Titolo: Il Sosia
Autore: Fedor Dostoevskij
Anni di Pubblicazione: 1848
Genere: Romanzo
E se noi fossimo i sosia di noi stessi?
Recensione di: Chiara Bortolin
Erano
quasi le otto del mattino quando il consigliere titolare Jàkov Petròvič
Goljàdkin si svegliò dopo un lungo sonno, sbadigliò, si stiracchiò e infine
aprì del tutto gli occhi. Per un paio di minuti rimase però a giacere immobile
nel letto come uno che non è ben sicuro se è desto o dorme ancora, se tutto ciò
che gli succede intorno è veglia e realtà o non piuttosto la continuazione
delle disordinate visioni del sogno. Ben presto, tuttavia, i sensi del dottor
Goljàdkin cominciarono a recepire in modo più chiaro e netto le loro abituali,
quotidiane impressioni.
Il sosia è uno di quei libri che racchiude in sé
tante storie. Ce n’è una che è la trama e ce n’è una che è la vicenda del libro
come prodotto; c’è una storia che è il libro come esperienza dell’Autore e una
che fa parte della critica letteraria; infine c’è la storia di chi legge e
trova in questo libro una propria chiave di lettura.
Io credo che quando un’opera ha così
tante vicende da raccontare, sia già degno di entrare in una qualunque
libreria, quasi sulla fiducia.
Sostengo questo perché i veri estimatori
di Dostoevskij, quelli che effettivamente ne capiscono di Letteratura, con la
giacca sgualcita sui gomiti a furia di tenere le braccia incrociate sui tavoli
da lettura, considerano questo libro un’opera minore: sì, è sempre un
Dostoevskij, innegabile, visto l’autografo, ma non è un vero Dostoevskij.
E persino Lui, l’Autore, arrivò a dire,
nelle sue memorie, ripercorrendo la sua straordinaria carriera, che questo
libro, no, non era un Dostoevskij. Lui che, mentre lo componeva, ne era tanto
orgoglioso da dedicare uno scambio di epistole con il fratello per dire sto
scrivendo un capolavoro!
Fedor, perdonami, capisco che alla luce
di Delitto e Castigo, Il giocatore, I Demoni, I fratelli Karamazov, questo
romanzo Ti sembrasse ancora ingenuo, ma Fedor, lo scrivesti a vent’anni: la
maggior parte degli esseri umani passerà al mondo dei più senza aver scritto
neppure due righe come le tue, neppur per errore!
Ora, io non sono Dostoevskij, questo è
pacifico, non indosso giacche logore sui gomiti, ma proprio per questo mi sento
del tutto serena nel dire che Il Sosia è un giovanile bellissimo
Dostoevskij.
La vicenda narra di un personaggio, un
ometto mediocre, a cui occorre di vedersi sottrarre la vita da un sosia. Il
protagonista è in carattere, il prototipo del borghese conformista
dell’Ottocento. Ha tutto quello che non hanno i poveri, senza avere nulla di
ciò che hanno i ricchi.
Il personaggio inoltre non è simpatico,
non è nemmeno disprezzabile. L’ironia con cui Dostoevskij lo strapazza, a tratti,
suscita nel lettore quel briciolo di compassione che ben conosci quando, dopo
aver riso perché un pedone davanti a te è inciampato, ti preoccupi che non si
sia fatto male.
La gioviale cattiveria dell’Autore verso
il personaggio alleggerisce la vicenda che, presa di per sé, è piuttosto seria
e oscura.
Non ti racconto l’intreccio perché ti
dovrei anticipare la storia che io ne ho tratto e non sarebbe giusto: ciascuno
ha diritto a trarre la propria, visto che l’Autore ci ha lasciato questa
opportunità.
Questa anomalia letteraria, il dubbio
che l’Autore lascia, è uno dei motivi per cui il libro di solito non compare
citato tra i capolavori.
E qui, secondo me, inizia un’altra
storia e questa storia è la transizione. Dostoevskij scrive questo libro
sull’onda della sua formazione, che derivava dal realismo russo che aveva le
sue regole. Si deve ritrarre la realtà, si deve denunciare la realtà nel suo
squallore, la letteratura deve avere un ruolo emancipatore. Un compito che
Gogol, da maestro, aveva svolto con risultati altissimi e che Dostoevskij, da
allievo, aveva risolto brillantemente in Povera Gente.
Solo che i tempi erano cambiati e
l’Autore, che era della generazione successiva, aveva già intuito che
l’evoluzione sarebbe stata diversa, che dall’indagare la realtà oggettiva, si
sarebbe passati a considerare la realtà soggettiva e poi la totale
irrazionalità. Visto che Dostoevskij era Dostoevskij e non uno scribacchino
qualsiasi, riesce a cogliere il passaggio, se non addirittura a indirizzarlo.
E come una foto al fotofinish, questo
romanzo scatta l’esatto passaggio da realismo oggettivo a realismo soggettivo.
Blocca in un istante di narrazione la differenza tra la realtà, definita come
ciò che tutti condividono, e la realtà che è tale perché il soggetto la vive in
un certo modo.
Come poi andrà a finire nella carriera
letteraria di Dostoevskij, lo sappiamo: la realtà verrà determinata dai demoni.
Con un anticipo di lungimiranza sconvolgente su di noi, che ormai ci siamo
assuefatti a convivere con il concetto che il mondo è quello che ciascuno ha in
testa, anche con derive ben poco entusiasmanti, i demoni personali hanno avuto
il loro ruolo.
Se non hai mai letto Dostoevskij, leggi
questo delizioso romanzo. Se hai già letto Dostoevskij, leggilo ugualmente.
Perché se Dostoevskij fosse morto giovane, se avesse abbandonato la letteratura
per darsi alla botanica subito dopo questo libro, se avesse dato retta a tutte
le giacche dai gomiti logori e il cervello ancor più logoro dei suoi tempi,
avrebbe comunque lasciato un romanzo degno di essere chiamato capolavoro.
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