sabato 29 ottobre 2016

Discorso e Verità

Titolo: Discorso e Verità
Autore: Michel Foucault
Anno di Pubblicazione: 1996
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

C’è una discrepanza tra un sistema egualitario che riconosce a tutti il diritto di usare la perresia e la necessità di scegliere tra i cittadini quelli in grado (in virtù della loro condizione sociale e delle loro qualità personali) di usare la perresia in un modo che risulti effettivamente benefico per la città. A differenza della isonomia (l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge) e della isegoria (il diritto riconosciuto a ciascuno per legge di esprimere la propria opinione) la peserai non infatti definita chiaramente in termini istituzionali.

Metto subito le mani avanti: il testo non è così complesso come questo singolo periodo può far temere. Ho scelto questa citazione perché racchiude, a mio avviso, alcuni concetti cardine esposti in questa raccolta di lezioni che Foucault tenne sul tema.
E il tema è davvero affascinante e attuale. Si tratta di verità, come il titolo esplicita, ma considerata da un punto di vista molto particolare ovvero di chi sia tenuto a dire la verità. Solitamente quando si tratta di verità ci si arrovella in modo più o meno elevato nella speculazione della verità stessa, quindi nelle sfumature che vanno tra la negazione di essa, una menzogna spacciata per verità, e la verità assoluta, oggettiva, incrollabile, di un fatto. Discussioni queste per lo più si chiudono con un elegante soggettivismo “Questione di punti di vista” o con un disinteressato “D’altronde…”. 
In questo caso la verità è tale e indiscutibile, il problema è chi sia in diritto di rivelarla. Naturalmente l’Autore considera diversi contesti in cui questo svelamento può prendere forma: ambito privato e ambito pubblico, con impatti diversi e con conseguenze variegate. 
L’aspetto a cui Foucault dedica più attenzione tratta della verità pubblica e più precisamente della verità politica. Per essere del tutto precisi, Foucault si propone di esaminare il concetto di paressia (franchezza nel dire la verità) attraverso un intrigante excursus tra gli Autori della Grecia classica. L’importanza della gestione della cosa pubblica per i pensatori classici è risaputa ed è quindi evidente che l’uso politico del dire la verità trovi in tutti i testi antichi riferimenti piuttosto ricchi.
Chiaramente il dire la verità su un tema di pubblico interesse è un atto giusto e nobile, tanto più quando il rivelatore è in una posizione di subalternità rispetto al potere. Questa situazione può vedere protagonista un esponente di una fazione di minoranza in un Consiglio cittadino oppure un Consigliere rispetto a un Monarca o un Ufficiale di basso rango nei confronti di uno di rango superiore.
Ma i filosofi classici erano degli speculatori e non si accontentavano di risposte semplicistiche. Se dire la verità è giusto e nobile, è pur vero che la credibilità di colui che la rivela è fondamentale. Il dichiarazione di verità deve provenire da un uomo probo. E qui si arriva alla nota dolente. La definizione di uomo probo è complessa e lascio al Lettore il piacere di scoprirla. Anticipo, tanto per sollecitare la curiosità, che la conclusione a cui giungono i senatori classici è che non tutti possono dire la verità.
Nel recedere con la lettura si arriva così a scoprire che non tutti possono, per la loro statura personale, dire la verità, che non tutti ne sono degni. La democrazia, di cui i Greci furono i fondatori, ammette l’uguaglianza di fronte alla legge e il rispetto delle opinioni, ma non che sono tutti uguali per pensiero, per credibilità ed educazione. 
Il testo si legge con piacere perché Foucault spiega con precisione ogni passaggio, lasciando molto spazio alle citazioni dei testi, come se facesse da guida in un viaggio attraverso la classicità. Le lezioni sono accessibili e piacevoli anche per chi non frequenti abitualmente la filosofia e la letteratura classica. 

Un libro garbato per concetti complessi. Alla fine il testo stesso sembra realizzarsi: molti possono capire, ma non tutti possono pensare ed esprimere gli stessi concetti nello stesso modo. La consapevolezza della propria ignoranza non solo offre a chi l’accetta innumerevoli occasioni di stupore, ma ridimensiona il concetto di sé. Il concetto di parità di pensiero quali-quantitativo fra tutti i cittadini è facilmente smontabile, d’altronde.

sabato 22 ottobre 2016

Delle librerie e delle storie che raccontano

Osservare la libreria di una persona ha un che di indiscreto, lo ammetto. L’aspetto curioso è che un elemento così intimo viene normalmente esposto allo sguardo degli ospiti senza pudore, anzi talvolta con orgoglio. D’altre parte se non sei nella cerchia dei fortunati che possono disporre di una biblioteca nella propria abitazione, l’unica soluzione logistica alternativa è trattare la libreria come un elemento d’arredo ed esporla al giudizio altrui come un tavolino o una poltrona confidando nell’indifferenza altrui.
Nel mio caso, questa speranza è vana, perché la mia psicopatologia da collezionista di libri prevale sulla mia abituale discrezione. Naturalmente, procedo con metodo. Prima di tutto, se ci sono due persone, è necessario individuare a chi appartiene una sezione piuttosto che un’altra: si condividono le spese, si mangia insieme, ci si scambiano fluidi corporei, ma i libri si tengono separati. Qui i miei, lì i tuoi. Tu il tuo ordine, io il mio. Se leggi uno dei miei libri, lo rimetti al suo posto. Prima di acquistare dei libri che interessano entrambi si aprono le trattative su chi ne potrà vantare la proprietà successivamente, di avere una parte in comune neanche a parlarne, piuttosto se ne coprano due copie, sia mai.
Il secondo passo è capire gli interessi e la qualità dei medesimi. Ci sono librerie che hanno sezioni specialistiche, legate alla professione o a una passione. Qui si aprono orizzonti impensati tra manuali di fisiologia, saggi sulle forbici dei giardinieri e ricettari di ogni parte del mondo. Talvolta si rivelano lati sconosciuti della persona, vite precedenti di cui non si è mai parlato, desideri per il futuro coltivati all’ombra di pagine patinate.
Il vero pezzo forte è il resto della libreria. Ciò che si legge oltre al codice penale o all’arte di coltivare le gardenia. L’elenco delle possibilità è immenso. Narrativa: gialli, fantasy, fantascienza o letteratura scolastica, letteratura con la L maiuscola, romanzi rosa, romanzi denuncia, romanzi storici. Saggistica: classici latini e greci, filosofia, storia, arte, architettura oppure saggistica contemporanea, biografie, testi religiosi. Di rado si trova anche qualche libro di poesia, ma chi ne ha di solito ne ha di buona qualità e con discreta scelta.
Da ciò che le persone leggono si possono capire così tante sfaccettature della personalità che quasi mi viene da arrossire quando il padrone di casa mi porge un bicchiere di vino e mi rivolge una domanda di cortesia.
Ma non ho ancora finito, scusa, devo ancora capire come conservi i tuoi libri. Devo capire l’ordine logico. Il disordine è di chi ha così pochi libri da non necessitare un disposizione organizzata. Chi dispone di una libreria ha necessità di riporre i libri in modo da poterli trovare rapidamente, ma ciascuno riflette le proprie priorità: si possono trovare libri disposti per autore, per argomento, per casa editrice, per sfumature cromatiche, per dimensione e poi all’interno di ogni sezione deve esserci una sottosezione per numero, per data di acquisto, per date di pubblicazione.
Infine: la cura verso l’oggetto libro. I libri chiamano la polvere e la polvere li consuma più dell’usura. I libri possono essere molto puliti, molto impolverati, protetti da un vetro, ancora sigillati nella confezione se nuovi. Possono ancora essere abbigliati con una fascetta o avvolti da un cofanetto. Oppure possono aver subito dei guasti, essere stati rattoppati alla meno peggio, essere stati rilegati.
Se avessi ancora un minuto, prima di sedermi a tavola, facendo finta di niente, guarderei un po’ meglio le edizioni. Forse ci sono più edizioni di uno stesso libro, forse ci sono edizioni di pregio per veri cultori, forse possiedi edizioni economiche per non sentirti in colpa a portarle in borsa per leggere sul tram. Forse hai delle edizioni vecchie che ti ha regalato un parente anziano, forse hai edizioni rare. Forse non ci pensi neanche e compri semplicemente quello che ti interessa.

Forse non hai nemmeno pensato che qualcuno si prendesse la licenza di conoscerti attraverso i tuoi libri. La discrezione sta nel prendersi cura di questa nuova intimità, di questa confidenza sottintesa, di questa pagina di diario della tua vita che si chiama libreria.

sabato 15 ottobre 2016

No, Nobel, No Cry

  • Boia d’un boia! Questo non ha mai scritto niente!
  • Come non ha mai scritto niente?
  • Niente di niente, ti dico! 
  • Boia d’un cane! ma, dico, un romanzetto? una raccolta di poesie alla mamma? un ricettario di cucina tibetana?
  • Niente! Manco una lettera a un giornale!
  • Porca trombetta! E come glielo diamo il Nobel per la letteratura?
  • Di’, Svedy, e se tornassimo a dare il Nobel per la letteratura a chi fa letteratura?
  • Unstrunz, ti prego! Vuoi sollevare uno scandalo? Dare il nobel per la letteratura a chi fa letteratura! Ti ha dato di volta il cervello?!

Che il Nobel per la letteratura non si occupi, se non incidentalmente, di letteratura è ormai un sospetto fugato. Lo si deve ammettere, a malincuore, perché davanti a un Pirandello, a un Ungaretti, a un Montale, ci  si inchina.
E bisogna anche riconoscere che le carte sono state ben mischiate, un po’ di soddisfazione a chi al Nobel crede è stata data, anche negli ultimi decenni. Kertez, Gordimer, Mahfuz… delle ragioni diverse della letteratura di potevano anche intravedere, ma si lasciava correre, si perdonava. C’era la letteratura e tanto bastava. 
Altri nomi lasciavano perplessi: Coerzee, Kenzaburo, Aleksievic… romanzi discreti, non da commuoversi, non eccellenze, ma, il Nobel premia un titolo per l’intera carriera letteraria, bisognerebbe conoscere meglio prima di giudicare. Si la riserva, per prudenza.
Di altri proprio la ratio era oscura e il sospetto riaffiorava: ogni nuova assegnazione metteva in allerta. Con l’assegnazione a Bob Dylan ogni dubbio è stato risolto. 
Si prende atto che il premio Nobel per la letteratura è diventato un premio politico e che, a seconda della causa da perorare, e non della penna da eleggere, si sceglie un papabile. E siccome di cause da perorare, di scuse da profondere, da perdoni da chiedere e faccende da chiudere ce ne sono molti, il panorama delle prossime buone cause è ampio.
Da umanista la faccenda non mi rassicura affatto: toppi sono gli esempi nella storia degli scempi fatti alla cultura quando a decidere è stata una buona causa da perorare. E che non si sollevi l’obiezione dei mecenati rinascimentali: loro esaltavano il proprio potere attraverso l’eccellenza dell’ingegno, operazione molto diversa, dal definire eccellenza il medio per ottundere il piccolo.
Non resta che confidare nell’ovvio: che il genio preservi la propria eccellenza nel mantenersi libero, come Sartre, che il Nobel lo rifiutò, per non farsi istituzionalizzare. Potrebbe rifiutarlo anche Dylan, che pare non essersi reso reperibile. Oppure si potrebbe sperare che i desiderata politici incontrino qualche eccezione letteraria e che, di tanto in tanto, ci regalino ancora la possibilità che il potere premi il migliore e non il più utile.
E infine resta la certezza consolatoria che il genio non necessita dei riconoscimenti per esprimersi. Ci saranno sempre dei Pasolini, dei De Andrè, dei Celine che semplicemente fanno quello che sanno fare: scrivere. 

Con o senza Nobel.

sabato 8 ottobre 2016

Se Questo è un Uomo

Titolo: Se Questo è un Uomo

Autore: Primo Levi

Anno di Rappresentazione: 1947

Genere: Racconti

Recensione di: Chiara Bortolin


Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno:
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scoprite nel vostro cuore
stando in casa, andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Bertrand Russell sosteneva che la cultura di un uomo non si valuti dal numero di libri che ha letto, ma dal numero di libri che ha riletto. Questa considerazione appare tanto più veritiera quanto più denso di significati è un libro: alcuni testi sono così ricchi di significati da regalare a ogni rilettura un concetto nuovo e Se Questo è un Uomo ne è un esempio.
Che questo testo vada letto non pare sia argomento da perorare. Non credo nemmeno sia il caso di spiegare i motivi per cui, a una lettura imposta a scuola in adolescenza, debba seguire una lettura spontanea in età adulta. 
Preferisco piuttosto dedicare qualche riga a uno degli aspetti che ritengo più sottaciuti, ma più interessanti, almeno per la mia sensibilità. Il tema è quello della cultura come strumento di evasione. 
Primo Levi era un uomo di grande cultura e, sebbene avesse avuto una formazione accademica scientifica, come molti della sua generazione che avevano potuto studiare, godeva, fin da giovane di un notevole bagaglio umanistico.
Tale conoscenza viene evidenziata in uno dei racconti di Se Questo è un Uomo, che si intitola non a caso Il Canto di Ulisse. Nel racconto Levi riporta di aver recitato a un suo compagno di prigionia i versi danteschi riguardanti l’Ulisse.
La considerazione di Levi in questo episodio si condensa nel valore che la memoria della bellezza, la consapevolezza della grandezza dell’ingegno umano, la conservazione del sapere, siano elementi indispensabili per poter sopravvivere nel campo di concentramento. 
Due sono i motivi fondamentali. Il primo é riuscire a continuare a credere che al di fuori di quel perimetro,al di fuori di quel luogo, esistesse ancora un mondo, esistesse il mondo. Auschwitz, con tutto ciò che conteneva e rappresentava, non può essere la fine di tutto. Ricordare la bellezza vuol dire ricordare la vita.
Il secondo motivo è personale. I carcerieri possono togliere tutto: il cibo, il vestiario, i nomi, la dignità, ma non possono togliere la memoria. E ciò che ogni uomo ricorda, ciò a cui si aggrappa, è ciò che ha conosciuto, ciò che gli è caro, ciò che lo rappresenta. Un uomo senza memoria è un uomo senza identità.
L’importanza data da Levi al ricordo della bellezza mi ha sempre commossa. Almeno fino a quando non ho letto Karshaw, uno dei massimi storici del Nazismo, che ne Hitler e l’origine del consenso snocciola una serie di dati e numeri circa i campi di detenzione i campi di sterminio e, tra questi, un’indagine sui sopravvissuti in cui si scopre che la maggior parte di questi aveva un’istruzione superiore.
La motivazione è lì, lampante e crudele: coloro i quali avevano la capacità di evadere con la propria memoria avevano più possibilità di sopravvivere.
Levi apre Se Questo è un Uomo con l’omonima poesia che esprime l’interrogativo di fondo di tutto la sua opera: cosa definisce un uomo? La profondità di questa domanda credo sfugga ai più, che fortunatamente non si sono trovati nella situazione di doversi chiedere quando un essere umano smetta di essere un uomo. Non credo sia un caso che lo stesso interrogativo abbia invece tormentato molti di coloro che si sono confrontati con esperienze di privazioni materiali e psicologiche estreme.
Verrebbe da chiedersi se per poter riflettere sulla risposta sia davvero necessario vivere queste esperienze, portarsene l’onere della memoria, lottare per preservarne l’essenziale purezza dalla retorica di ampollose risposte.
Verrebbe anche da chiedersi se, tra i tanti farneticamenti di presunti vaccini contro un ripetersi della storia, venga mai il dubbio che il deterrente più efficace possa essere la conoscenza. Varrebbe la pena di chiedersi se invece di far lacrimare i ragazzi propinando film strappalacrime, non potrebbe essere meglio insegnare loro a preservare la loro immaginazione. Varrebbe la pensa forse insegnare che la libertà si basa sulla consapevolezza e questa si basa sulla conoscenza. 
Levi, nell’inferno peggiore che memoria storica ricordi, rievoca l’Ulisse dantesco che incalza i suoi marinai: 
Fatti non foste per viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza

E allora a me pare piuttosto semplice rispondere alla domanda: ditemi voi se questo è un uomo.

sabato 1 ottobre 2016

Ragazzi di Zinco

Titolo: Ragazzi di Zinco
Autore: Svetlana Aleksievic
Anno di pubblicazione: 1992
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin

Di fronte alla sofferenza ognuno di noi ha una certa riserva di difese fisiche e morali che lo proteggono. La mia era esaurita. Le urla di un gatto investito da una macchina mi facevano impazzire, dovevo distogliere lo sguardo da un lombrico schiacciato. Ho cominciato a pensare che anche gli animali, gli uccelli, i pesci, come tutto ciò che vive, hanno diritto alle loro storie.E prima o poi si troverà qualcuno che le scriva.

Curioso. Mentre compilo il dati relativi al libro, ho un battuta di arresto: genere. Ho scritto romanzo, ma non sono sicura sia la definizione corretta. Un romanzo ha una trama, che qui è assente; un romanzo ha molti elementi di fantasia, che qui non ci sono; un romanzo ha un significato, che qui è collocato fuori dalle storie narrate.
Avrei potuto scrivere racconti, perché il libro è costruito su tante testimonianze diverse, ciascuna esposta come un singolo racconto, una singola storia, una singola vita. Ma tecnicamente questa non è una collezione di racconti perché nel loro insieme c’è un significato che va molto oltre il significato del singolo racconto.
Ho anche pensato alla definizione Libro denuncia, che trovo generalmente detestabile e banale, ma che evoca chiaramente il significato di accusa che il testo contiene, ma qui l’Autrice scompare dopo poche pagine, mettendo semplicemente a disposizione la sua penna per lasciare ad altri le parole.
Fuori da ogni schema letterario, la sensazione che ha prodotto in me questa lettera è simile a una ricerca che feci anni addietro presso il Cimitero Monumentale di Torino. Per una ricerca di sociolinguistica, si andavano a leggere le epigrafi ed era naturale ripensare ad alcune di essere e immaginare le vite nascoste dietro la pietra e riassunte dai rimasti.
Leggere Ragazzi di Zinco è come visitare un cimitero: ascoltare i racconti di chi è sopravvissuto alla guerra o alla perdita di un parente e immaginarne le vite prima. Prima di una guerra, quella dell’Unione Sovietica in Afghanistan, che non viene raccontata: non c’è traccia nel testo di una contestualizzazione storica, nessun excursus per orientare il lettore. 
Si trova solo una carrellata di racconti di morite, nemmeno in ordine particolare. Si comprende che la morte può avere varie sfaccettature: quella oggettiva, di chi non c’è più, e viene raccontato da genitori o congiunti; quella psicologica, di chi ha riportato se stesso in patria, ma lasciando sul terreno di guerra il se stesso  che ra prima; quella di chi, nel sopravvivere fisicamente a un figlio, si è visto strappare la ragione di vita.

Il ventinove agosto mi sono detta che l’estate era passata, gli ho comprato un completo, delle scarpe. E’ tutto rimasto nell’armadio…
Il trenta agosto. Prima di andare al lavoro, mi sono tolta gli orecchini e l’anello. Chissà perché quel giorno non riuscivo a portarli. 
Il trenta agosto lui è morto.

Oltre queste sofferenze, quelle note dei periodi post bellici, che orami la Storia avrebbe dovuto insegnarci: il disadattamento dei reduci, i ripensamenti collettivi e individualiste motivazioni, i presunti o reali tradimenti di chi manda a morire le generazioni future, l’idea di ingiustizia e inutilità che accompagnano ogni conflitto. Come a ribadire che la lezione non si impara mai.
Non c’è nulla in questo libro che non si trovi come memoria storica anche nella memoria di ciascuno di noi: un racconto di un nonno, un’esperienza di un amico, qualche romanzo storico. Eppure io non sono riuscita a smettere di leggerlo. Non c’è nessun tratto patetico particolare, nessun evento mozzafiato, eppure io ho continuato, una pagina dopo l’altra, un racconto dopo l’altro. 
Forse il merito dell’autrice è proprio questo: essere riuscita a far ascoltare quelle voci che, nel quotidiano, non si vogliono ascoltare. Forse per i connazionali dell’autrice ci sono anche altri significati, che a noi non sono così prossimi. Ciò che ci è prossimo e che dietro ogni lapide, sigillata nello zinco, c’è una storia, con un inizio, una fine e, romanzo o no, racconta una vita.


Qualche volta mi chiedo cosa sarebbe successo se non fossi capitato in guerra. Sarei felice. Non sarei rimasto così deluso di me stesso e non avrei mai saputo sul mio conto tante cose che è meglio non sapere. Come dice Zarathustra: quando spingi il tuo sguardo nell’abisso, anche l’abisso ti scruta nell’anima. 

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero