Autore: Giovanni Verga
Titolo: Rosso Malpelo
Anno di pubblicazione: 1878
Genere: Racconto
Recensione: Chiara Bortolin
Per chi ha dei dubbi
Ogni volta che mi
appresto a leggere questo racconto, il cuore rallenta, come se fosse in attesa.
E’ quella sensazione per un incontro che al contempo può deludere o rinnovare
l’incanto.
Malpelo si chiamava
così perché aveva i capelli rossi: ed aveva i capelli rossi perché era un
ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone.
Mi fermo. Sospiro. Non sono ancora diventata un callo di Calliope: trovo ancora questo racconto meraviglioso. E’ così bello che faccio fatica a scegliere l’aspetto più rilevante.
Forse è l’inizio ex
abrupto: nessun preambolo, nessuna contestualizzazione. La prima parola
presenta il protagonista, il nomignolo, Malpelo, di cui non hai certezza fino
alla parola capelli che sia una persona.
Forse è per il chiaro
sovvertimento di causa-effetto che l’autore descrive, perché è del tutto
evidente che Malpelo non può avere i capelli rossi perché cattivo.
Forse è perché con
questo scavalcamento di campo,
questo straniamento, che Giovanni Verga ci fa capire
immediatamente il punto di vista del narratore, che coincide con quello della
gente comune e contemporaneamente rende manifesto che lui non è la gente.
Forse è perché si
comprende che Malpelo manterrà il vaticinio fatto da altri: diventerà un birbone,
perché così deve essere, se la comunità lo crede.
Mantiene la sua
promessa anche l’autore: nella sua interezza, il racconto è abbagliante.
Egli era davvero un
brutto ceffo, torvo, tignoso e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli
altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano
un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi con suo corbello tra le
gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio come fanno le bestie sue pari
(…).
Che Malpelo sia un
ragazzo lo abbiamo capito soltanto dalle parole del narratore, perché per gli
altri personaggi non appare un essere umano, ma una bestia e tutti i paragoni
che ritraggono Malpelo sono sempre riferiti al mondo animale.
E questo declassamento
di Malpelo è così intenso che l’unica persona che gli vuole bene, che lo
accarezza persino, è il padre, il cui soprannome è Bestia.
Quando poi il padre
muore, non a caso, facendo la fine del topo, gli unici affetti che restano a
Malpelo sono Ranocchio, anche lui una bestiola di ragazzo, un cane e un somaro.
Nessun altro vuole bene a questo ragazzo: persino la madre e la sorella lo
considerano una bestia da soma e come tale lo battono finché serve e poi lo
abbandonano.
Eppure l’autore riesce
a insinuare il dubbio che persino in lui ci sarebbe del buono, perché sarebbe
capace di amare, se solo ne avesse la possibilità. Ma il pensiero comune, la
maggioranza chiacchierona e ottusa, convinta che sia il numero a fare la
ragione e non la verità, lo condanna, comprovando la giustezza della pena col
comportamento ferino del ragazzo.
Verga non conosceva il
concetto di profezia che si autoavvera, non sapeva nulla del determinismo
sociale, non conosceva il concetto di esclusione sociale.
Verga scrive questo
racconto inaugurando il periodo del Verismo, ovvero la descrizione
oggettiva della società, ma questo non è un libro di denuncia. Egli, come Zolà
in Francia o Gogol in Russia, constatava la delusione delle aspettative
brillanti che l’Illuminismo come teoria e l’innovazione scientifica come
pratica avevano prospettato.
Per decenni infatti si
era creduto che il miglioramento scientifico e tecnologico avrebbe recato
benefici prima materiali, poi culturali e infine morali. Si era creduto che
risolta la fame, sconfitte le malattie, alfabetizzata la popolazione, l’umanità
sarebbe migliorata.
Verga e gli altri
scrittori Realisti constatano invece che, a un secolo degli ideali
progerssisti, il popolo continua a vivere in miseria, una miseria per cui si
mangia pane secco, si riusano i vestiti dei morti, si muore senza essere
pianti, sullo sfondo di un degrado bestiale.
Cotesto non arrivava a
comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel
modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava.
Non c’è livore da parte
di Verga nei confronti di questa spietata maggioranza di miserevoli: la sua
compassione per Malpelo è nel restituirgli l’umanità che è negata da chi, in
fondo, è un suo pari.
Malpelo se li lisciava (i calzoni del padre) sulle
gambe, quei calzoni di fustagno quasi nubi, e gli pareva che fossero dolci e
lisci come le mani del babbo, che soleva accarezzargli i capelli, quantunque
fossero così ruvide e callose.
Quanto agli altri, la
superstizione per cui avevano dato il tormento a Malpelo da vivo, sarà il loro
stesso tormento quando Malpelo scomparirà, come a dire che la miseria non ha
vincitori. Questa è la riflessione finale.
Ogni volta che prendo
in mano il racconto, mi si stringe la gola. Perché se Verga mantiene la sua
promessa di regalare un racconto che è poesia in prosa, quasi fosse un prezioso
ermellino che diventa sudario per gli ignudi, resta poi soltanto da accertare
se le promesse mantenute sono quelle del progresso o quelle della
superstizione.
Ma questo dubbio non
riguarda la letteratura.
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