Autore: Vittorio Sgarbi
Anno di Pubblicazione: 2014
Genere: saggio
Per riabituarsi al bello
Nonostante io senta di patire un certo vizio di formazione culturale da secolo ventesimo, per quanto attiene all’estetica, la mia sensibilità si volta verso un romanticismo di transizione, tra il moralismo, nel senso kantiano del termine, e l’idealismo, nel senso hegeliano.
Io confido nel bello e nell’idea del bello. Nonostante il nichilismo, che oggi si é volgarizzato nel meno intenso precarismo, nonostante il crollo delle ideologie, che ha resuscitato il menefreghismo, nonostante una democratizzazione del gusto che legittima il qualunquismo: io confido ancora nel bello.
Anche per queste ragioni, Gli anni delle Meraviglie è un bel libro. In primis come oggetto, perché l’impaginazione, la qualità delle riproduzioni, l’eleganza sobria della suddivisione del capitoli sono già un veicolo di comunicazione di un contenuto prezioso.
Il volume tratta di arte, di molte forme di espressione dell’ingegno umano, in quello straordinario connubio che è il saper pensare con il saper fare. Il periodo storico di riferimento è il Quattrocento, l’area geografica è l’Italia, gli artisti, noti e meno noti, sono coloro che eccellono.
L’Autore non tiene una lezione ex cathedra: questo libro non è un manuale di storia dell’arte. L’Autore offre una personalissima visita guidata con un solo fine: restituire al lettore la bellezza. La selezione delle opere riconduce alla grandezza delle medesime, non alla fama degli artisti, al valore intrinseco e non all’esposizione a cui è soggetto e neppure al valore monetario in cui si potrebbe tradurre.
La narrazione si svolge in capitoli brevi, tra descrizioni, aneddoti, storie e di questo bisogna essere grati all’Autore, che probabilmente era consapevole che tutta questa bellezza, se sovradosata, avrebbe potuto sopraffare il lettore. Perché alla bellezza non si è più avvezzi.
E’ di aiuto anche il fatto che questo libro, come oggetto, non è maneggevole, è pesante, è incombente. Non si porta in borsa, non lo si legge in piedi sul tram, non lo si getta distrattamente sul comodino: questo libro esige attenzione, prudenza, ponderazione.
Non si è più avvezzi a questo, salvo schizofrenici concetti condivisi, come cibo lento, quando invece si fa sempre tutto di corsa, oppure l’adorazione dell’immaginario evocato da placide spiagge tropicali, salvo poi operare per mantenere vivo il fuoco della frenesia metropolitana.
E qui l’Autore ci fa un altro regalo, perché il viaggio nel tempo del passato obbliga a riappropriarsi del tempo presente.
Non si può proprio rifiutare questo invito alla bellezza, perché la bellezza quella che supera i secoli perché diventa archetipo, è parte di ogni uomo anche se sta al di fuori, e ciò distingue l’Homo sapiens sapiens dagli animali, per i quali può esistere il buono o il cattivo, ma non il bello.
Il bello fortifica lo spirito, il bello dispiega gli orizzonti, il bello offre significati. Il bello, in una parola, è universale: appartiene agli uomini ed è un privilegio degli uomini tramandarlo.
La pietà esprime il dolore delle madri. La tempesta racconta la natura. L’Ultima cena narra il tradimento e l’addio.
Io confido nel bello perché rappresenta, in tutte le sue forme espressive, il sublime che è in potenza nell’animo umano. Se si offende il bello, si rinnega la propria appartenenza.
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuova e crescente,quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Questo due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.
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