martedì 30 giugno 2015

La buona scuola


C’era una volta la buona scuola e non era una favola, era la realtà. C’era una volta la buona scuola fatta da buoni insegnanti che amavano insegnare. E non era una favola.

C’era la Professoressa M., che teneva i corsi di recupero di latino, per chi era insufficiente, quando i corsi di recupero non erano stati ancora istituiti. Li teneva nel pomeriggio, a scuola, perché tutti dovevano avere l’opportunità di recuperare, con l’impegno.

C'era il Professor G., che faceva recuperare in continuo e non faceva la media con i brutti voti, perché a Lui non interessava il voto, ma che lo studente capisse Hegel.

C’era la Professoressa C., che ogni estate, a sue spese, tornava in Inghilterra a studiare, perché, diceva, la lingua si evolve e non si può insegnare l’inglese che non esiste più.

C’era il Professor P., che iniziava a leggere un capitolo dei Promessi Sposi, poi chiudeva il libro e recitava a memoria, per noi, perché, diceva, sentissimo bene le parole.

C’era la Professoressa R., che si era laureata alla Normale, che avrebbe potuto fare una carriera folgorante chissà dove e invece spiegava a noi che una rosa è bella perché è rappresentazione di una spirale logaritmica.
C’erano una volta dei Professori, che si presentavano in classe e spiegavano, anche se c’era autogestione; anche se avevano avuto un lutto in famiglia; anche se c’era sciopero; anche se la maggior parte degli studenti tagliava la lezione.
C’erano dei professori che portavano i compiti corretti la lezione dopo, perché lo ritenevano un dovere; che ti davano del Lei anche se avevi quindici anni, perché volevano farti capire che la Scuola era una faccenda importante; che ti trattavano come un discente, perché erano educatori e non amici.
C’erano dei Colleghi, anni dopo, che ho visto fare lezione anche se non percepivano il compenso da più di un anno; che partecipavano alle gite, anche se non sarebbero state retribuite; che erano presenti agli scrutini, anche se quelle ore non sarebbero state riconosciute economicamente.
C’erano dei Colleghi che pagavano del materiale di tasca loro, per i ragazzi; che si fermavano a parlare con i genitori, anche finito il loro orario di lavoro; che si aggiornavano nel tempo libero perché “è per i ragazzi”.
C’erano e, io credo, ci sono ancora e sono loro la buona scuola.
Sono quei Professori a cui dedichi il tuo primo trenta all’università; a cui pensi con gratitudine quando riapri un bel libro che loro, quindi anni prima, ti avevano spiegato; a cui ti ispiri, quando hai l’onore, a tua volta, di entrare in un’aula e vedere la tua classe.
C’era una volta la buona scuola e non era una favola. Aveva dei nomi e dei cognomi e, oggi come ieri, sono loro la buona scuola.

giovedì 25 giugno 2015

Dai Grandi Eroi alle Piccole Cose


Cantami, o Diva, del Pelide Achille, 

l’ira funesta, che infiniti addusse

lutti agli Achei, molte anzitempo all’Orco

generose travolge alme d’eroi,

e di cani e d’augelli orrido pasto

lor salme abbandonò (…)

 

Concordo con il giudizio che considera questo incipit sublime. A volte lo recito a me stessa, così, mentre cammino per strada, nella mente, per evocare un afflato di bellezza. 

Leggilo a voce alta, se puoi, scandendo bene le parole, come se lo recitassi in teatro e nel frattempo guarda la scena che via via si disvela.

Immagina un immenso campo di battaglia, in cui giacciono i cadaveri, ormai ridotti a cibo per randagi e avvoltoi, di molti coraggiosi combattenti. Immagina l’ira immensa che possa aver provocato tanto scempio, che possa aver travolto le schiere del nemico, tramutandole in schiere di anime. Immagina una grandezza di sentimenti così elevati, che, per essere narratiti, necessitano della voce degli dei.

Questo è l’incipit dell’Iliade ed è talmente poderosa la poesia che trasmette, che tutti i grandi poemi epici che seguirono non poterono prescinderne.

Prendi l’Odissea:


Narrami, o Musa, dell’ero multiforme, che tanto

vagò, dopo che distrusse la Rocca

sacra di Troia (…)


E poi l’ Eneide:


Canto le armi e l’uomo che primo dai midi di Troia

venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge

lavinie molto in terra e sul mare fu preda

di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone.

 
E’ chiaro: in questi poemi si parla di grandi uomini, grandi nella vittoria, grandi nella sconfitta, sempre coraggiosi, sempre eroi; si parla di dei, dall’immensa potenza e dall’umanissima volontà; si racconta di guerre, di viaggi dentro e fuori dall’uomo; si rappresenta un destino, che è quasi un personaggio, affrontato con caparbietà anche quando avverso.

Talmente grandi questi uomini che il cattolicissimo Dante non si poté esimere dall’onorare il paganissimo Ulisse e di riservagli il ruolo di ammonitore nei confronti di altri uomini:


fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza


Quando, nel Rinascimento, alcuni autori si divertivano a farsi beffe di tutto questo eroismo, tramutandolo sovente in erotismo, dovettero comunque esserne all’altezza. 

Così un Ariosto che ridicolizzò Orlando, dovette renderlo immenso anche nelle bramosie d’amore:


Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passato i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocque tanto,

sfuggendo l’ire e i giovanil furori (…)


E non poteva essere diverso per Boiardo il quale, pur parlando di un eroe ebbro d’amore, è costretto a trattarlo con medesima grazia:


(…) i gesti smisurati,

l’alta fatica e le mirabili prove

che fece il franco Orlando per amore


Seri o faceti che siano, questi personaggi sono sempre grandi, compiono imprese eroiche combattono senza tema i loro nemici, sfidano i destini avversi.

Sono l’archetipo dell’eroismo, ma sempre rimanendo uomini. E’ singolare che in questi racconti la dimensione dell’umanità sia sempre data dall’elevatezza. Bisogna farci caso. 

Bisogna ricordarlo oggi, soprattutto quando si usa la retorica delle piccole cose, delle piccole gioie, dei piccoli gesti. 

Perché, a rigor di logica e di pensiero consequenziale, dovremmo proprio interrogarci sul fatto che se a grandi imprese corrispondono grandi uomini, le cose piccole a chi si addicono?

Ma forse succede sempre che a un tipo di retorica, una volta superata, se ne contrapponga un’altra del tutto dissimile. Forse.

O forse un regalo inaspettato, una parola gentile da uno sconosciuto, un dessert eccellente possano solo rendere giustizia delle vite intese come il volo circolare di una foglia che cade.

 

giovedì 18 giugno 2015

Il Giorno della Civetta


Titolo: Il Giorno della Civetta


Anno di Pubblicazione: 1961

Genere: Romanzo

Recensione di Chiara Bortolin

 
Per non essere un’anatra

 

Ci sono due tipi di sistemi: quelli che funzionano e quelli che non funzionano. Quelli che non funzionano cessano di esistere. Quelli che funzionano si evolvono. Affinché l’evoluzione si compia è necessario che coloro che amministrano il sistema siano capaci.

La mafia è un sistema guidato da persone capaci. Questo è un dato di fatto. Altro dato di fatto è che, per dirla a là KurtGödel, in ogni sistema esiste almeno una verità che pur essendo tale non può essere dimostrata nell’ambito del sistema medesimo. La mafia esiste perché è anche collocata in un secondo sistema e questo sistema si chiama Stato e siccome lo Stato è fatto da cittadini, non ci va un sofista per capire che la mafia esiste perché trova consenso.

Quando ho letto per la prima volta Il Giorno della Civetta sono stata assalita da un profondo senso di straniamento. Il romanzo narra le vicende di un Capitano dei Carabinieri, di origine emiliana, trasferito in Sicilia, a cui viene affidata l’indagine relativa a un omicidio. Gli episodi che succedono mostrano il funzionamento di questo sistema efficiente che è la mafia.

L’intreccio è indubbiamente affascinante, devi anzi dosare la lettura, non cedere alla tentazione di far scivolare troppo velocemente le righe, per non perdere le parole. Le parole pesano come piombo in questo romanzo, perché il loro significato è incerto nell’ambiguità di chi le pronuncia. Il significato non è mai univoco, ma sfuggente come la verità che celano. 

I personaggi non hanno nulla di fantasioso, anzi sono mutuati dalla una realtà: questi non sono personaggi di fantasia, sono persone che avrebbero potuto esistere, che forse sono esistite, di cui possiamo addirittura immaginare un volto.

La paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava, improvvisamente urlava nel suo sonno; e mordeva, dentro mordeva, nel fegato nel cuore. Di quei morsi al fegato che continuamente bruciavano e dell'improvviso doloroso guizzo del cuore, come di un coniglio vivo in bocca al cane.

La mafia di cui narra Sciascia, che è la mafia vera, quella che esiste, ha tanti volti: è la mafia che uccide, chiaro, la mafia che decide, ma è anche e soprattutto un’altra mafia, quella della cosiddetta società civile.

La mafia del romanzo è la mafia di chi non ricorda, di chi è sempre altrove, di chi vive nello strabismo del prendere dove si può. Questa mafia non necessita di violenza: si apprende e si interiorizza, come qualunque altra regola sociale. Questa, da un punto di vista antropologico, è una cultura.

A vivere così si impara a casa, a scuola, per strada. Se cresci con questa filosofia di vita, non c’è nessun bisogno della violenza. La violenza è per quelli che non ci stanno.

E nel romanzo si capisce chiaramente anche un altro fatto: che anche la violenza ha tanti volti. La violenza non è solo l’omicidio, l’estorsione, l’intimidazione. La violenza è isolamento, denigrazione, solitudine, compromissione. La violenza è la diffidenza, il dubbio osceno della maldicenza, l’omissione colpevole.

L’avevano capita, forse prima, certamente bene, anche Falcone e Borsellino la lezione: loro che hanno vissuto da morti e che da morti hanno il privilegio inutile di essere eroi. C’è un sistema Stato e un sistema Mafia: vince quello che ha più consenso. 

Non a caso scrivo di questo libro di Sciascia proprio prima della ricorrenza dell’omicidio di Borsellino e della scorta. Per via di quello sgradevole incidente, credo si dica così, della locuzione professionisti dell’antimafia, uscita su un articolo a firma di Sciascia e che scatenò infinite polemiche.

Sono state dette tante verità diverse circa quell’episodio, io non so quale sia la verità e francamente non mi interessa nemmeno, sono però convinta che da ogni spaccatura del sistema Antimafia il sistema Mafia tragga vantaggio. 

L’intelligenza dell’uomo di pensiero spinge al dubbio, l’intelligenza dell’uomo d’affari spinge al vantaggio e siccome la mafia è, in prima battuta, un sistema economico, dalle speculazioni trae vantaggio.

Sciascia ci mostra la società siciliana, italiana, per quello che è, con tutte le sue sfumature. Chiuso il libro, non puoi più guardare il mondo, il sistema, come lo guardavi prima, ma soprattutto, non puoi più guardare te stesso, il tuo sistema, come lo guardavi prima. E se, chiuso il libro, non ti sei fatto la domanda, per capire che uomo sei, la risposta può essere una sola.

Ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre.

giovedì 11 giugno 2015

Gli anni delle meraviglie

Titolo: Gli anni delleMmeraviglie

Autore: Vittorio Sgarbi

Anno di Pubblicazione: 2014

Genere: saggio

Per riabituarsi al bello



Nonostante io senta di patire un certo vizio di formazione culturale da secolo ventesimo, per quanto attiene all’estetica, la mia sensibilità si volta verso un romanticismo di transizione, tra il moralismo, nel senso kantiano del termine, e l’idealismo, nel senso hegeliano.

Io confido nel bello e nell’idea del bello. Nonostante il nichilismo, che oggi si é volgarizzato nel meno intenso precarismo, nonostante il crollo delle ideologie, che ha resuscitato il menefreghismo, nonostante una democratizzazione del gusto che legittima il qualunquismo: io confido ancora nel bello.

Anche per queste ragioni, Gli anni delle Meraviglie è un bel libro. In primis come oggetto, perché l’impaginazione, la qualità delle riproduzioni, l’eleganza sobria della suddivisione del capitoli sono già un veicolo di comunicazione di un contenuto prezioso.

Il volume tratta di arte, di molte forme di espressione dell’ingegno umano, in quello straordinario connubio che è il saper pensare con il saper fare. Il periodo storico di riferimento è il Quattrocento, l’area geografica è l’Italia, gli artisti, noti e meno noti, sono coloro che eccellono.

L’Autore non tiene una lezione ex cathedra: questo libro non è un manuale di storia dell’arte. L’Autore offre una personalissima visita guidata con un solo fine: restituire al lettore la bellezza. La selezione delle opere riconduce alla grandezza delle medesime, non alla fama degli artisti, al valore intrinseco e non all’esposizione a cui è soggetto e neppure al valore monetario in cui si potrebbe tradurre.

La narrazione si svolge in capitoli brevi, tra descrizioni, aneddoti, storie e di questo bisogna essere grati all’Autore, che probabilmente era consapevole che tutta questa bellezza, se sovradosata, avrebbe potuto sopraffare il lettore. Perché alla bellezza non si è più avvezzi.

E’ di aiuto anche il fatto che questo libro, come oggetto, non è maneggevole, è pesante, è incombente. Non si porta in borsa, non lo si legge in piedi sul tram, non lo si getta distrattamente sul comodino: questo libro esige attenzione, prudenza, ponderazione.

Non si è più avvezzi a questo, salvo schizofrenici concetti condivisi, come cibo lento, quando invece si fa sempre tutto di corsa, oppure l’adorazione dell’immaginario evocato da placide spiagge tropicali, salvo poi operare per mantenere vivo il fuoco della frenesia metropolitana.

E qui l’Autore ci fa un altro regalo, perché il viaggio nel tempo del passato obbliga a riappropriarsi del tempo presente.

Non si può proprio rifiutare questo invito alla bellezza, perché la bellezza quella che supera i secoli perché diventa archetipo, è parte di ogni uomo anche se sta al di fuori, e ciò distingue l’Homo sapiens sapiens dagli animali, per i quali può esistere il buono o il cattivo, ma non il bello.

Il bello fortifica lo spirito, il bello dispiega gli orizzonti, il bello offre significati. Il bello, in una parola, è universale: appartiene agli uomini ed è un privilegio degli uomini tramandarlo.

La pietà esprime il dolore delle madri. La tempesta racconta la natura. L’Ultima cena narra il tradimento e l’addio. 

Io confido nel bello perché rappresenta, in tutte le sue forme espressive, il sublime che è in potenza nell’animo umano. Se si offende il bello, si rinnega la propria appartenenza.

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuova e crescente,quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Questo due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità  o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.

venerdì 5 giugno 2015

Il Sosia


Titolo: Il Sosia

Autore: Fedor Dostoevskij

Anni di Pubblicazione: 1848

Genere: Romanzo

E se noi fossimo i sosia di noi stessi?

Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
 
Erano quasi le otto del mattino quando il consigliere titolare Jàkov Petròvič Goljàdkin si svegliò dopo un lungo sonno, sbadigliò, si stiracchiò e infine aprì del tutto gli occhi. Per un paio di minuti rimase però a giacere immobile nel letto come uno che non è ben sicuro se è desto o dorme ancora, se tutto ciò che gli succede intorno è veglia e realtà o non piuttosto la continuazione delle disordinate visioni del sogno. Ben presto, tuttavia, i sensi del dottor Goljàdkin cominciarono a recepire in modo più chiaro e netto le loro abituali, quotidiane impressioni.
 
Il sosia è uno di quei libri che racchiude in sé tante storie. Ce n’è una che è la trama e ce n’è una che è la vicenda del libro come prodotto; c’è una storia che è il libro come esperienza dell’Autore e una che fa parte della critica letteraria; infine c’è la storia di chi legge e trova in questo libro una propria chiave di lettura.

Io credo che quando un’opera ha così tante vicende da raccontare, sia già degno di entrare in una qualunque libreria, quasi sulla fiducia.

Sostengo questo perché i veri estimatori di Dostoevskij, quelli che effettivamente ne capiscono di Letteratura, con la giacca sgualcita sui gomiti a furia di tenere le braccia incrociate sui tavoli da lettura, considerano questo libro un’opera minore: sì, è sempre un Dostoevskij, innegabile, visto l’autografo, ma non è un vero Dostoevskij.

E persino Lui, l’Autore, arrivò a dire, nelle sue memorie, ripercorrendo la sua straordinaria carriera, che questo libro, no, non era un Dostoevskij. Lui che, mentre lo componeva, ne era tanto orgoglioso da dedicare uno scambio di epistole con il fratello per dire sto scrivendo un capolavoro

Fedor, perdonami, capisco che alla luce di Delitto e Castigo, Il giocatore, I Demoni, I fratelli Karamazov, questo romanzo Ti sembrasse ancora ingenuo, ma Fedor, lo scrivesti a vent’anni: la maggior parte degli esseri umani passerà al mondo dei più senza aver scritto neppure due righe come le tue, neppur per errore!

Ora, io non sono Dostoevskij, questo è pacifico, non indosso giacche logore sui gomiti, ma proprio per questo mi sento del tutto serena nel dire che Il Sosia è un giovanile bellissimo Dostoevskij.

La vicenda narra di un personaggio, un ometto mediocre, a cui occorre di vedersi sottrarre la vita da un sosia. Il protagonista è in carattere, il prototipo del borghese conformista dell’Ottocento. Ha tutto quello che non hanno i poveri, senza avere nulla di ciò che hanno i ricchi. 

Il personaggio inoltre non è simpatico, non è nemmeno disprezzabile. L’ironia con cui Dostoevskij lo strapazza, a tratti, suscita nel lettore quel briciolo di compassione che ben conosci quando, dopo aver riso perché un pedone davanti a te è inciampato, ti preoccupi che non si sia fatto male.

La gioviale cattiveria dell’Autore verso il personaggio alleggerisce la vicenda che, presa di per sé, è piuttosto seria e oscura.

Non ti racconto l’intreccio perché ti dovrei anticipare la storia che io ne ho tratto e non sarebbe giusto: ciascuno ha diritto a trarre la propria, visto che l’Autore ci ha lasciato questa opportunità.

Questa anomalia letteraria, il dubbio che l’Autore lascia, è uno dei motivi per cui il libro di solito non compare citato tra i capolavori.

E qui, secondo me, inizia un’altra storia e questa storia è la transizione. Dostoevskij scrive questo libro sull’onda della sua formazione, che derivava dal realismo russo che aveva le sue regole. Si deve ritrarre la realtà, si deve denunciare la realtà nel suo squallore, la letteratura deve avere un ruolo emancipatore. Un compito che Gogol, da maestro, aveva svolto con risultati altissimi e che Dostoevskij, da allievo, aveva risolto brillantemente in Povera Gente.
 
Solo che i tempi erano cambiati e l’Autore, che era della generazione successiva, aveva già intuito che l’evoluzione sarebbe stata diversa, che dall’indagare la realtà oggettiva, si sarebbe passati a considerare la realtà soggettiva e poi la totale irrazionalità. Visto che Dostoevskij era Dostoevskij e non uno scribacchino qualsiasi, riesce a cogliere il passaggio, se non addirittura a indirizzarlo.

E come una foto al fotofinish, questo romanzo scatta l’esatto passaggio da realismo oggettivo a realismo soggettivo. Blocca in un istante di narrazione la differenza tra la realtà, definita come ciò che tutti condividono, e la realtà che è tale perché il soggetto la vive in un certo modo.

Come poi andrà a finire nella carriera letteraria di Dostoevskij, lo sappiamo: la realtà verrà determinata dai demoni. Con un anticipo di lungimiranza sconvolgente su di noi, che ormai ci siamo assuefatti a convivere con il concetto che il mondo è quello che ciascuno ha in testa, anche con derive ben poco entusiasmanti, i demoni personali hanno avuto il loro ruolo.

Se non hai mai letto Dostoevskij, leggi questo delizioso romanzo. Se hai già letto Dostoevskij, leggilo ugualmente. Perché se Dostoevskij fosse morto giovane, se avesse abbandonato la letteratura per darsi alla botanica subito dopo questo libro, se avesse dato retta a tutte le giacche dai gomiti logori e il cervello ancor più logoro dei suoi tempi, avrebbe comunque lasciato un romanzo degno di essere chiamato capolavoro.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero