venerdì 5 giugno 2015

Il Sosia


Titolo: Il Sosia

Autore: Fedor Dostoevskij

Anni di Pubblicazione: 1848

Genere: Romanzo

E se noi fossimo i sosia di noi stessi?

Recensione di: Chiara Bortolin
 
 
 
Erano quasi le otto del mattino quando il consigliere titolare Jàkov Petròvič Goljàdkin si svegliò dopo un lungo sonno, sbadigliò, si stiracchiò e infine aprì del tutto gli occhi. Per un paio di minuti rimase però a giacere immobile nel letto come uno che non è ben sicuro se è desto o dorme ancora, se tutto ciò che gli succede intorno è veglia e realtà o non piuttosto la continuazione delle disordinate visioni del sogno. Ben presto, tuttavia, i sensi del dottor Goljàdkin cominciarono a recepire in modo più chiaro e netto le loro abituali, quotidiane impressioni.
 
Il sosia è uno di quei libri che racchiude in sé tante storie. Ce n’è una che è la trama e ce n’è una che è la vicenda del libro come prodotto; c’è una storia che è il libro come esperienza dell’Autore e una che fa parte della critica letteraria; infine c’è la storia di chi legge e trova in questo libro una propria chiave di lettura.

Io credo che quando un’opera ha così tante vicende da raccontare, sia già degno di entrare in una qualunque libreria, quasi sulla fiducia.

Sostengo questo perché i veri estimatori di Dostoevskij, quelli che effettivamente ne capiscono di Letteratura, con la giacca sgualcita sui gomiti a furia di tenere le braccia incrociate sui tavoli da lettura, considerano questo libro un’opera minore: sì, è sempre un Dostoevskij, innegabile, visto l’autografo, ma non è un vero Dostoevskij.

E persino Lui, l’Autore, arrivò a dire, nelle sue memorie, ripercorrendo la sua straordinaria carriera, che questo libro, no, non era un Dostoevskij. Lui che, mentre lo componeva, ne era tanto orgoglioso da dedicare uno scambio di epistole con il fratello per dire sto scrivendo un capolavoro

Fedor, perdonami, capisco che alla luce di Delitto e Castigo, Il giocatore, I Demoni, I fratelli Karamazov, questo romanzo Ti sembrasse ancora ingenuo, ma Fedor, lo scrivesti a vent’anni: la maggior parte degli esseri umani passerà al mondo dei più senza aver scritto neppure due righe come le tue, neppur per errore!

Ora, io non sono Dostoevskij, questo è pacifico, non indosso giacche logore sui gomiti, ma proprio per questo mi sento del tutto serena nel dire che Il Sosia è un giovanile bellissimo Dostoevskij.

La vicenda narra di un personaggio, un ometto mediocre, a cui occorre di vedersi sottrarre la vita da un sosia. Il protagonista è in carattere, il prototipo del borghese conformista dell’Ottocento. Ha tutto quello che non hanno i poveri, senza avere nulla di ciò che hanno i ricchi. 

Il personaggio inoltre non è simpatico, non è nemmeno disprezzabile. L’ironia con cui Dostoevskij lo strapazza, a tratti, suscita nel lettore quel briciolo di compassione che ben conosci quando, dopo aver riso perché un pedone davanti a te è inciampato, ti preoccupi che non si sia fatto male.

La gioviale cattiveria dell’Autore verso il personaggio alleggerisce la vicenda che, presa di per sé, è piuttosto seria e oscura.

Non ti racconto l’intreccio perché ti dovrei anticipare la storia che io ne ho tratto e non sarebbe giusto: ciascuno ha diritto a trarre la propria, visto che l’Autore ci ha lasciato questa opportunità.

Questa anomalia letteraria, il dubbio che l’Autore lascia, è uno dei motivi per cui il libro di solito non compare citato tra i capolavori.

E qui, secondo me, inizia un’altra storia e questa storia è la transizione. Dostoevskij scrive questo libro sull’onda della sua formazione, che derivava dal realismo russo che aveva le sue regole. Si deve ritrarre la realtà, si deve denunciare la realtà nel suo squallore, la letteratura deve avere un ruolo emancipatore. Un compito che Gogol, da maestro, aveva svolto con risultati altissimi e che Dostoevskij, da allievo, aveva risolto brillantemente in Povera Gente.
 
Solo che i tempi erano cambiati e l’Autore, che era della generazione successiva, aveva già intuito che l’evoluzione sarebbe stata diversa, che dall’indagare la realtà oggettiva, si sarebbe passati a considerare la realtà soggettiva e poi la totale irrazionalità. Visto che Dostoevskij era Dostoevskij e non uno scribacchino qualsiasi, riesce a cogliere il passaggio, se non addirittura a indirizzarlo.

E come una foto al fotofinish, questo romanzo scatta l’esatto passaggio da realismo oggettivo a realismo soggettivo. Blocca in un istante di narrazione la differenza tra la realtà, definita come ciò che tutti condividono, e la realtà che è tale perché il soggetto la vive in un certo modo.

Come poi andrà a finire nella carriera letteraria di Dostoevskij, lo sappiamo: la realtà verrà determinata dai demoni. Con un anticipo di lungimiranza sconvolgente su di noi, che ormai ci siamo assuefatti a convivere con il concetto che il mondo è quello che ciascuno ha in testa, anche con derive ben poco entusiasmanti, i demoni personali hanno avuto il loro ruolo.

Se non hai mai letto Dostoevskij, leggi questo delizioso romanzo. Se hai già letto Dostoevskij, leggilo ugualmente. Perché se Dostoevskij fosse morto giovane, se avesse abbandonato la letteratura per darsi alla botanica subito dopo questo libro, se avesse dato retta a tutte le giacche dai gomiti logori e il cervello ancor più logoro dei suoi tempi, avrebbe comunque lasciato un romanzo degno di essere chiamato capolavoro.

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Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero