domenica 13 agosto 2017

Chi ha paura muore ogni giorno

Titolo: Chi ha paura muore ogni giorno
Autore: Giuseppe Ayala
Anno di pubblicazione: 2008
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

L’organizzazione si infiltra, sfrutta, regola scelte politiche, amministrative ed economiche. Perché cambiare e sopportare il costo della ricerca di nuovi canali di “permeabilità”?
A “Cosa Nostra” è sufficiente disporre di propri uomini nelle istituzioni, nella politica, nell’amministrazione e nell’economia. Meglio che ul sistema rimanga com’è.
Questa e non altro, Signori della Corte, è la Mafia.

Il titolo riprende una citazione di Paolo Borsellino, il Quale, all’oziosa domanda se avesse timore di essere assassinato, in più di un’occasione diede questa risposta. Di mafia si muore: i recenti fatti di Foggia riportano alla ribalta l’evidenza. 
Lessi questo libro un paio di mesi addietro, ma non lo recensii, perché ero molto combattuta tra il giudizio critico e il giudizio etico. Mi sono risolta a scriverne a seguito dell’ennesima strage, degli ennesimi commenti banali, del rispettoso silenzio per le vittime, che già confonde le parti. Opto per la chiarezza: il libro, come prodotto letterario non è un capolavoro. Tre, a mio avviso, sono gravi pecche dell’Autore: una ricercatezza stilistica di cui non è all’altezza; l’incapacità di creare un parallelo tra Storia e narrazione, che crea vacanze concettuali; un fastidioso rimescolamento tra vita pubblica e vita privata, che inficia, peraltro, l’empatia con l’Autore.
Nonostante tutto, il libro ha un forte impatto, non tanto nell’emotività, come credo fosse nell’intenzione dell’Autore, ma nella resa dei personaggi coinvolti, nelle sfumature che rendono indefinite gli schieramenti dei buoni e dei cattivi. 
Ayala espone la Sua esperienza che necessita, nell’agire con perizia, prudenza e coscienza, della capacità di districarsi in una rete di comportamenti multiformi. Ci sono gli assassini e questi sono i colpevoli, sono i cattivi, facile. Ci sono i mandanti, e questi sono cattivi, facile. Ci sono le vittime e qui la faccenda già si complica, tra vittime afferenti, a varo livello, alle famiglie mafiose, e vittime innocenti, morte per una contingenza, e vittime preannunciate, bersagli in quanto nemici. 
Poi, la parte più difficile, sia dal punto di vista della giurisprudenza, sia dal punto di vista morale: la zona grigia. E’ questa un’immensa distesa di umanità, che non è propriamente cattiva, ma non è neanche propriamente buona. Ayala presenta molte circostanze in cui questi grigiore umano prende forma e nome. Per esempio, i membri del CSM che diedero un voto negativo alla nomina di Falcone come sostituto di Caponnetto. L’Autore riporta le motivazioni addotte, sia da chi aveva perorato Falcone, sia di chi lo aveva scartato. Facile capire i buoni, meno facile capire i cattivi.
Altro esempio è rappresentato dal rapporto con i cosiddetti pentiti, che di rado sono pentiti delle proprie azioni nel senso morale del termine, ma, più banalmente, sfruttano il sistema per trarne benefici o vantaggi. Che le informazioni dei pentiti siano utili è indubbio, ma capire in quale squadra giochino questi soggetti, non è semplice.
E ancora peggio per quanto riguarda molti degli esponenti del mondo politico, della Chiesa, dei diversi ordini professionali, del panorama culturale! Dolo, negligenza, malafede, errore: in quale schieramento? Non è speculazione, è bisogno di verità.
Infine ci sono gli altri, i cittadini, la cosiddetta società civile, i singoli. E qui ci si perde nelle paure, nelle connivenze, nei piccoli meschini privilegi, nella mentalità assoggettata al potere, di qualunque colore sia. 
La citazione di Borsellino ha un corollario: chi vive nella paura è già morto. iI problema è che finché  questo  morto trascina la propria pelle in giro, scrivo io, può ancora nuocere: può ancora voltarsi dall’altra parte, può ancora sapere e non denunciare, può ancora trarre un miserabile vantaggio.
Ayala fa riferimento a un orrendo sospetto derivato dalla Sua mancata uccisione, come se il fatto di non essere stato ammazzato dalla mafia lo rendesse più esposto alle critiche, come se fosse necessario diventare un martire per essere riconosciuto dalla parte dei buoni, dimenticando che basta uno scivolone provocatorio come questo a far passare dalla parte dei cattivi.
Questo credo sia l’aspetto più rilevante del testo di Ayala: l’aver reso così chiaro che se la guerra tra Stato e Mafia è fatta da due squadre ben definite, i giocatori, troppo sovente, cambiano maglia. 

Ayala non chiude con ottimismo: la Sua veemenza si spegna nell’amarezza e nel dubbio che la partita possa essere vinta dallo Stato, non perché lo Stato non possa vincere, ma perché anche lo Stato sovente cambia squadra, perché i magistrati, i giornalisti, noi, ciascuno di noi, può cambiare squadra. Di mafia si muore, questo è certo. Il dubbio è: ogni giorno?

sabato 13 maggio 2017

Le parole sono pietre

Titolo: Le parole sono pietre
Autore: Carlo Levi
Anno di pubblicazione: 1955
Genere: saggio
Recensione di: Chiara Bortolin



Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime, ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d'improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata è la Giustizia.

Che la mafia esista, oggi, è una verità condivisa, almeno nella sua lapidaria sintassi. La mafia esiste. Che cosa sia la mafia è ancora motivo di interessate speculazioni o di codardi dinieghi. Serviva però una penna presa in prestito dalla pittura perché la parola mafia potesse avere la dura e straordinaria sintesi della poesia. 
Le parole sono pietre. il titolo è in sé già emblematico. Nella sua semplicità raccoglie tutte le verità che nei racconti, nonché nella prefazione, sono contenute. Le parole che sono state spese per nascondere verità evidenti, per raccontare menzogne o peggio, per dire e non dire, per seppellire nelle sfumature nelle sfumature di significati adamantini. Ma le parole, diverse, eppure uguali, sono le stesse usate per sussurrare le cristalline e coraggiose verità, per lasciare intendere nelle frasi sospese o per gridare a gran voce che la mafia esiste. Le parole così effimere eppure così pesanti, così vuote di significato nel luogo comune eppure così drammatiche nel significato individuale.
Poi, le pietre. Che a pensarci, una pietra è proprio un nulla, un oggetto comune, senza alcun fascino, che per avere un qualche significato deve metterci mano l’uomo. Ci vuole un Michelangelo per fare di una pietra bianchiccia un Mosè! Ci va un muratore per fare di una pietruccia grigia una casa. E senza un gemmologia un diamante non sarebbe che un sassolino da gettare nel lago per vederne i cerchi in superficie.
Ma se queste pietre vengono prese e gettate addosso, ecco questo nulla diventa un’arma e così le parole.
Se prese queste parole e gettate come pietre diventano una lapide su cui altre parole offendono o esaltano la verità.
Ci vuole un poeta per vedere la bellezza della verità nella durezza delle parole scagliate in faccia a chi con le parole ci mangia. Le pietre che descrive Levi sono la miseria dei contadini siciliani, traditi da una Riforma più decantata che realizzata; la sfrontatezza di un feudalesimo che del casato mantiene sono il titolo, quasi sempre privo di nobiltà; ma anche il dolore di chi, per una parola che esiste, con un significato negato, di mafia muore.
La mafia esiste e già all’epoca Levi ne aveva intuito  le genesi antica, le ragioni attuali e le dinamiche complesse. Levi ha tanti meriti, come pittore e come scrittore, ma tra tanti, con questi scritti, spicca l’aver levigato le parole per rendere pietre miliari della verità.

Le parole sono pietre. Se il concetto non fosse chiaro, se qualcuno avesse ancora voglia di fare cumuli di se e di ma, di seppellire le verità scomode sotto macigni di retorica, legga le parole di che sono nomi, che sono storie, che sono lapidi.

sabato 11 marzo 2017

Una Stagione all'Inferno

Titolo: Una Stagione all’Inferno
Autore: Arthur Rimbaud
Genere: Poesia
Anno di pubblicazione: 1873
Recensione di: Chiara Bortolin


A volte parlava, con una sorta di strano dialetto addolcito, della morte che fa pentire, degli infelici che sicuramente esistono, dei lavori penosi, delle partenze che straziano i cuori. Nelle bettole in cui ci ubriacavamo, piangeva considerando quelli che ci stavano attorno bestie da miseria. Rialzava gli ubriachi nei vicoli bui. Aveva la pietà di una  cattiva madre per i bimbi piccoli. - Andava  in giro con la grazia di una fanciullina al catechismo. - Si fingeva esperto di tutto, commercio, arte, medicina. - Io lo seguivo. dovevo!


Se tu mi chiedessi cosa sia la poesia, io ti risponderei recitandoti questo passo. Come diceva Hausman, non so cosa sia la poesia, ma quando la riconosco quando la sento. 
Non ci sono rime, va bene. Non ci sono i tipici a capo, i versi, pazienza. Non c’è una metrica. Eppure io ti dico che questa, mia caro, è poesia e della migliore qualità.
Lo so che sui manuali di letteratura sono scritte pagine e pagine di critica in cui ti spiegano che la poesia è fatta così e cos e che ci sono delle regole che indicano cosa sia la poesia e sono tutte affermazioni vere, innegabili. Ma sono limitate, come vedere un panorama da un binocolo, ne vedi solo un dettaglio.
La poesia è una faccenda complessa: c’è la tecnica, c’è l’uso maniacale delle parole e della loro disposizione, ma tutto questo è lo strumento tramite cui il poeta trasmette il concetto. Non si fa poesia solo con le parole. Si può scrivere un romanzo che non ha un significato, si può scrivere una storia coerente, che non vuol dire niente, ma non si può fare poesia senza un concetto.
Come un poeta arrivi a elaborare un concetto è un processo lungo, fatto di esperienza, di coscienza, di talento, di interiorizzazione. Il poeta vive in una dimensione altra, profonda come l’anima, leggera come l’esistenza. Per questo non si sceglie di fare il poeta, lo si è o non lo si è. Il poeta vive la poesia e poi, se è anche generoso, la restituisce in un brano come questo con cui ti regala la bellezza sublimata e rarefatta delle parole.
Prendi Rimbaud, prendi questo passo. Dimmi che non hai mai pensato, almeno una volta, con struggimento, al pentimento sul letto di morte, al momento in cui un uomo rende l’anima alla polvere e realizza di aver sprecato la possibilità di, che so, porre rimedio a un danno, chiedere scusa, dire a una persona cara ti voglio bene.
Dimmi che non hai mai pensato a chi per campare fa lavori orribili, che straziano il copro, che ottundono il cervello, che abbruttiscono il carattere, che svuotano la coscienza o che sottraggono un padre all’amore dei figli.
Dimmi che non hai mai avuto compassione per un bimbo maltrattato dalla madre o che non hai guardato con insospettata dolcezza una ragazzina che cammina leggere con un libro in mano e l’innocenza nel cuore.
Dimmi che non ti sei fatto incantare da una persona che veramente conosce gli uomini e non ti sei fatto strappare confidenze come se fossi una margherita in mano a un bambino.
Dimmi che non hai saputo provare pietà per un infelice. 
Anzi, non dirmi nulla di tutto questo, perché se davvero non hai mai pensato a una di queste situazioni, temo di doverti dire,amico mio, che l’ultimo dei tuoi problemi è capire cosa sia la poesia. 

Se invece, come spero, hai avuto uno di questi pensieri, anche solo come un fugace moto dell’anima, allora puoi capire cosa sia la poesia, puoi leggere Rimbaud e soprattuto puoi essergli grato perché è riuscito a dire in modo meraviglioso ciò che tu hai solo potuto intuire in un guizzo di umanità.

sabato 4 marzo 2017

I Buddenbrocks

Titolo: I Buddenbroocks - Decadenza di una famiglia
Autore: Thomas Mann
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 1901
Recensione di: Chiara Bortolin

Questo è uno dei pilastri della letteratura moderna e con questo non intendo lasciare spazi a spiritosaggini da buontempone circa il suo volume in edizione cartacea. Scrivo che è un pilastro perché proprio come l’elemento architettonico offre garanzia di solidità e quindi di sicurezza.
Prendi in mano I Bundderbroocks e hai delle certezze. Prima di tutto sai che dal punto di vista letterario la struttura è ineccepibile: una scrittura pulita, con qualche fregio barocco, che non eccede nel rococò; uno stile austero, armonico e bilanciato; un lessico ricercato, ma senza ostentazione.
In seconda battuta sai che la narrazione non ha crepe: i personaggi hanno profondità psicologica, ma esemplarità sociale; l’intreccio si muove su una linea chiara, una situazione di equilibrio, poi un’evoluzione, un apice e la chiusura; l’ambientazione talmente curata da sembrare più descrittiva che contestuale.
Infine, sai già che tipo di storia viene raccontata, una tragedia, l’Autore lo dichiara subito nel titolo, che sia chiaro.
Se poi hai letto qualche altro romanzo del genere, sai che non può che essere così. Gli autori di fine Ottocento non potevano che raccontare del declino, non dell’apocalisse, quello tocca agli Autori del Novecento, non dell’ottimismo, quello era toccato al settecento. Nell’Ottocento si scrive della decadenza. 
Il mondo sta cambiando, le società europee stanno cambiando, con lentezza, ma senza possibilità di rimedio, gli assetti sociali mutano e gli Intellettuali, come Cassandre senza età, cercano di avvisare. Le folle sono in tumulto, il potere politico non è più on grado di dare risposte certe, una nuova classe di ricchi sta prendendo in mano la situazione, eliminando senza tante smancerie un’aristocrazia che può solo preparare le proprie memorie in pinacoteche autocelebrative.
Tutto questo è molto rassicurante. Un romanzo diventa un classico quando il contenuto che espone è sufficientemente sedimentato da poter essere considerato un sapere comunemente acquisito.
Per questo I Bundderbroocks, non fanno più paura. Nessuno di noi, per esempio, teme di morire per un ascesso o impiega giorni per attraversare uno stato o scrive con una penna d’oca. La povertà, la fame, il freddo, ormai non riguardano nessuno più le società occidentali. Allo stesso modo non si teme un potere oppressivo che in virtù di credenze governa la vita dei più. Tutto ciò è passato, per questo i classici appaiono così rassicuranti.
Certo, se volessi andare oltre, se appena appena volessi vedere sotto l’intonaco, come certe donne imbellettate di pirandelliana memoria, potresti pensare che forse non è tutto superato. Potresti pensare che al solido palazzo della Storia si sia fatto un frettoloso restauro, ma che certe crepe non siano state riparate, che certi danni strutturali siano stati rattoppati alla meno peggio.
O forse potresti pensare che c’è un paradosso: nei romanzi classici non c’è mai ansia. Nonostante le pagine scorrano portandosi appresso un crescendo di sconfitta, la tragedia è semplicemente inesorabile e, nella sua ineluttabilità, offre una certa sicurezza. Andrà tutto male, punto. 
L’ansia è una novità regala dal benessere. Se non hai niente da perdere, non hai tempo per avere paura. Se puoi morire per una febbre, se sei destinato a sposare chi non ami, se l’obbligo sociale è superiore a ogni beneficio individuale, non ha nessun motivo per essere in ansia, sarà comunque una tragedia.
Ma se puoi scegliere, se hai la libertà di essere felice, se hai qualcosa da perdere o da vantare, allora puoi permetterti il lusso di avere l’ansia, puoi sentirti insicuro di fronte al mondo, puoi avere paura.
Leggere I Bundderbrocks è una garanzia di leggere un romanzo di eccezionale qualità, ma è anche un’occasione per ricordare che certe scemenze come si stava meglio quando si stava peggio non si trovano scritte nemmeno nei dolcetti della felicità . 

La Storia e la Letteratura offrono una possibilità impareggiabile: terre insegnamento dagli errori altrui senza sperimentarli in prima persona. Oscar Wilde sosteneva che Esperienza è il nome che diamo ai nostri errori. Come molti aforismi, divertente, ma non esaustivo.

sabato 25 febbraio 2017

Da te solo a tutto il mondo

Titolo: Da Te solo a tutto il mondo
Autore: Jared Diamond
Anno di pubblicazione: 2014
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin


La forbice tra le economie nazionali è un aspetto fondamentale della geografia del nostro pianeta. Perché esistono paesi ricchi e paesi poveri? 


Devo ammettere che il titolo potrebbe sembrare fuorviante, potrebbe lasciar vagare la fantasia verso orizzonti sentimentali di basse lega o peggio ancora a una pedagogia da borsetta. Niente di più di verso dal contenuto del libro, che raccoglie sette lezioni tenute dall’Autore presso l’università Luiss di Roma. 
Il tema trattato, come si può desumere dalla citazione, è la disparità tra paesi ricchi e paesi poveri e, a dispetto della sua gravità intrinseca, l’analisi viene esposta in modo leggero e piacevole.
In poco più di cento pagine l’Autore ci offre una gustosa analisi di sette temi cruciali per comprendere le cause delle disparità. E chiaro che il testo, come le lezioni, non ha la presunzione di esaurire un argomento così complesso, né fare una cronistoria. 
L’obiettivo di Diamond è piuttosto offrire degli spunti tematici e metodologici affinché il lettore possa poi muoversi autonomamente nell’approfondimento e nella riflessione.
Si può leggere il primo capitolo, in cui propone un elenco di parametri che influiscono sulla ricchezza di uno Stato, e ragionare su ogni tema singolarmente. Ogni lettore può comprendere come la geografia o la storia di uno stato siano parametri fondamentali nello sviluppo dell’attività economica. E’ interessante avere una visione di insieme, che ha una sua ratio nella generalità, in quanto strutturale.
Si può leggere il capitolo sulla Cina, il cui nome evoca speranze e inquietudini, ma di cui talvolta non si ha presente la dimensione complessiva.
e lezioni si rivolgevano a studenti universitari, il libro si rivolge a un pubblico più ampio, ma non esperto.Da questo punto di vista è apprezzabile il lavoro di Diamond che, a differenza di troppi docenti universitari, sale in cattedra per dare strumenti e non verità preconcette.
Nell’epca in cui tutti pretendono di essere esperti, costringendo talvolta chi lo è davvero a posizioni oscurantiste, l’amore ricorda che la leggerezza non è semplificazioni, che le idee non sono monoliti e che la verità è un processo di ricerca e non un processo da talk show.
Dopo aver letto questa gradevole introduzione al tema, viene voglia di affrontare il testo per cui Daimond è arrivato alla ribalta Armi, Acciaio e Malattie, del 1997, che gli valse il Pulitzer.
Può sembrare strano che uno scienziato, un ornitologo, come il sottotitolo e le biografie lo definiscono, si cimenti in un’analisi che ha tutto l’aspetto di uno studio umanistico. Io trovo, lo dico da umanista, molto interessante questa commistione di interessi, che ribadisce un carattere libertario della cultura, una forma di sua democraticità intrinseca, un irrefrenabile desiderio di andare oltre i limiti di ciò che è noto, 
A questo punto verrebbe naturale fare un excursus sul concetto di confine, come limite e come oltre, ma per questo rimando a Da te solo a tutto il mondo, che offre ampi e piacevoli orizzonti, non solo geografici.


sabato 11 febbraio 2017

Se

Titolo: Se
Autore: Rudyard Kipling
Anon di pubblicazione: 1895
Genere: Poesia
Recensione di: Chiara Bortolin



Se riesci a non perdere la testa quando tutti
Intorno a te la perdono, dandone la colpa a te.
Se riesci ad avere fiducia in te stesso, quando tutti dubitano di te,
Ma anche a tenere nel giusto conto il loro dubitare.
Se riesci ad aspettare senza stancarti dell’attesa,
O essendo calunniato, a non rispondere con calunnie,
O essendo odiato, a non abbandonarti all’odio
Pur non mostrandoti troppo buono, né parlando troppo da saggio.
Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni,
Se riesci a pensare, senza fare dei pensieri il tuo fine;
Se riesci, incontrando il Trionfo e la Sconfitta
A trattare questi due impostori allo stesso modo.
Se riesci a sopportare il sentire le verità che hai detto
Travisate da furfanti che ne fanno trappole per sciocchi,
O vedere le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E chinarti e ricostruirle con i tuoi strumenti logori.
Se riesci a fare un cumulo di tutte le tue vincite
E a rischiarlo tutto in un solo colpo a testa o croce,
E perdere, e ricominciare dall’inizio
Senza dire mai una parola su ciò che hai perso.
Se riesci a costringere il tuo cuore, i tuoi nervi, i tuoi tendini
A sorreggerti anche dopo molto tempo che non te li senti più
E di conseguenza resistere quando in te non c’è niente
Tranne la tua Volontà che dice loro: “Resistete!”
Se riesci a parlare con le folle mantenendo la tua virtù
O a passeggiare con i re senza perdere il senso comune,
Se né nemici, né affettuosi amici possono ferirti;
Se tutti gli uomini per te contano, ma nessuno troppo,
Se riesci a riempire l’inesorabile minuto
Con un momento del valore di sessanta secondi,
Tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,
E, quel che più conta, sarai un Uomo, figlio mio!


Se hai a che fare con dei minori e sei un essere senziente, il che naturalmente non coinvolge ogni esemplare di homo sapiens sapiens, sei portato a chiederti con una certa qual frequenza cosa sia giusto trasmettere al cucciolo di specie umana in attesa di una tua risposta.
E’imbarazzante, lo ammetto serenamente, da membro di una generazione di insicuri ansiosi disorientati, scoprire che un bambino, un ragazzino, si aspetti che tu sappia cosa fare. Proprio tu che della tue vita hai fatto un aeroplano di carta lanciato il divano del precario! Proprio tu che lo hai messo al mondo sperando di mettere un punto fermo nella tua vita e ora ti trovi un punto di domanda! Tu che non capendo quale fosse il tuo problema, ti sei scagliato come una freccia a centrare i problemi degli altri.
Mai come in questi anni si è sentito parlare di educazione e si è raccolto così tanto smarrimento. Sembra anzi una relazione inversamente proporzionale: meno si è capaci di fare di un bambino un uomo e più ci si a scrivere teorie, metodologie, guide pratiche! 
Poi ti capita per le mani una vecchia poesia e ti torna in mente una locuzione semplice, andata in disuso, Buon Senso
La poesia di Kipling è una lettera in versi che un padre scrive a suo figlio. Il caso vuole che questo padre sia anche un Premio Nobel per la Letteratura e che quindi, se avesse voluto, avrebbe avuto tutti i mezzi per sciorinare parole e precetti! invece, no. 
Kipling sceglie parole di uso comune per esprimere concetti semplici: se qualcuno parla male di te, non fare altrettanto; non farti abbattere dalle sconfitte e non montarti la testa per le vittorie; non farti tirare in mezzo dalla gente e non tirartela se frequenti persone importanti. 
Buon senso e amore. Perché nelle parole di Kipling non ci sono vie indicate, ma solo consigli. Non scrive al figlio: da grande fai il calciatore o l’astronauta; non gli prospetta mondi fantastici di lusso sfrenato o povertà da salvare; non propone orientamenti sessuali, politici religiosi. Un solo suggerimento: sii un Uomo.
Quando osservo i genitori incapaci di gestire il capriccio del figlio al supermercato, quando al ristorante vedo i bambini ghettizzati nelle aree baby, quando sento dire che a quattordici anni possono scegliere da soli, ecco, in queste situazioni mi chiedo come quei poveri cuccioli di specie umana possano diventare uomini. E se poi penso che Rousseau, il padre della pedagogia, abbandonò cinque figli, che la figlia di Freud passò la vita a contestare le teorie paterne, che il figlio di Melanie Klein si suicidò e la figlia si diede a smentirla in con tutti i mezzi, non posso che arrendermi all’evidenza che anche un genio possa essere un cattivo educatore.

Kipling lo scrive con la dolcezza di un padre, la bellezza di uno scrittore, la solidità di un uomo. Buon senso e amore. Per chi, se non per un bambino?

sabato 28 gennaio 2017

Sender Prager

Titolo: Sender Prager
Autore: Israel J. Singer
Genere: Racconto
Anno di pubblicazione: 1937
Recensione di: Chiara Bortolin

Sender Prafer è un ristoratore quarantenne che ha condotto una vita libertina e godereccia. Da qualche tempo però l’inquietudine lo coglie, nelle notti solitarie, quando non riesce a prendere sonno, quando avverte un malessere diffuso, quando il whisky non si comporta da amico. E’ in uno di questi momenti che decide di dare una svolta alla sua vita. 
Si reca dal Rabbino che, pur non essendo un bigotto, gli rappresenta da tempo tutte le pecche del suo stile di vita e gli rinnova l’invito a mettere su famiglia. Sender si rassegna e affida al religioso la scelta della sposa, per poi gettarsi a capofitto nella preparazione della sua nuova vita. I cambiamenti che appronta non sono vissuti con entusiasmo, ma l’angoscia per un futuro peggiore, il disgusto verso le persone che fino a quel momento lo hanno circondato e la convinzione di una seconda possibilità lo sostengono. 
Finalmente arriva il giorno del matrimonio e Sender affronta l’ultima fatica, sopportare il disprezzo della famiglia della sposa che, pur ridotta in miseria e privata di alcun aiuto, appartiene a una genealogia di integralisti spocchiosi, per i quali il passato del ricco sposo rappresenta una macchia indelebile che permette loro di accoglierne con gioia solo il denaro.
Sender confida che la nuova vita ripagherà i suoi sforzi. Il crollo è totale quando scopre che la moglie non è quella casta sposina che gli era stata rappresentata. Umiliato davanti ai suoi amici, sconfitto dalla decadenza che lo circonda, Sender torna alla sue vecchie abitudini senza alcuna allegria, pervaso dalla delusione, ormai privo di ogni speranza. 
In una delle notti di ubriachezza, mentre tenta di rifugiarsi in uno stanzino del locale, che da tempo preferisce alle mura domestiche, scivola dalle scale rimanendo paralizzato. 
Il racconto termina poche righe dopo: lascio al mio lettore la possibilità di scoprire la sorte di Sender, tanto sorprendente quanto crudele.
Singer è uno scrittore ebreo polacco, trasferitosi in America a inizio secolo. Di tutte le barbarie che vennero perpetrate durante la guerra al popolo ebreo e a milioni di cittadini europei non seppe nulla, perché mori prima che certe verità potessero emergere. 
Il mondo a cui si riferisce è un mondo in cui la realtà della miseria materiale si accompagna al diffuso senso di decadimento morale. Sono gli anni in cui alla dissolutezza delle classi agiate corrisponde il convincimento di un destino ineludibile e drammatico degli intellettuali. Sono i primi anni di quel Novecento che ha cambiato troppe storie troppo rapidamente, quasi fosse capitombolato da un decennio all’altro, dalla belle époque al conflitto, dalla prima alla seconda guerra mondiale e poi al boom economico e allo sviluppo incessante, che ancor prima di essere compreso si chiamava globalizzazione e lanciava verso un Duemila che di ruggente aveva solo la memoria.

E questa memoria è qui, che pesa, come un’eredità più rimpianta che desiderata, di cui si rammentano immaginari fasti, mentre si riparano vecchi pettineuse, di fronte a cui si sono specchiate ballerine di seconda fila, dal trucco scadente, che in nessun caso avremmo voluto per madre.

sabato 21 gennaio 2017

Ma gli androidi sognano pecore elettriche?

Titolo: Ma gli Androidi sognano pecore elettriche?
Autore: Philip K. Dick
Anno di Pubblicazione: 1968
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin

Noi non nasciamo mica; noi cresciamo; nivee ce di morire di malattie o di vecchiaia, ci consumiamo come formiche. Sempre e formiche:ecco cosa siamo. Cioè non te. Voglio dire, io: chitinose dotate di riflessi che non sono veramente vive.

Tecnicamente questo libro rientra nella fantascienza, con grande disappunto degli appassionati del genere, che lo vorrebbero annoverato in un’altra categoria, come la fantapolitica.
Altrettanto tecnicamente questo libro non rientra nella Letteratura con la L maiuscola, perché la fantascienza, in cui la Letteratura annovera questo romanzo, non è un genere che sappia offrire grandi capolavori.
In comune le due fazioni portano la stessa motivazione, ma da punti di vista differenti. Il problema fondamentale è il tema. Da un lato si accusa che non sia ambientato nello spazio, con astronavi interstellari ed extraterrestri, dall’altro si ridicolizza un mondo impossibile senza sostanza narrativa.
Philip Dick immagina un mondo in un 1992 post nucleare, in cui l’umanità è stata decimata, insieme al mondo animale e vegetale e in cui una tecnologia avanzata sopperisce alle carenze vitali con macchine e alle carenze emotive con altri sistemi tecnologici. 
La Terra di Dick è un inferno tecnologico, reso con gran successo dal film The Blade Runner, in cui la maggioranza degli uomini si adegua al quotidiano e altri  cercano un’esistenza umana nell’unica dimensione che una macchina non potrà mai offrire, quella dei sentimenti.
Potrei ora fare una lunga e noiosa dissertatio per supportare la bontà degli argomenti trattati nel libro e spiegare le ragioni per cui si potrebbe affermare che la narrazione sia inferiore a essi, ma non sono questi gli aspetti che suscitano il mio entusiasmo.
Ciò che trovo interessante, in questo testo, come in generale nella fantascienza è il potere dell’immaginazione. La fantascienza ha le sue regole, tanto implicite, quanto inderogabili. La fantascienza può descrivere solo mondi irreali, di cui, fin dalle prime righe, si definiscono i punti cardine. E’ come se un Autore sussurrasse al lettore: se il mondo fosse così e così, allora potrebbe succedere questo. 
Questo è un esempio straordinario di immaginazione. E l’immaginazione è uno strumento straordinario. Imprescindibile per inventare altri mondi, per leggere questo mondo con occhi diversi, per capire il mondo che esiste, per intuire il mondo degli altri. Tutto questo si realizza con un costrutto sintattico, il periodo ipotetico, che a sua volta si basa su elementi grammaticali appresi alle elementari, i congiuntivi e i condizionali.
Sembra impossibile, ma è vero! A sei anni ripeti tabelle di verbi e a quaranta sei uno scrittore che immagina mondi o brevetta la cura per una malattia rara o inventa un materiale biodegradabile. Tutto questo perché hai in mente una particella invariabile del discorso, il se. 
Il problema è che se una regola vale in un senso, probabilmente vale anche nel suo contrario. Se l’immaginazione necessita dei congiuntivi, chi non li padroneggia è privo di immaginazione. Questo è un grande problema, questo è un problema democratico. 
Chi manca di immaginazione non solo non è in grado di immaginare un mondo orrendo in cui il post nucleare ha devastato il pianeta; chi non ha immaginazione non è in grado nemmeno di pensare come potrebbe essere questo mondo se si potesse agire meglio, come sarebbero le relazioni se si riuscisse a parlare meglio, ad ascoltare meglio, a pensare meglio.
Chi pensa solo all’indicativo, può solo pensare a un presente che è ed è immutabile, perché impossibilitato a chiedersi come sarebbe se; a un passato che è stato e non richiede ripensamenti perché incapace di chiedersi come sarebbe stato se; incapace di immaginare un futuro che non vada oltre a ciò che è ineludibile perché privo di immaginare come potrebbe essere il domani se.

Nel romanzo di Dick i personaggi sono costantemente alla ricerca di se stessi, nel tentativo di capire in ogni sguardo se davanti vi sia una macchina o un vero essere vivente. Sarebbe auspicabile, condizionale optativo o desiderativo, non doversi fare la stessa domanda incontrando persone in carne e ossa, ma con il senso del possibile inferiore a una macchina, perché, questo sì sarebbe un vero inferno.

venerdì 13 gennaio 2017

Contro il Fanatismo

Titolo: Contro il Fanatismo
Autore: Amos Oz
Anno di Pubblicazione: 2002
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

(…) Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare tra i giovani. Il compromesso è considerato una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto.
Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita e dove c’è vita ci sono i compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, è morte. Sono sposato con la stessa donna da quarantadue anni: rivendico un briciolo di competenza, in fatto di compromessi. (…)

Chi conoscesse questo Autore per i suoi romanzi potrebbe sollevare un’obiezione di ordine letterario, perché questa è la prima recensione che dedico a Oz e, considerata la sua statura letteraria, considerate le sue ripetute candidature al Nobel, la mia scelta potrebbe apparire bizzarra.
La motivazione che posso addurre è naturalmente soggettiva ed è che un grande scrittore riesce a regalare  meraviglie anche in occasioni diverse dalla loro pratica quotidiana. Bisogna essere grati per questa generosa opera di diffusione di intelligenza.
Nel 2002 Oz tenne tre lezioni sul tema del fanatismo all’Università di Tubinga, a ben vedere non proprio un’Accademia secondaria, sul tema del fanatismo. Il saggio contiene la trascrizione di queste lectio magistrali.
Voglio essere molto chiara: questo saggio va letto. La si può pensare come si vuole sui molti temi che un argomento come il fanatismo richiama, penso all’integralismo, al terrorismo, alla religione, al conflitto tra israeliani e palestinesi. La si può pensare come si vuole, ma si potrebbe scoprire che il proprio pensiero sia   grossolano, dopo aver letto queste lezioni.
Il primo motivo per cui questo libro va letto è che è tanto semplice da leggere quanto complesso da rielaborare. E’ peculiarità delle menti brillanti saper illustrare in modo accessibile pensieri che solo loro sanno elaborare. Einstein che spiega il concetto di relatività, tanto per capire.
Tengo molto a questo aspetto: Oz è un donatore di pensieri, di idee, di concetti. Il fanatismo può essere combattuto solo dai moderati. Il fanatismo e il terrorismo sono due fenomeni attigui, ma non sono sinonimi né semanticamente né concettualmente. La pace e la fratellanza sono due concetti diversi, due fatti diversi, non necessariamente collegati. Il compromesso è l’unica, dolorosa via per un bene superiore, la pace. 
E di affermazioni così cristalline, così immediate, se ne trovano molte in queste poche pagine. Le argomentazioni a supporto scorrono altrettanto chiare, altrettanto evidenti. E qui vorrei sottolineare un altro aspetto: è una menzogna che la semplificazione sia inevitabile per rendere accessibili concetti complessi. La semplificazione presuppone la disistima del proprio pubblico, la demistificazione ne presuppone l’ignoranza. Un relatore adeguato fornisce gli strumenti per comprendere, non li omette.
Altro motivo per cui leggere questo saggio è la sua leggerezza. Oz riesce a essere brillante, a tratti divertente, ironico, pur trattando di temi così delicati. A dimostrazione che per essere seri non è necessario essere noiosi. A dimostrazione che chi ha confidenza con l’umanità preferisce un sorriso all’insulto.
Non ultimo, l’Autore è uno straordinario narratore e queste lezioni contengono tante storie, tanti aneddoti, tante deliziose curiosità, che di per se stesse valgono la lettura.

Sento sovente dire che non ci sono più intellettuali in giro, che non ci sono più personalità di riferimento culturali, al punto che a fare opinione sono rimasti i soliti buffoni di corte, che infarciscono i programmi satirici. Non è vero: gli intellettuali ci sono e parlano e scrivono, Amos Oz è uno di questi.

sabato 7 gennaio 2017

Viaggio di Nozze

Titolo: Viaggio di Nozze
Autore: Patrick Modiano
Anno di Pubblicazione: 1990
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin

Ritorneranno ancorale giornate estive, ma il caldo non sarò mai cos’ opprimente, né le strade così deserte come quel martedì di Milano. Era il giorno dopo ferragosto. Avevo lasciato la valigia al deposito bagagli e uscendo dalla stazione avevo esitato un momento; non si poteva camminare in città sotto quella cappa di piombo.

Avevo già letto un romanzo di Modiano, Bijeaux, ed ero rimasta in dubbio: la storia sembrava sospesa, la protagonista sfuggente, la scrittura scorreva rapida pagina dopo pagina, avevo l’impressione di andare alla ricerca di un significato che sembrava sempre promesso e mai mantenuto. 
Probabilmente quello sarebbe stato l’unico romanzo di Modiano nella mia libreria, salvo regali imprevisti, se non fosse che a Modiano era appena stato conferito il Premio Nobel e a un Premio Nobel, per prudenza, si offre una seconda opportunità. Così ho preso Viaggio di Nozze.
Il titolo potrebbe trarre in inganno e indurre a pensare che si tratti di una storia sentimentale, niente di più lontano da ciò che il romanzo tratta. 
A dire il vero non è facile spiegare l’argomento del romanzo. Il protagonista, un esploratore francese di mezza età, decide di scomparire per qualche tempo e, nelle settimane che trascorre lontano dalla sua vita ordinaria, rievoca la storia di una donna incontrata anni prima, morta suicida. 
Come per il primo libro che ho citato, anche questo romanzo lascia un segno contraddittorio: la piacevolezza della lettura, che non ha nulla di superficiale e scontato, non offre un significato, se non quello integrato dal lettore.
Così, da lettore, ho cercato di capire, perché c’è un che di perturbante nel libro che non può lasciare indifferente. E, sia detto per inciso, il libro ha riscosso un grande successo di pubblico, il che per un Premio Nobel è ancora più difficile da spiegare  dell’attribuzione del Premio stesso.
Alla fine sono giunta a questa conclusione: leggevo Modiano e cercavo Sartre. Sono andata a cercare qualche critica e in effetti Modiano viene indicato come un esistenzialista.
Allora il punto è qui. Che Sartre scriveva in un certo periodo storico: aveva un pubblico che lo seguiva per le sue idee più che per i suoi romanzi, aveva una formazione umanistica che implicava il costante confronto con la filosofia, portava avanti un impegno politico per cui il disagio del singolo aveva senso solo se interpretato in una dimensione sociale.
Modiano sbatte in faccia l’ovvio: i tempi sono cambiati. Per questo motivo il suo protagonista sembra fluttuare nella trama senza prenderne possesso, perché l’uomo della fine del Novecento è fuori dal suo tempo storico; Jean è un soggetto la cui storia non ha nessun significato collettivo, perché nella segmentazione attuale è la storia singola che assume importanza; per questo un ricordo evanescente può sembrare un mistero da risolvere, quando tutto è importante, nulla è importante. Il giudizio del singolo assurge a giudizio universale.

Ben si spiega il consenso di pubblico avuto dal romanzo e anche forse il Premio Nobel, se l’Autore è riuscito a intuire e interpretare il dissolversi dell’esistenzialismo in soggettivismo. E’ quasi un peccato che sia così ben scritto, così piacevole da leggere, così voluttuoso nella sua fragilità narrativa. E’ un peccato che tanta bellezza nasconda tanta disperazione, ma in fondo questo è il compito dei grandi scrittori: gettare un mantello di ermellino sullo scheletro dell’umanità.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero