giovedì 31 dicembre 2015

Homo ridens

Autore: Henri Bergson

Titolo: Il Riso, saggio sul significato del comico

Anno di Pubblicazione: 1900

Genere: Saggio

Recensione di: Chiara Bortolin


Sarà sicuramente argomento di numerosi servizi in chiusura di telegiornale: il cinepanettone. L’infelice sostantivo indica quei film dal contenuto comico, talvolta demenziale, che, con grave sdegno dei saggi, riempiono le sale dei cinema nelle festività natalizie. 

Immaginifiche vacanze in posti tropicali, disgrazie lavorative che comportano improbabili relazioni, persino chirurghi inetti che cambiano connotati a improbabili boss e folle di anelanti fan che scalpitano nelle hall dei multisala.

Con una puntualità deprimente si sente chiedere ai protagonisti, sovente anche sceneggiatori, quale sia la ricetta del successo, il che, mi sia concesso, è come chiedere a un mago perché il coniglio spunta dal cappello. La risposta non può che essere una tautologia della domanda: il film ha avuto successo perché è piaciuto ed è piaciuto perché fa ridere. Lapalissiano.

La vera domanda è un’altra: Che cosa c’è in fondo al ridicolo? Che cosa avrebbero in comune la smorfia di un pagliaccio, un gioco di parole, il quiproquo di vaudeville, una storia di fine comicità? Che significa il riso?

La domanda è troppo ben formulata, evidentemente, per essere di mia produzione e infatti venne posta, a inizio Novecento, da Bergson. La risposta è contenuta nel suo saggio, davvero delizioso, sul riso.

Da Filosofo qual è, Bergson propone al suo lettore un percorso logico, tanto schematico quanto gradevole, alla ricerca delle ragioni che producono questo strano fenomeno che è la risata.

Il saggio si apre con un primo concetto fondamentale: ciò che provoca il riso è un ambito strettamente umano. Vale a dire che si ride per ciò che fanno gli uomini, oppure ciò che fanno gli animali nell’assumere un comportamento umanizzato o ciò che un oggetto riproduce di umano. Un paesaggio non farà mai sbellicare dalle risate!

Secondo concetto fondamentale: si ride quando non si entra in empatia con il soggetto che produce ilarità. Per ridere è necessario non provare compassione, non nutrire sentimenti, lasciare dormiente la sfera emotiva.   Si ride se una persona impettita inciampa perdendo il cappello, non se viene travolto da un tram.

Terzo punto fondamentale: ridere è un meccanismo di coesione sociale. Una compagnia di amici rafforza il proprio legame se passa una serata all’insegna dell’allegria e del riso, è un’esperienza comune. Ridere insieme facilita le relazioni sociali, a tutti i livelli, in tutti i gruppi. Per ridere insieme si devono condividere molti aspetti: culturali, sociali, emotivi. Per questo è difficile tradurre le battute comiche da una lingua a un’altra. 

Il connotato sociale del riso ha anche un altro risvolto: abbattere gli integralismi, individuali e collettivi. La società è garantita dal reciproco adattamento di tutti i suoi membri, coloro che si irrigidiscono costituiscono un ostacolo all’evoluzione sociale. L’ironia, il sarcasmo, la burla, la presa in giro sono tutti strumenti che  vengono utilizzati per esorcizzare gli estremismi.

Il saggio offre molte altre riflessioni sulle situazioni in cui si produce il riso, sul linguaggio che esso adotta, e come esso venga trattato nell’arte.

Un saggio utile che riesce a mantenere la leggerezza pur nella profondità di analisi. Nel leggerlo si ha la spiegazione esauriente e non tautologia del perché una commedia susciti ilarità, che tradotto alla nostra contemporaneità è la risposta alla domanda perché il cinepanettone ha tanto successo?

E se, dopo essersi contorti dalla risate sulle comode poltroncine del cinema, si ha l’impressione di un leggero raschiare in gola, di una fastidiosa malinconia, non c’è da preoccuparsi: Bergson spiega anche questo, che però non fa ridere ed è che, consapevolmente o meno, il riso non è mai ingenuo.

giovedì 17 dicembre 2015

Il Rogo di Berlino


  

Autore: Helga Schneider

Titolo: Il Rogo di Berlino

Genere: Romanzo

Anno di Pubblicazione:  1995

Recensione di: Chiara Bortolin

Dopo la nascita di mio fratello Peter, mia madre scoprì di aver sbagliato carriera. Ben presto si convinse che servire la causa del Führer fosse più onorevole dell'allevare i propri figli; così ci abbandonò entrambi in un appartamento di Berlin-Niederschönhausen e si arruolò nelle SS. Era l'autunno del 1941 e le forze tedesche se la passavano male sul fronte russo.

Nonostante questo libro sia edito da Adelphi,  casa editrice di pregio, nonostante sia reperibile in qualsiasi negozio che rechi l’insegna libreria, nonostante sia disponibile anche in formato elettronico, è assai raro imbattersi in un suo lettore.

Il fatto è assai curioso, perché Il Rogo di Berlinonon ha nulla da invidiare a molti altri testi riguardanti il periodo bellico, talvolta più venduti e meno significativi.

La vicenda narrata è una storia vera che trae origine dall’esperienza personale dell’Autrice. Volutamente ignoro il termine autobiografia, perché il primo merito della Schneider è essere riuscita a fare di una vicenda molto specifica una narrazione comprensibile a tutti.

Helga, la protagonista nella Storia e nella storia, non è solo una bambina abbandonata, istituzionalizzata, restituita a una famiglia raffazzonata. Non è nemmeno solo una dei bambini che visita il bunker del Fuhrer. Helga è un’adulta che rilegge il proprio essere stata bambina in un certo contesto storico: i ricordi sono restituiti con vivezza da una donna che ha saputo fare pace con il proprio passato.

Questa operazione, sicuramente non facile, offre credibilità alla narrazione: questo è il secondo merito. Lontana da ogni tentazione retorica, la Schneider non giudica la storia e non prende la comoda posizione della vittima che vanta un diritto di rivalsa. L’autrice, tedesca di nascita, austriaca per trasferimento e italianizzata per amore, narra il dramma della guerra.

Ancora più apprezzabile è il contenuto storico che il libro trasmette attraverso le vicissitudini personali: la Scrittrice descrive ambienti, situazioni, accadimenti, che solitamente si perdono nei libri di Storia, perché troppo specifici, e si distorcono in pubblicazioni di scarso livello e molta polemica.

E’ da credere che queste poche dolcissime pagine abbiano richiesto una grande fatica alla sua Autrice. Si dovrebbe un po’ di gratitudine a chi fa della propria sofferenza un romanzo di grande spessore; si dovrebbe essere grati a chi, con discrezione, sollecita la comprensione e non il giudizio; si dovrebbe offrire un posto nella propria libreria a un romanzo che tratta la complessità con semplicità.

Afferma la Schneider che nessuno sopravvive alla guerra, neppure i vivi. La stessa lezione di Primo Levi, la stessa di Kertez, la stessa del del Diario di Anna Frank. Vale la pena ripassarla, con questo romanzo bello, ben scritto, troppo poco conosciuto ma davvero apprezzabile.

giovedì 10 dicembre 2015

La Chimera


Autore: Sebastiano Vassalli
Titolo: La Chimera
Genere: Romanzo
Anno di Pubblicazione:,1990
Recensione di: Chiara Bortolin

Nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla.



Potrei iniziare questo commento in molti modi: potrei dire che l’Autore è scomparso di recente o che questo libro è uno dei pochi Premi Strega a mia memoria che valga la pena di essere letto; potrei scrivere che è un romanzo storico esempio dell’infaticabile lavoro di documentazione per un Autore serio; potrei anche iniziare, come si dice, ex abrupto, con la trama.

Ma il valore del libro è nel libro e quindi, parto dal libro, o meglio dal titolo, che del libro è la chiave di lettura: La Chimera. Il titolo racchiude in sé il senso della complessità dei significati. Nel linguaggio comune, la parola chimera viene utilizzata per indicare un sogno con poca probabilità di essere raggiunto, non proprio un’illusione, ma un desiderio vagheggiato seppur perseguito. Nella mitologia la chimera era un mostro: testa di leone, corpo di capra, coda di drago, dalle sue fauci uscivano terribili fiamme che incendiavano la vegetazione.

Di primo impatto si potrebbe pensare che ci sia una contraddizione tra il significato della tradizione classica e il significato contemporaneo.

Se si legge il romanzo si comprende che non solo non vi è alcuna contraddizione, ma che anzi nella duplicità del termine si racchiude uno dei tanti aspetti dell’animo umano.

Tutti i personaggi di questa storia, che solo la penna straordinaria di Vassalli ha saputo addolcire in romanzo, inseguono una chimera.

Antonia, la protagonista, anela alla felicità. Dopo un’infanzia terribile, una preadolescenza migliore, aveva ben il diritto di sperare in un futuro di libertà e amore.

Il Vescovo Bascapè insegue il suo sogno di un mondo senza peccato; Biagio, lo scemo del villaggio, vorrebbe solo un po’ d’affetto; Don Teresio vorrebbe che i suoi parrocchiani pagassero le decime con puntualità e con senso del dovere; la gente, l’opinione pubblica, la maggioranza vorrebbe solo poter avere requie, trovare una causa ai propri mali e dunque una soluzione a essi.

Ogni anelito chiaramente comporta che ogni personaggio si adoperi attivamente per fare del sogno personale uno scopo, un obiettivo raggiungibile, una realtà. Quello che disvela l’Autore è che la chimera è un mostro: il sogno di alcuni può diventare una tragedia per altri. Ma se un sogno diventa un incubo, verrebbe da chiedersi, forse è il sogno che è sbagliato. L’autore non si sbilancia: mette tutto lì, nel romanzo, date, nomi, luoghi. Gli storici non fanno la morale.

Si possono leggere molte interpretazioni di questo libro: viene definito un romanzo sulla caccia alle streghe, viene definito un libro sull’Inquisizione, una storia che tratta della superstizione e del pregiudizio, del fervore religioso e dell’integralismo, della miseria e della crudeltà. Sono tutti temi presenti, innegabile, e su ciascuno di essi si potrebbero scrivere pagine e pagine, mai belle quanto l’originale.

Ogni approccio però, se preso singolarmente, rischia di oscurare il significato primo: la chimera, una volta raggiunta, potrebbe apparire nella sua veste originale. Il mito della chimera si conclude con la sua uccisione per mano di un eroe. Nel romanzo di Vassalli, come nella Storia, ci si deve accontentare degli uomini, che sovente, pur ritenendosi eroi sembrano assumere essi stessi le vestigia di una chimera.

giovedì 3 dicembre 2015

Il Secolo Breve

Titolo: Il Secolo Breve

Autore: Eric Hobsbawm

Anno di pubblicazione: 1994

Genere: saggio

Recensione di: Chiara Bortolin

La ragione di questa impotenza non sta solo nella profondità e complessità delle crisi mondiali, ma anche nel fallimento apparente di tutti i programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano.

Questa frase non l’ha scritta ieri qualche opinionista con velleità da intellettuale, ma si trova, quasi come un inciso, verso la conclusione di questo saggio, Il Secolo Breve, scritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm nel 1994.

Sebbene io consideri questo testo fondamentale dal punto di vista della metodologia storica, non avevo mai pensato, fino a oggi, di presentarlo nel blog. Le ragioni sono diverse: la mole, tanto per cominciare, che ironicamente contraddice al titolo; la lettura, che non consente di rubare qualche minuto mentre si attende l’autobus; il tema, l’analisi del secolo passato, che non offre grandi spazi di sintesi.

I fatti recentemente accaduti in Francia, la nuova tensione tra Russia e Turchia, l’incapacità degli Stati Europei di comportarsi da Europa Unita, mi hanno però fatto ricredere. Soprattuto in considerazione della pletora di opinioni spacciate per verità che per giorni sono state sciorinate con la pedante imperfezione dei dilettanti.

Il Secolo Breve, terzo volume di una più ampia ricerca a cui l’autore si è dedicato, offre una ricca ricostruzione dei fatti, delle connessioni, delle possibili letture degli accadimenti che si sono succeduti nel Novecento.

Il titolo rimanda già a una interpretazione: per Hobsbawm il Novecento inizia nel 1914, con la prima guerra mondiale, e si chiude nel 1991 con il crollo dell’Unione Sovietica. Questo lasso di tempo viene ulteriormente suddiviso in tre blocchi: l’età dei grandi cataclismi, dal 1914 al 1945; l’età dell’oro, dal 1946 al 1973, l’età della frana, dal 1974 al 1991. 

La visione dello storico britannico è ad ampissimo spettro perché tenta di analizzare e riallacciare un numero considerevole di eventi, fenomeni sociali, innovazioni tecnologiche, che hanno investito tutto il mondo.

Questo tentativo è già di per sé molto interessante, perché la tendenza comune è considerare singoli settori, singoli argomenti o singole aree geografiche. Hobsbawm cerca di dare un’impalcatura concettuale all’interno della quale sia successivamente possibile incastonare approfondimenti.

Non per nulla, oltre al suo studio, lo Storico offre ai suoi lettori una lunga ed esaustiva bibliografia e che è un eccellente strumento per applicare la famosa legge libro chiama libro, con la certezza di essere ben consigliati. 

Hobsbawm è uno storico e, come tutti gli storici di intelligenza, dichiara onestamente la differenza tra fatto e interpretazione, tra una possibile interpretazione e una verità oggettiva. La sua formazione, improntata al materialismo storico, lo induce a una visione piuttosto negativa del futuro, ben consapevole che le previsioni sono sempre destinate a essere fallaci.

Conoscere il passato non consente di prevedere il futuro, talvolta non consente nemmeno di comprendere il presente, ma indubbiamente offre altri vantaggi: il primo è avere un approccio critico alle opinioni che si sentono; il secondo è attribuire una dimensione storica, vale a dire temporale, ai fatti e non considerarli nel contingente; il terzo è realizzare che la storia finisce dove inizia la cronaca.

Per il Poeta T.S. Eliot “il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo”. Il secolo breve è finito in tutti e due i modi

venerdì 27 novembre 2015

Mai più Femminicidio

Il 25 novembre c'è stata la Giornata contro la Violenza sulle Donne: ci sono state trasmissioni tv, film, convegni dedicati a questo tema. Come sempre sono stati riportati i dati e le stime di questo fenomeno sociale e come sempre è rimbalzata di bocca in bocca, di articolo in articolo, la parola Femminicidio.
Ecco, io mi fermo qui: io odio questa parola. E' di una bruttezza che rasenta l'osceno perchè il contenuto che trasmette, se possibile, è ancora più brutto del suo significato.
Prima di tutto è brutta la sua genesi linguistica. Il sostantivo femmina si usa in due contesti: nel linguaggio scientifico per definire il genere biologico; nel linguaggio infantile, quando i bambini iniziano a dividere in categoria il mondo.
Femmina non è neanche lontanamente equivalente a donna. Femminicidio significa letteralmente uccisione di una femmina, il che è molto lontano dal descrivere l’omicidio di una donna.
Di per sé poi questa parola è del tutto inutile,sia da un punto di vista linguistico sia da una un punto di vista giuridico, dal momento che esiste già un termine, uxoricidio, che esprime esattamente il concetto di un marito che uccide la moglie. L’unico motivo per cui può essere stato coniato un termine così sciatto è che si considera la pubblica opinione fondamentalmente ignorante e incapace, per cui, come erroneamente si fa con i bambini, invece di spiegare la complessità dei fenomeni, si semplificano le parole, tradendo sia i fenomeni, sia le parole.
Come non bastasse, femminicidio rappresenta una contraddizione in termini: coniata per denunciare un fenomeno sociale che si basa sulla discriminazione di genere, trae le sue origini dalla stessa presunzione di differenza di genere.
Dulcis in fundo, si riduce la storia di una persona al suo epilogo, al suo essere vittima, nulla più. Tutta la ricchezza che questa persona ha portato in sé non conta più niente, sepolto non solo dalla violenza del gesto ma della riduzione con cui il gesto viene descritto.
Se si vuole davvero lavorare per ridurre questo fenomeno, il primo passo è tornare a chiamare gli elementi con i loro nomi, cercando di essere il più precisi possibile, perchè la verità delle spiegazioni passa dalla correttezza delle parole. Non ci sono belle parole per esprime un dramma, ma ci sono brutte parole che lo aggravano: femminicidio è una di queste.
Se non si può intervenire direttamente nel ridurre la violenza dei fatti, si può però evitare la violenza delle parole. Mai più femminicidio.

venerdì 20 novembre 2015

Il Manifesto del Partito Comunista

Titolo: Il Manifesto del Partito Comunista

Autori: Karl Marx e Friedrich Engels

Anno di pubblicazione: 1848

Genere: Saggio

Recensione di Chiara Bortolin

Prima di tutto, io non sono mai stato marxista. Queste si narra siano state le ultime parole di Marx. Scrivo questo perché mi pare essere una premessa metodologica importante se ci si accinge a leggere questo testo per la prima volta.

E se si prende in mano questo libro per la sua fama, magari con il desiderio di approfondire un argomento, è bene sgomberare la mente da tutta una serie di luoghi comuni.

Punto numero uno: Marx non era un politico, ma un economista. Punto numero due: Marx era un teorico, non un rivoluzionario. Punto numero tre: Marx non si è mai rivolto al popolo, ma alla ristretta cerchia di intellettuali europei che nei salotti e nelle riviste dibattevano di filosofia.

Punto numero quattro, fondamentale, l’opera di Marx si può dividere in due parti: l’analisi e la profezia. L’analisi che fa Marx dell’evoluzione sociale legata all’evoluzione della distribuzione delle ricchezze è la vera teoria dirompente e illuminante. La profezia, ovvero, ciò che Marx considerava, sul lungo termine, l’evoluzione futura delle condizioni che aveva considerato non si realizzò, né per portata né per qualità.

Non che sia un torto di Marx, anzi, è una costante: gli intellettuali, gli studiosi, i filosofi, anche più brillanti, hanno sempre espresso la loro bravura nel comprendere il passato, l’eccezionalità nel comprendere i propri tempi, ma hanno sempre preso cantonate nel prevede il futuro. Talvolta ce ne si dimentica.

Infine, è necessario avere profondità storica. Il Manifesto fu scritto nel 1848. Se si rispolvera qualche nozione di storia, si può immaginare l’Europa del tempo. Tanto per dire: l’Italia non era uno Stato Unitario, in Francia si combatte la cosiddetta terza rivoluzione francese che porta alla proclamazione della Repubblica, in Inghilterra era iniziato il Regno vittoriano.

Il grande cambiamento che Marx comprende riguarda l’economia. Marx constata che la distribuzione della risorse è definibile nei secoli come un rapporto basato sulla ricchezza di pochi e la povertà di molti, in un rapporto dialettico di oppressori e di oppressi, ovvero che la storia è leggibile come una storia di lotte di classe. Ogni grande scarto storico, ha comportato una ridefinizione delle classi sociali oppure la loro cessazione.

Con l’avvento dell’epoca moderna, un insieme di fattori ha però comportato un grande mutamento nel determinare la distribuzione della ricchezza. Nella dialettica tra aristocrazia e plebe, si inserisce una nuova classe sociale, la borghesia, che sconvolge gli equilibri, o squilibri, resistenti.

Questa nuova classe non gode di una ricchezza da perpetuare, come l’aristocrazia, ma gode di una ricchezza che produce. La borghesia crea ex novo la ricchezze e la sua forza non è nella tradizione, ma nel denaro, nel capitale.

In questa cornice, anche le classi subalterne subiscono un mutamento, creando un corrispettivo alla borghesia, il proletariato, ovvero chi ha come unico bene la propria prole, che rappresenta forza lavoro.

L’analisi strutturale che Marx descrive è molto articolata, ma punto focale è la constatazione che a determinare gli assetti sociali non è più il potere così come conosciuto fino ad allora, ma l’economia, non la politica, ma il denaro, non la dialettica del diritto, ma della capacità di influenzarlo.

Marx non immaginava nulla di ciò che accadde successivamente alla diffusione delle sue idee: non poteva prevedere che le sue idee non gli sarebbero più appartenute, non immaginava che sarebbero state tradotte in attuazioni pratiche, tanto meno avrebbe potuto immaginare che venissero istituiti dei regimi che lo avrebbero messo a baluardo.

Con una punta di cinismo, Marx fu vittima del concetto cardine che aveva teorizzato: tutto è deciso dall’economia. E nell’epoca storica che lui stesso aveva definito capitalista molti impararono rapidamente la lezione, altri la fraintesero, altri la rifiutarono. Ma se si getta uno sguardo indietro, se si prova a ricordare un po’ la storia, probabilmente aveva buon diritto a proclamare di non essere mai stato marxista. 

Nota:
Il testo è disponibile gratuitamente on line. Si consiglia tuttavia, in prima lettura, di acquistare un'edizione critica, che assicuri una traduzione fedele e che sia corredata da una spiegazione introduttiva, preferibilmente curata da storici.

giovedì 12 novembre 2015

Fahrenheit 451



Titolo: Fahrenheit 451

Anno di pubblicazione: 1953

Genere: romanzo

Recensione di: Chiara Bortolin

Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d'orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia

Se sei uno di quelli che con i libri ha fatto a cazzotti, che sogna segretamente di commemorare la prematura dipartita della Prof d’italiano con un rogo di appunti, che ha giurato di non mettere mai più piede in biblioteca per via di un adolescenziale due di picche, questo libro fa per te.

Fahrenheit 451 è un libro pacificatore per due motivi: per come è scritto e per il suo contenuto. Iniziamo dalla scrittura: semplice, pulita, scorrevole. Fa di tutto per farsi leggere questo romanzo e si presta a essere letto con leggerezza. Puoi portartelo dietro nella versione tascabile Mondadori o scaricare un formato digitale: ti scoprirai a scorrere le righe, di nascosto dal tuo risentimento.

Il contenuto: Fahrenheit 451 è un libro che tratta dell’assenza di libri! E tanto per appagare il tuo desiderio di pareggiare i conti, il protagonista è un pompiere che ha il compito di bruciare i libri, tutti i libri, casa per casa, libreria per libreria. Ondate di fiamme ad avvolgere la cartacea materia!

Potrebbe poi accadere che, ecco, a un certo punto, tu sentissi che quel rumore di carta che crepita, inizi ad assomigliare al fruscio delle pagine che scorrono e che questo fruscio ti sussurri qualche altro pensiero.

Potresti per esempio cogliere te stesso di sorpresa mentre pensi che esiste una relazione tra il possedere libri e la libertà di pensiero; che esiste un nesso tra informazione e potere; che il progresso dell’umanità è legato al sapere. Dico, così per dire. 

E sempre così per dire, potresti rispolverare qualche lezione di italiano o di inglese, in cui, ti sembra, si parlasse di utopie e di distonie, George Orwell o Thomas More. Potrebbe venirti voglia, ti avviso, di togliere quel dito di polvere dallo scaffale dei libri di scuola o, più discretamente, per non destare sospetti, potrebbe venirti voglia di digitare su un motore di ricerca frammenti: guerra fredda, maccartismo, guerra nucleare. Sempre, così, tanto per dire.

Potresti scoprire che il futuro immaginario in cui il libro è ambientato assomiglia terribilmente a un passato non troppo remoto della nostra storia, ma anche a un presente da servizio di cronaca del telegiornale. Potresti realizzare che in fondo la fantasia degli scrittori trae sempre origine dalla realtà degli uomini.

E qualora fossi costretto ad ammettere, alla fine, che ti è piaciuto, hai anche buoni elementi a discolpa. E’ solo un libro di fantascienza, non è vera Letteratura. Mica lo fanno studiare a scuola: hai mai letto su un manuale di storia della letteratura di questo autore? Mica ne parlano quelli che ne sanno. E’ solo un divertimento! 

Non lo avresti mai detto, ma in fondo, dovrei ammettere che leggere, questa volta, ti è piaciuto. 

giovedì 5 novembre 2015

Lettera al padre


Autore : Franz Kafka

Titolo: Lettera al Padre

Anno di stesura: 1919

Anno di pubblicazione: 1952

Genere: Lettera




Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di aver paura di te. Come al solito, non ho saputo risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché anche nello scrivere mi sono d'ostacolo la paura che ho di te e le conseguenze, sia perché la vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare a fronte della statura dell’Autore, Lettera al Padre non è un romanzo o una finzione letteraria, ma è esattamente quello che il titolo dichiara: una lettera privata.
Nella storia della letteratura, sono moltissimi gli epistolari che sono stati pubblicati, le raccolta di corrispondenza tra autori, materiale dall’altissimo contenuto storico e culturale che viene utilizzato dagli studiosi per ricostruire il contesto in cui glia autori si confrontavano. Lettera al padre è però un altro tipo di scritto: è proprio una lettera che un figlio scrive al padre.
C’è sempre un che di imbarazzante, nel conoscere le vicende familiari di altre persone; sembra un gesto indiscreto, una sorta di intrusione nella vita privata altrui, una violazione dello spazio interiore e quindi si è portati a leggere queste poche pagine con pudore.
Kafka scrive al padre, poco prima di morire, come fosse una sorta di bilancio della relazione. Si capisce fin dalla seconda riga che il bilancio non è positivo. E sorprende la semplicità delle parole scelte da Kafka, autore di altissimo livello, per esprimere i propri sentimenti. Questo è il primo regalo che fa Kafka ai suoi non voluti lettori: dimostrare che la complessità dei significati, talvolta, necessita della semplicità delle parole.
Il secondo regalo che fa Kafka è la profonda analisi interiore del dolore causato da un cattivo genitore. Il Kafka Figlio della lettera riesce a esprimere i complessi sentimenti di tutti i figli maltrattati. Emergono con chiarezza il senso di solitudine, il senso di inadeguatezza, il senso di inferiorità davanti a un Padre che sembra gigantesco. Emerge il senso di colpa, che è ormai un classico della letteratura pedagogica, del Figlio che in qualche modo ritiene di meritare le angherie a cui è sottoposto. Infine il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, il desiderio sempre rinnovato e sempre deluso di instaurare un rapporto sano, la frustrazione dei condizionamenti che il disamore provoca.
Tu possiedi, credo, un talento educativo; a un individuo del tuo stampo avresti potuto sicuramente giovare, avrebbe riconosciuto la ragionevolezza di quanto gli dicevi, non si sarebbe preoccupato d’altro e si sarebbe tranquillamente comportato di conseguenza. Ma per me bambino tutto ciò che mi intimavi era comandamento celeste, non lo dimenticavo mai, restava per me il metro più importante per giudicare il mondo, soprattutto per giudicare te stesso, e qui fallisti completamente.
Nonostante l’Autore non avesse nessuna velleità letteraria in questo scritto, la sua grandezza narrativa elevata questo gesto privato a icona. Ancora più grande perché intima, lontana dai condizionamenti culturali che la psicologia avrebbe importato nella letteratura decenni dopo, estranea a ogni intenzione di suscitare interesse, se non verso il destinatario.
Freud individuò il concetto di padre – padrone e dopo di lui Jung e Melanie Klein e decide di altri studiosi ancora oggi cercano di identificare i sintomi, le dinamiche, le eventuali terapie che riguardano i cattivi rapporti tra figli e genitori. In qualunque libreria sono a disposizione testi di ogni genere e qualità, per addetti e lavori e per profani. Sono stati realizzati decine di film che hanno eviscerato e declinato il tema in tutte le sue versioni.
Lettera al Padre resta un’ineguagliabile testimonianza di ciò che comporta questa tragedia personale. La sospensione del tempo è il terzo regalo perché grazie alla penna di uno Scrittore straordinario si ha chiara la sofferenza di ogni bambino non amato che, in ogni epoca e in ogni luogo, non si sentirà mai in grado di diventare un uomo.
La tua sfiducia negli altri infatti non è pari alla mia sfiducia in me stesso, a cui tu mi hai educato.

venerdì 30 ottobre 2015

Cuore

Titolo: Cuore

Autore: Edmondo De Amicis

Anno di Pubblicazione: 1886

Genere: Romanzo

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: – Dunque, Enrico, siamo separati per sempre?

Disse di De Amicis Benedetto Croce: Non artista puro, ma moralista. Il Carducci, che lo soprannominava Edmondo dei languori, non fu più benevolo: Ha messo la tenerezza dove non c’era ragione pura e la soavità della buona promessa dove non c’era che un ansito di lotta. Artificioso, mediocre, stucchevole erano gli aggettivi più garbati che le recensioni riservarono a Cuore. De Amicis, serafico, si limitò a rispondere alla marea di critiche che sembrava sommergere la sua carriera I grandi scrittori destano meraviglia, l’entusiasmo; gli altri solo simpatia. Ebbene anche far nascere simpatia mi sembra un effetto che giustifichi un libro. Perché il grande dovrebbe escludere il piccolo? Il bellissimo escludere il grazioso?

Che Cuore non sia un capolavoro della letteratura è inopinabile, ma è altrettanto evidente che l’Autore non si proponeva di scrivere un romanzo di altissimo livello letterario, Lo dimostrano anche le scelte stilistiche. Prima di tutto De Amicis scelse un genere letterario, il diario, che di per sé non ha proprio nulla di nobile. Fosse almeno stato un epistolario, via, una possibilità ci sarebbe stata, ma il diario è già uno taglio minore. Per giunta, l’espediente del narratore in prima persona è affidata a un bambino: tanto valeva buttare il calamaio dalla finestra. Un bambino non ha proprio nulla da insegnare al mondo! I temi, poi: la vita quotidiana di bambinetti, la scuola elementare, le letterine di mamma e papà, i racconti mensili di eroismo infantile.

Io mi immagino il Croce, che si dedicava al dilemma tra contenuto morale dell’estetica e il contenuto estetico della morale, che si immerge nella lettura di queste banalità!

Resta l’onestà che si chiede a uno scrittore: di mantenere la promessa fatta, di rispettare il tacito accordo con il lettore. De Amicis scrisse un libro che si proponeva di educare le giovani generazioni, di ispirare un amor patrio che non esisteva, in quanto la Patria era neonata, di instillare alcuni valori civili, di condivisione e di appartenenza a una collettività. Il libro era, per sua stessa natura, rivolto ai bambini, lo lessero in massa anche gli adulti!

Tanto severo sprezzo per un libro per l’infanzia da parte dei detentori del sapere pare persino eccessivo. Un libro per bambini, letto anche dai grandi, tutto qui. Come se gli adulti, poi, leggessero sempre libri di alto profilo! Non succedeva a fine Ottocento più di quanto non succeda ora!

Al netto di queste considerazioni, personalmente l’ho riletto con molta tenerezza, Cuore. Prima di tutto perché nonostante l’italiano desueto, resta una narrazione semplice, snella, pulita. In secondo luogo perché, pur nell’assenza di profondità psicologica, i caratteri stilizzati dei personaggi hanno un che di familiare e di esperito: abbiamo avuto tutti un compagno spilorcio, un compagno di eccezionale bravura, un compagno buono fino a sembrare babbeo. E i sorrisi bonari che la lettura ci strappa, vanno oltre il giudizio critico.

De Amicis credeva che fosse possibile creare un’Italia unita non solo geograficamente; che si potessero creare, attraverso la scuola e la famiglia, dei cittadini leali, nei confronti dello Stato e degli altri Cittadini; credeva che potesse esistere un mondo in cui l’uguaglianza si fondava sul rispetto delle diversità, fossero questo sociali, economiche, culturali.

Cuore ebbe un enorme successo alla sua uscita e rimane uno dei libri della letteratura italiana più venduti e più tradotti. Un bella storia di buoni sentimenti, di virtù premiate e cattiverie punite: una favola, insomma, che tutti noi adulti, non solo i grandi Scrittori, sappiamo essere lontana dal vero, ma che regala un po’ di dolcezza, senza pretese.

venerdì 23 ottobre 2015

Alda Merini; una vita per la poesia

Veleggio come un ombra
nel sonno del giorno
e senza sapere
mi riconosco come tanti
schierata su un altare
per essere mangiata da chissà chi.
Io penso che l'inferno
sia illuminato da queste stesse
strane lampadine.
Vogliono cibarsi della mia pena
perchè la loro forse
non s'addormenta mai.




E questa è Poesia. Potrei argomentare perché e per come, tecnicamente, si può affermare che questa sia Poesia, ma gli elementi retorici, che esaltano chi conosce una materia, solitamente annoiano chi della medesima vuol cogliere solo la bellezza.


La bellezza ha il pregio di chiarirsi da sola: è una sorta di malia, un istinto innato, un’intuizione. Succede questo con la Poesia perché si rende un distillato d’esperienza, una narrazione universale, un itinerario nell’animo degli uomini. I temi di cui un singolo componimento tratta sono sempre goccioline di questo distillato di vita. Per ciò la Poesia è familiare anche quando non la si studia per professione.


Alda Merini trattò nella sua vita di artista diversi temi: la mistica, la malattia mentale, il rapporto con il mondo, la bellezza, la sofferenza, la solitudine e l’amore. La sua voce, che appare con un sussurro orfico, è la rassicurante dolcezza di una veggente. Gli autentici Poeti spingono così a fondo il proprio sguardo nell’abisso umano che l’orizzonte sembra dissolvere.


E molte volte ci si dissolvono anche loro, perché non scelgono ma semplicemente vivono, la Poesia. Si può decidere di fare il cardiochirurgo, il muratore, anche lo scrittore, ché d’ottimi mestieranti della penna sono carichi i pallet, ma non si sceglie la Poesia: si è Poeta. Se così non fosse, bisognerebbe essere veramente folli per augurarsi la Poesia, la quale pretende l’abdicazione dalla propria esistenza per comprenderne l’essenza. Tanto più che di buono, l’essere Poeta, ha veramente poco. Certamente non si campa di quello, ché anzi i Poeti sono soliti spuntare il proprio intelletto per apparecchiare la cena. Certamente non si è Poeti per il successo: i Poeti vendono meno libri delle nobili suggeritrici di raffinate ricette per le patate lesse. E sicuramente non si è Poeti per la gloria, che se arriva, molto spesso lucida soltanto i solchi delle lettere scolpite sui marmi delle lapidi.


Alda Merini non scelse di fare il Poeta più di quanto non scelse di soffrire di un disturbo bipolare o di ammalarsi di sarcoma. Fu Poeta perché non poteva essere altro. Lei stessa affermava la frustrazione dello scrivere, del dover inchiodare le parole su carta, quando queste sarebbero potute essere semplicemente un volo di farfalla. Tant’è che in molte raccolte dei suoi componimenti non c’è un ordine cronologico, ma tematico, ricostruito a posteriori dai curatori. 


Diceva Catone: Rem tene, verba sequentur, che si può tradurre con: se possiedi il concetto, le parole verranno da se stesse. Per questo le parole sono supreme per i Poeti: le parole sono la forma significante del pensiero e poiché il loro pensiero è l’essenza dell’esperienza, la parola può prendere una e una forma soltanto.


La bellezza che i Poeti liberano è la loro condanna: un perenne esilio dai cicli del giorno, un’incolmabile solitudine, un eccesso di vita che li estranea da se stessi. La Poesia, in fondo, è un lungo addio.

Ho la sensazione di durare troppo, di non riuscire a spegnermi: come tutti i vecchi le mie radici stentano a mollare la terra. Ma del resto dico spesso a tutti che quella croce senza giustizia che è stato il mio manicomio non ha fatto che rivelarmi la grande potenza della vita. 

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero