Titolo: Ragazzi di Zinco
Autore: Svetlana Aleksievic
Anno di pubblicazione: 1992
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin
Di fronte alla sofferenza ognuno di noi ha una certa riserva di difese fisiche e morali che lo proteggono. La mia era esaurita. Le urla di un gatto investito da una macchina mi facevano impazzire, dovevo distogliere lo sguardo da un lombrico schiacciato. Ho cominciato a pensare che anche gli animali, gli uccelli, i pesci, come tutto ciò che vive, hanno diritto alle loro storie.E prima o poi si troverà qualcuno che le scriva.
Curioso. Mentre compilo il dati relativi al libro, ho un battuta di arresto: genere. Ho scritto romanzo, ma non sono sicura sia la definizione corretta. Un romanzo ha una trama, che qui è assente; un romanzo ha molti elementi di fantasia, che qui non ci sono; un romanzo ha un significato, che qui è collocato fuori dalle storie narrate.
Avrei potuto scrivere racconti, perché il libro è costruito su tante testimonianze diverse, ciascuna esposta come un singolo racconto, una singola storia, una singola vita. Ma tecnicamente questa non è una collezione di racconti perché nel loro insieme c’è un significato che va molto oltre il significato del singolo racconto.
Ho anche pensato alla definizione Libro denuncia, che trovo generalmente detestabile e banale, ma che evoca chiaramente il significato di accusa che il testo contiene, ma qui l’Autrice scompare dopo poche pagine, mettendo semplicemente a disposizione la sua penna per lasciare ad altri le parole.
Fuori da ogni schema letterario, la sensazione che ha prodotto in me questa lettera è simile a una ricerca che feci anni addietro presso il Cimitero Monumentale di Torino. Per una ricerca di sociolinguistica, si andavano a leggere le epigrafi ed era naturale ripensare ad alcune di essere e immaginare le vite nascoste dietro la pietra e riassunte dai rimasti.
Leggere Ragazzi di Zinco è come visitare un cimitero: ascoltare i racconti di chi è sopravvissuto alla guerra o alla perdita di un parente e immaginarne le vite prima. Prima di una guerra, quella dell’Unione Sovietica in Afghanistan, che non viene raccontata: non c’è traccia nel testo di una contestualizzazione storica, nessun excursus per orientare il lettore.
Si trova solo una carrellata di racconti di morite, nemmeno in ordine particolare. Si comprende che la morte può avere varie sfaccettature: quella oggettiva, di chi non c’è più, e viene raccontato da genitori o congiunti; quella psicologica, di chi ha riportato se stesso in patria, ma lasciando sul terreno di guerra il se stesso che ra prima; quella di chi, nel sopravvivere fisicamente a un figlio, si è visto strappare la ragione di vita.
Il ventinove agosto mi sono detta che l’estate era passata, gli ho comprato un completo, delle scarpe. E’ tutto rimasto nell’armadio…
Il trenta agosto. Prima di andare al lavoro, mi sono tolta gli orecchini e l’anello. Chissà perché quel giorno non riuscivo a portarli.
Il trenta agosto lui è morto.
Oltre queste sofferenze, quelle note dei periodi post bellici, che orami la Storia avrebbe dovuto insegnarci: il disadattamento dei reduci, i ripensamenti collettivi e individualiste motivazioni, i presunti o reali tradimenti di chi manda a morire le generazioni future, l’idea di ingiustizia e inutilità che accompagnano ogni conflitto. Come a ribadire che la lezione non si impara mai.
Non c’è nulla in questo libro che non si trovi come memoria storica anche nella memoria di ciascuno di noi: un racconto di un nonno, un’esperienza di un amico, qualche romanzo storico. Eppure io non sono riuscita a smettere di leggerlo. Non c’è nessun tratto patetico particolare, nessun evento mozzafiato, eppure io ho continuato, una pagina dopo l’altra, un racconto dopo l’altro.
Forse il merito dell’autrice è proprio questo: essere riuscita a far ascoltare quelle voci che, nel quotidiano, non si vogliono ascoltare. Forse per i connazionali dell’autrice ci sono anche altri significati, che a noi non sono così prossimi. Ciò che ci è prossimo e che dietro ogni lapide, sigillata nello zinco, c’è una storia, con un inizio, una fine e, romanzo o no, racconta una vita.
Qualche volta mi chiedo cosa sarebbe successo se non fossi capitato in guerra. Sarei felice. Non sarei rimasto così deluso di me stesso e non avrei mai saputo sul mio conto tante cose che è meglio non sapere. Come dice Zarathustra: quando spingi il tuo sguardo nell’abisso, anche l’abisso ti scruta nell’anima.
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