizione, non ancora il
rigore dell’inverno, non più la vitalità dell’estate.
Sugli alberi: li abbiamo in mente tutti, gli alberi in autunno,
radicati, sì, ma lentamente spogli.
Le foglie: lì lì per cadere, il loro colore verde orma mutato,
in attesa di un soffio di vento che le faccia scivolare via.
Alla fine della poesia, quattro righe, il significato
è chiarissimo: la precarietà dell’esistenza, l’attesa di un destino già noto.
Vantaggio numero uno della poesia: la poesia è sempre
sintetica. Anche le poesie lunghe, sono sempre più sintetiche della prosa. Il
che implica una precisione chirurgica nella scelta delle parole. La poesia è
soprattutto togliere.
Vantaggio numero due: la poesia è sempre immaginifica.
Tratteggia scenari, non descrive semplicemente.
Vantaggio numero tre: la poesia richiede tempo al
poeta, tanto quanto ne risparmia il lettore. E’ il poeta che vive, filtra le
esperienze, le condensa e le restituisce sintetizzate. Il poeta è una sorta di
chimico dell'esistenza. Anche per questo dovremmo essere un po’ più benevoli,
se non grati, nei suoi confronti.
Vantaggio numero quattro: la poesia è sempre fuori dal
tempo. Ungaretti scrive questa poesia riferendosi al contesto della Prima
Guerra Mondiale. Ma se la ricollochi nella Seconda Guerra Mondiale, nella
Guerra Fredda, nella Guerra del Vietnam, nell’attuale guerra al Terrorismo, il
significato non muta, sospeso tra le anime di chi è già passato tra le fila
della storia e chi vi passerà in futuro.
Si finisce a trascurare la poesia, a detestarla
perfino, per slittamento. Allontaniamo da noi l’oggetto della frustrazione, non
la frustrazione.
Puoi anche non leggere Ungaretti, ma il senso di
precarietà non lo ha inventato lui. Puoi ignorare le invettive di Dante, Ahi
serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non
donna di province, ma bordello! Ma questo non ti renderà un cittadino più
soddisfatto. Puoi gettare con stizza Leopardi e Manzoni e Catullo e Blake,
finita la scuola. E poi?
Scrive Parrini: Tutti prendono la parola, ma
soltanto il poeta la restituisce.
E tano per chiarire: in tutti i tempi è il meglio che
ci si possa aspettare.
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