Cantami, o Diva, del
Pelide Achille,
l’ira funesta, che
infiniti addusse
lutti agli Achei, molte
anzitempo all’Orco
generose travolge alme
d’eroi,
e di cani e d’augelli
orrido pasto
lor salme abbandonò (…)
Concordo con il
giudizio che considera questo incipit sublime. A volte lo recito a me stessa,
così, mentre cammino per strada, nella mente, per evocare un afflato di
bellezza.
Leggilo a voce alta, se
puoi, scandendo bene le parole, come se lo recitassi in teatro e nel frattempo
guarda la scena che via via si disvela.
Immagina un immenso
campo di battaglia, in cui giacciono i cadaveri, ormai ridotti a cibo per
randagi e avvoltoi, di molti coraggiosi combattenti. Immagina l’ira immensa che
possa aver provocato tanto scempio, che possa aver travolto le schiere
del nemico, tramutandole in schiere di anime. Immagina una grandezza di
sentimenti così elevati, che, per essere narratiti, necessitano della voce
degli dei.
Questo è l’incipit
dell’Iliade ed è talmente poderosa la poesia che trasmette, che tutti i grandi
poemi epici che seguirono non poterono prescinderne.
Prendi l’Odissea:
Narrami, o Musa,
dell’ero multiforme, che tanto
vagò, dopo che
distrusse la Rocca
sacra di Troia (…)
E poi l’ Eneide:
Canto le armi e l’uomo
che primo dai midi di Troia
venne in Italia
fuggiasco per fato e alle spiagge
lavinie molto in terra
e sul mare fu preda
di forze divine, per
l’ira ostinata della crudele Giunone.
E’ chiaro: in questi
poemi si parla di grandi uomini, grandi nella vittoria, grandi nella sconfitta,
sempre coraggiosi, sempre eroi; si parla di dei, dall’immensa potenza e
dall’umanissima volontà; si racconta di guerre, di viaggi dentro e fuori
dall’uomo; si rappresenta un destino, che è quasi un personaggio, affrontato
con caparbietà anche quando avverso.
Talmente grandi questi
uomini che il cattolicissimo Dante non si poté esimere dall’onorare il paganissimo
Ulisse e di riservagli il ruolo di ammonitore nei confronti di altri
uomini:
fatti non foste a
vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza
Quando, nel
Rinascimento, alcuni autori si divertivano a farsi beffe di tutto questo
eroismo, tramutandolo sovente in erotismo, dovettero comunque esserne
all’altezza.
Così un Ariosto che
ridicolizzò Orlando, dovette renderlo immenso anche nelle bramosie d’amore:
Le donne, i cavalier,
l’arme, gli amori
le cortesie, l’audaci
imprese io canto,
che furo al tempo che
passato i Mori
d’Africa il mare, e in
Francia nocque tanto,
sfuggendo l’ire e i
giovanil furori (…)
E non poteva essere
diverso per Boiardo il quale, pur parlando di un eroe ebbro d’amore, è
costretto a trattarlo con medesima grazia:
(…) i gesti smisurati,
l’alta fatica e le
mirabili prove
che fece il franco
Orlando per amore
Seri o faceti che
siano, questi personaggi sono sempre grandi, compiono imprese eroiche
combattono senza tema i loro nemici, sfidano i destini avversi.
Sono l’archetipo
dell’eroismo, ma sempre rimanendo uomini. E’ singolare che in questi racconti
la dimensione dell’umanità sia sempre data dall’elevatezza. Bisogna farci
caso.
Bisogna ricordarlo
oggi, soprattutto quando si usa la retorica delle piccole cose, delle piccole gioie, dei piccoli
gesti.
Perché, a rigor di
logica e di pensiero consequenziale, dovremmo proprio interrogarci sul fatto
che se a grandi imprese corrispondono grandi uomini, le cose piccole a chi si
addicono?
Ma forse succede sempre
che a un tipo di retorica, una volta superata, se ne contrapponga un’altra del
tutto dissimile. Forse.
O forse un regalo
inaspettato, una parola gentile da uno sconosciuto, un dessert eccellente
possano solo rendere giustizia delle vite intese come il volo circolare di una
foglia che cade.
Nessun commento:
Posta un commento