sabato 17 dicembre 2016

Storie, fatti e fattacci di Torino

Titolo: Storie, fatti e fattacci di Torino
Autore: Renzo Rossotti
Anno di Pubblicazione: 1996
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

Ci sono fatti che, nel momento in cui accadono, occupano le pagine dei giornali, diventano argomento di conversazione, di disputa nei caffè e si immaginano indelebili nella memoria. Naturalmente così non accade e la maggior parte della cronaca si dissolve nel tempo, consegnando alla Storia solo una rarefazione di essa.
Ciò non impedisce a un appassionato di fare qualche ricerca e di restituire al lettore contemporaneo racconti di antica data, ma di attuale interesse. E’ questa l’operazione che compie Rossotti nel raccogliere storie riguardanti vari aspetti di Torino.
Il libro espone in brevi capitoli racconti curiosi, come per esempio la testimonianza dei padroni della stanza affittata da Nietzsche quando soggiornò nel capoluogo piemontese; oppure la ricostruzione della curiosa passione di Lombroso per l’esoterismo o ancora la ricostruzione di casi delittuosi che godettero di notevole attenzione nei secoli passati.
Le vicende narrate sono un gradevole pretesto per ricostruire nell’immaginario una città che nel tempo è stata più volte ristrutturata. Si ripercorrono così vie che non esistono più, si respirano atmosfere di un tempo lontano, si attribuisce un significato nuovo a luoghi che ancora esistono, più usurati dall’abitudine che dagli anni trascorsi. 
L’Autore usa uno stile da narratore di aneddoti, più che da saggista, e questa scelta conferisce un tono familiare e avvolgente ai racconti, facendo facilmente perdonare al lettore qualche riga un po’ più ampollosa. 
Altro aspetto interessante, un merito da tributare all’Autore, è il saper trasmettere un tratto peculiare di Torino, una mentalità condivisa, che resiste nel tempo, un modo di procedere che definirei sabaudo. 
Si trova, questo modo di essere torinese, nei caffè storici, nei salotti ovattati dei palazzi d’epoca, negli ambienti eleganti e austeri dei musei, nelle chiacchiere sottovoce dei passanti, nell’operosità degli artigiani, nello spirito laborioso e geniale di tante esperienze artistiche. 
Non c’è nulla di arrogante in questo orgoglio torinese, ma solo la consapevolezza di essere una città con grandi risorse, un laboratorio di ingegni, un luogo di cultura, che nei secoli ha dato vita a grandi personaggi e che ne ha attirati da tutto il mondo.

Un saggio piacevole, da leggere con simpatia e da regalare senza tema di brutte figure, a dispetto dell’edizione economica. Un libro che, in pieno spirito sabaudo, mantiene più di quanto promette. 

sabato 10 dicembre 2016

Le élite imparino l’umiltà o il populismo sarà trionfante

Autore: Stephen Hawking
Anno di Pubblicazione: 2016
Genere: Articolo
Recensione di: Chiara Bortolin
Pertanto faccio parte senza dubbio di quelle élite che recentemente, in America e in Gran Bretagna, sono oggetto di un inequivocabile rigetto. L’elettorato britannico ha deciso di uscire dall’Unione Europea, i cittadini americani hanno scelto Donald Trump come prossimo presidente.

E gli italiani hanno votato no a un referendum il cui contenuto costituzionale è stato pressoché ignorato a favore di un significato politico. 
l motivi per cui ho scelto di commentare questo articolo di Hawking, di cui il Lettore può leggere la versione integrale cliccando sul link del titolo, sono diversi.
Il primo è che trovo significativo che un’eccellenza della fisica si esponga in prima persona per esprime un’istanza politica. E’ mia viva speranza che questo sia di esempio ad altri esponenti illustri del mondo del sapere, che negli ultimi anni hanno abbandonato la scena pubblica a favore dei propri luoghi di studio e al più a qualche pubblicazione divulgativa. E’ ora che le menti più brillanti del genere umano tornino a prendere posizione in materie che esulano dalle loro ricerche, ma che hanno su di esse un inevitabile impatto negativo.
Il secondo motivo è che il tono appassionato ma pacato con cui il Fisico si esprime rammenta che si possono prendere posizioni ferme, senza brutalità verbali.
Il terzo motivo è che l’amore per il sapere non è mai esclusivo: ci si può orientare, se si è fortunati, specializzare, in un ambito della conoscenza, ma questa scelta non è escludente. Chi ama la cultura riconosce ogni forma di ingegno, lo esalta e si emoziona per i suoi successi in qualunque sfera dello scibile esso si manifesti.
In ultimo, ma primo per importanza, vanno sottolineati i concetti espressi con semplicità da Hawking.  L’articolo si apre con una constatazione: è evidente che sia in atto rifiuto nei confronti delle élite e che questo rifiuto stia dilagando. Seconda evidenza: queste masse hanno trovato interpreti che le hanno guidate nel dare forma compiuta alla protesta attraverso l’espressione di voto.
L’Autore si pone il dubbio di come le élite reagiranno di fronte a queste prese di posizione, a maggior ragione in considerazione del fatto che le cause scatenanti questo malcontento sono ormai inarrestabili e che le soluzioni, se ci sono, non sono di immediata attuazione. Non solo, è prevedibile, a detta di Hawking, che le disuguaglianze siano destinate ad aumentare. 
Ad aggravare la percezione delle differenze è intervenuto in modo determinante il diffondersi delle informazioni attraverso internet, che rende tutto noto in tempo reale, tutto più ampiamente visibile, tutto massificato. 
L’articolo si chiude con un elenco di problemi da affrontare, per il bene di tutti, e con un accorato appello alla cooperazione. 
I temi esposti sono di largo interesse e ciascuno di essi meriterebbe di essere sviluppato in tavoli di confronto. Mi permetto qui di sottolineare tre aspetti a me particolarmente cari, il primo di ordine storico, il secondo di ordine sociale, il terzo di ordine comunicativo.
Per quanto concerne la Storia, non è certo la prima volta che le masse si sollevano contro il potere costituito. A mia memoria, non è mai accaduto che questi moti si siano conclusi pacificamente. 
Per quanto attiene la questione sociale, è mia opinione che il concetto di élite andrebbe scorporato in almeno due grandi categorie: un conto sono i detentori del potere, un conto sono i detentori del sapere. 
Se non si effettua almeno questo distinguo, si offre agio ai sobillatori di mettere sullo stesso piano un affarista senza scrupoli e un ricercatore scientifico. Che coloro che studiano, si impegnano e investono, come Hawking, la loro vita a vantaggio del genere umano siano confusi con uno sfruttatore della povertà è indegno prima che scorretto. Che poi anche alcuni, non tutti, non la maggioranza, dei detentori del sapere abbiano accesso a risorse economiche importanti non può in nessun caso essere motivo di ostilità. L’invidia sociale non ha bisogno di ragioni, si alimenta di luoghi comuni, che come è noto, sono lontani dalle accademie.
Infine, l’aspetto relativo alla comunicazione. Internet e le sue varie applicazioni sono un eccellente strumento di diffusione del sapere, ma sfortunatamente anche dell’ignoranza. Contrariamente a quanto affermano soggetti interessati e coinvolti, la diffusione di internet non ha affatto reso più democratica l’informazione o l’accesso a essa. Il fatto che ciascuno possa rispondere a un post di un politico o possa condividere un pensiero con un numero di persone mediamente più elevato di quanto effettivamente ne conosca, non fa che appiattire il significato di tutto ciò che viene diffuso, in un marasma dove il singolo si incontra o si scontra con un altro, all’interno però di un contenitore che è di proprietà di un terzo.
Sebbene io mi ritenga un’ottimista, in questo contesto non ho ragione di credere in una soluzione rapida e indolore dei disagi collettivi. Piuttosto inizio a credere che questa insistente evocazione di democrazia stia assumendo i rigidi contorni di un insieme chiuso, in cui la Democrazia medesima non verrà però ammessa.

E’ mio auspicio che menti brillanti, come Hawking,  continuino a proporre soluzioni che io non posso intravedere, perché in ogni caso, in ogni tempo, le soluzioni consistenti sono sempre arrivate da uomini di ingegno.

sabato 3 dicembre 2016

Bullismo a scuola

Titolo: Bullismo a scuola
Autore: Dan Olweus
Anno di Pubblicazione: 1993
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

Philip si suicidò dopo essere stato sistematicamente preso in giro e umiliato tre compagni di classe. Gli erano stati rubati gli appunti il giorno prima dell’esame, che fu costretto a sostenere ugualmente, con esito negativo. Timoroso di raccontare tutto ai suoi genitori, Philip scelse la morte. Rincasò da scuola e si appese con una una alla porta della sua camera da letto.

La parola bullismo, anche nella sua forma più tecnologicamente avanzata, cyber bullismo, è ormai ampiamente ricorrente nelle cronache come nelle chiacchiere. Come sovente accade, la diffusione del termine non sempre corrisponde alla diffusione della conoscenza del significato, né tanto meno della conoscenza del fenomeno.
Capita così che s verifichi un paradosso: che si gridi al bullismo là dove non c’è e viceversa si taccia dove si verifica. Scrivo paradosso, ma di paradossale c’è solo la manifesta incapacità da parte degli adulti di assumersi le proprie responsabilità.
Da un lato si riscontra la tendenza a patologizzare ogni problema: una persona malinconia è immediatamente depressa; una persona presa in giro, è immediatamente discriminata; un inconveniente è un trauma. 
Dall’altro lato si minimizza ogni problema reale: una famiglia indifferente è annoverata come spartana, un insegnante vile viene definito discreto, un educatore negligente è oberato dal lavoro.
In questo guazzabuglio, il libro di Olweus è un utile strumento di approfondimento per chiunque si interessi di minori. Il testo si apre con la riproposizione di alcuni fatti di cronaca volti a d dare una dimensione concreta al fenomeno.
Nelle pagine a seguire, Olweus, con buona organizzazione del pensiero, va a dare alcune linee guida: definizione del fenomeno, attori principali e secondari, modalità di identificazione dei protagonisti e  indicazioni pratiche per prevenire, diagnosticare e intervenire. Il saggio, nella versione italiana, si chiude con uno studio svolto nel nostro Paese.
Dalla pubblicazione sono passati parecchi anni, manca in effetti una sezione riguardante la versione cibernetica del bullismo, oggi alla ribalta non solo nei per ciò che attiene ai minori. Nonostante ciò, l’analisi proposta è attuale, convincente e utile, perché la tecnologia è solo un mezzo attraverso cui esprimere la crudeltà, ma le dinamiche scatenanti non sono affatto diverse.
Il testo appare un vademecum prezioso per chi non abbia una formazione specifica in ambito psicologico, ma abbia a che fare con minori frequentemente. L’impostazione divulgativa ha il pregio di unire la teoria alla pratica, mediante molti esempi, aneddoti e fatti di cronaca. Questo naturalmente rende il testo anche scorrevole, fruibile anche ai non addetti ai lavori e di immediata comprensione.

Come tutto ciò che attiene all’animo umano, la comprensione è tanto maggiore quanto più il lettore è disposto a considerarsi un potenziale attore. Conoscere meglio il fenomeno del bullismo è utile in ogni caso:  per un verso a evitare inutili allarmismi, dall’altro lato a evitare che certe situazioni degenerino tragicamente . Con metodo, con cuore e, perché no, con un po’ di sano  bistrattato buon senso.

sabato 26 novembre 2016

Firmino - Le avventure di un parassita metropolitano

Titolo: Firmino
Autore: Sam Savage
Anno di Pubblicazione: 2006
Genere: Romanzo
Recensione di: Chiara Bortolin

Avevo sempre immaginato che la storia della mia vita, se un giorno l'avessi mai scritta, sarebbe cominciata con un capoverso memorabile: lirico come il «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi» di Nabokov o, se non altro, di grande respiro come il tolstojano: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». 

Firmino o Le avventure di un parassita metropolitano è l’autobiografia di un topo. La faccenda, lo so, si presenta assurda, ma se hai creduto che Biancaneve potesse vivere con sette nani, che a Pinocchio potesse crescere il naso e che Cenerentola sia stata salvata dal Principe Azzurro, leggere la storia di un ratto bibliofilo non dovrebbe esserti così estraneo.
La vicenda si svolge a Boston, in un quartiere, neanche a dirlo, in decadenza, in cui ancora sopravvive una libreria, una di quelle botteghe da rimpiangere, con un librario che legge e conosce i libri, che vende ciò che serve al cliente, che fa affari perché conosce il suo prodotto. Qui nasce questo brutto e goffo animaletto che, non si sa per quale motivo, ha un’intelligenza straordinaria, non solo per la sua specie.
Firmino si dibatte in questa contraddizione: un corpo da infestante urbano e una testa da umano, allontanato dalla famiglia dei topi perché stravagante, rifiutato dagli umani perché repellente.
Tutte le sue soddisfazioni sono racchiuse nei libri, di cui è un vorace divoratore, prima in senso letterale, poi in senso figurato. Nei libri Firmino trova non solo un’infinità di informazioni e conoscenze, ma anche la possibilità di immaginare e sognare un mondo migliore, trastullandosi nelle fantasie di umanizzazione e di accettazione.
Il romanzo può essere letto così: una malinconica, a tratti divertente, fiaba di un roditore che passa il tempo a sgraffignare avanzi di cibo, salvo poi immergersi nella cultura a tutto tondo.
Forse per questa sua leggerezza il romanzo ha avuto grande successo: perché si legge di gusto, con il trasporto emotivo che si riserva ai personaggi sfortunati o perché gli animali, anche i meno attraenti, se protagonisti di una situazione surreale ci stanno simpatici.
Questo però non spiega perché per farlo pubblicare, in prima edizione, l’Autore si sia dovuto rivolgere a un’associazione ne profit (sì, si dovrebbe dire così), da cui ottenne mille copie, rifiutato dalle case editrici importanti, quelle che, per intenderci, a successo garantito, ne comprarono i diritti.
E qui si entra nel campo delle congetture. Forse è che in fondo Firmino potrebbe essere un topo solo sulla carta, ma nella vita reale il personaggio potrebbe essere interpretato in altro modo. Per esempio: la metafora calza a pennello con tutti coloro che vivono degli avanzi altrui, sebbene di intelligenza superiore. Oppure si potrebbe pensare che chi si interessa di cultura sia destinato a risultare uno stravagante. Si potrebbe poi dare un’interpretazione in senso morale: sulla vacuità  della contrapposizione bellezza - bruttezza, sull’allontanare ciò che non ci piace senza nemmeno conoscerlo, sulla solitudine dell’individuo pur in presenza dei suoi simili.

Per correttezza, si dovrebbe poter interpellare l’Autore e chiedere direttamente quale significato volesse attribuire. In mancanza di questa possibilità, mi appello alle legge per cui ciò che viene scritto, una volta pubblicato, non appartiene più soltanto allo scrittore, ma diventa anche una proprietà del lettore, che con la propria intelligenza completa l’opera e contribuisce a inventare la storia di Firmino, il parassita metropolitano. 

sabato 19 novembre 2016

Mi dichiaro prigioniero politico

Titolo: Mi dichiaro prigioniero politico
Autore: Giovanni Bianconi
Anno di Pubblicazione: 2003
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

Io mi dichiaro prigioniero politico. Per la maggior parte degli appartenenti alla mia generazione e per i più giovai, questa frase non ha un significato particolare, ma se si chiede a qualcuno appartenente alla generazione dei  genitori, la faccenda cambia. Al pronunciare questa frase, i volti dei sessantenni cambiano espressione, gli sguardi si spostano, la conversazione si sospende.
La frase, da cui è tratto, con buona intuizione, il titolo del libro si riferisce alla dichiarazione standard che veniva pronunciata dagli aderenti al movimento delle Brigate rosse quando venivano tratti in arresto. Con questa affermazione i brigatisti intendevano esprimere la loro estraneità al potere costituito, il disconoscimento dell’Autorità e il rifiuto a collaborare con gli inquirenti. Di fatto la frase sanciva il silenzio di lì a venire.
L’Autore, dal canto suo, esprime fin dalla copertina, il punto di vista adottato nella sua ricostruzione storica delle Brigate Rosse ovvero il punto di vista di personaggi di spicco del movimento. L’approccio è interessante non solo perché offre all’Autore la possibilità di una narrazione scorrevole e meno impegnativa di un saggio, ma anche perché cerca di rispondere a una domanda sottintesa: perché?
La risposta, ormai sedimentata nel nostro patrimonio culturale, sgorga tanto spontanea quanto insoddisfacente e manipolabile. A seconda delle diverse sensibilità, può variare dal desiderio di sovvertire le istituzioni, al dare vita alla rivoluzione proletaria, al tentare di cambiare il mondo. Come tutte le frasi fatte, c’è una piccola verità avvolta in una nube di incompreso.
L’Autore cerca di andare alla fonte, ovvero di ricercare le motivazioni personali, i convincimenti di fondo, che spinsero un numero rilevante di persone a intraprendere la via della lotta armata. Bisogna riconoscere che il lavoro di ricerca è accurato: oltre alle testimonianze dirette, il Giornalista ha consultato la documentazione processuale e, naturalmente, le cronache. Il risultato è una ricostruzione biografica convincente e dettagliata.
Nella formula del racconto si restituisce ai protagonisti la soggettività della scelta, come dire che l’Autore intende comprendere ma con dovuto distacco. Nel mutare l’esperienza del giornalismo più autentico, Bianconi espone i fatti, così come li hai ricostruiti, che il lettore poi tragga le proprie conclusioni. Queste le storie individuali, questo il contesto, questo i risultati: non resta che mettere insieme i pezzi.
Mi dichiaro prigioniero politico è un buon testo, che consiglio ai giovani che non hanno memoria di ciò che accaduto per questioni anagrafiche, ma anche a chi era già nell’età della ragione ai tempi, per ricordarsi ciò che hanno imparato all’epoca. E soprattutto suggerisco questa lettura a tutti coloro che si riempiono la bocca di parole di cui non conoscono il significato quando diventa reale, ché a cianciare di rivoluzione, di eversione, di restituire al popolo il suo potere si hanno delle responsabilità. 

Le biografie esposte nel testo di Bianconi emergono nel loro fallimento individuale, ma non tralasciano di descrivere lo smarrimento collettivo che hanno causato e il silenzio imposto a coloro i quali, passati per gli autoproclamati tribunali del popolo, non se la sono cavata proclamandosi prigionieri politici.

sabato 12 novembre 2016

Elogio della fuga

Titolo: Elogio della fuga
Autore: Henri Laborit
Anno di Pubblicazione: 1976
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin


Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione. Forse conoscete quella barca che si  chiama desiderio.

Nonostante diverse persone me ne avessero suggerito la lettura e una si fosse anche presa la briga di regalarmelo, per anni questo libro è rimasto nella mia colonna di libri che forse un giorno leggerò. Il motivo è semplice: provo un’immediata antipatia alla parola fuga.
Devo ammettere che questa avversione è del tutto personale e nasce da un’associazione tra la parola fuga e un suo significato parziale ovvero a un atteggiamento di codardia che spinge l’individuo a sottrarsi a doveri o a  responsabilità. Ho scritto parziale perché a voler essere onesta, il significato della parola fuga non contiene in sé nessun connotato morale e la realtà insegna che a volte la fuga è non solo legittima, ma necessaria.
Nel testo di Laborit la parola fuga assume un significato positivo in quanto si riferisce all’allontanarsi dall’infelicità. La tesi sostenuta dallo scienziato francese è che ogni uomo sia profondamente infelice e la causa di questa condizione è che nessuno può soddisfare i propri bisogni, materiali o emotivi, così come questi si manifestano.
La soddisfazione di una necessità avviene sempre mediante una rinuncia a qualche altro aspetto. Per la propria sicurezza l’uomo ha imparato a essere socievole, per la propria sopravvivenza ha accettato di condividere le risorse e per migliorare la propria condizione si è piegato a faticare.
La maggior parte degli uomini, sia chiaro, non si pone alcun problema; altri si adattano più o meno benevolmente; una ristretta minoranza tenta di evadere. Laborit identifica, nella storia dell’umanità, tre via di fuga: la creatività, la follia, la dipendenza. Da questo punto di vista il pensiero non è particolarmente originale, dal momento che già in tempi più remoti si era vista nella produzione artistica, nella psicopatologia o nel vizio una sorta di elusione della sofferenza umana.
Originale è l’analisi che l’Autore presenta nell’applicare un metodo e delle competenze scientifiche a un campo tradizionalmente riservato alle materie umanistiche. Il testo viene elaborato sezionando diversi ambiti della vita quotidiana - il lavoro, l’amore, la cultura - ed evidenziando per ciascuno quali elementi renderebbero l’uomo felice, quali costrizioni vengono messe in atto e come i danni che vengono arrecati.
In questa chiave di lettura dell’esistenza, la fuga appare una scelta legittima, una logica conseguenza, che l’autore perora fin dal titolo.

Sebbene il testo, dal punto di vista scientifico, patisca l’usura delle scoperte che si sono succedute nei decenni e che inevitabilmente hanno portato a una riconsiderazione dell’esistenza anche sotto il profilo biologico, Elogio della fuga resta un saggio interessante e provocatorio, molto ben organizzato e con una scrittura scorrevole. Resta a monito che talvolta sarebbe meglio rifuggire dal proprio pregiudizio, che anche una mente sedicente illuminata si porta appresso come una copertina di Linus, più che dalle idee altrui, che possono essere condivise o meno, ma restano una via di fuga dai propri limitati orizzonti.

sabato 5 novembre 2016

Il Welfare state è ancora sostenibile?

Titolo: Il Welfaire State è ancora sostenibile?
Autore: Oscar Vara Crespo
Anno di Pubblicazione: 2016
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin


Chi, come me, non ha una formazione economica tende ad avere dell’economia un’idea formulata in base ad altre competenze, vale a dire distorta e incompleta. 
Di fronte alla complessità dei fenomeni economici che ogni giorno modificano la storia attuale, cercare di comprendere qualche elemento in più, senza la presunzione di diventare esperti, ma solo con la speranza di ridimensionare l’ignoranza, appare indispensabile.
Di recente ha preso avvio la pubblicazione di una collana di libri dedicati a vari aspetti dell’economia, acquistabili  in edicola per pochi euro.
Di questa collana io ho letto il volume dedicato al welfare state e alla sua sostenibilità. Il libro si articola in quattro sezioni: la nascita del concetto di stato sociale, l’opposizione teorica dei pensatori liberali, la realizzazione storica e le sfide che il sistema di welfare deve affrontare nella contemporaneità.
I quattro argomenti sono affrontati in altrettanti capitoli, con un metodo scolastico che parte dalla spiegazione  della prima elaborazione teorica, poi delle discussioni che si sono succedute e le vicissitudini storiche che  hanno reso le politiche sociali una realtà.
Molto interessante e utile è anche l’analisi di come i diversi Stati Occidentali hanno strutturato il proprio sistema di stato sociale: emerge chiaramente dalla lettura ciò che si può intuire ovvero che esiste un rapporto biunivoco tra misure di welfare e cultura sociale.  
Allo stesso modo vengono portate all’evidenza del lettore  i problemi presenti e le proiezioni future sugli investimenti necessari a sostenere i vari sistemi sociali: la sanità, la scuola, i servizi sociali, la previdenza.
Molto piacevole, a mio avviso, è l’inserimento di brevi schede di approfondimento, all’interno di ogni capitolo, con ulteriori spiegazioni, biografie di autori importanti ed excursus su temi specifici.
Il testo è scritto per lettori non specializzati, ma non ricorre a espedienti banali, ciò che può non essere noto viene spiegato, non tralasciato. 

Ne risulta una lettura agevole, scorrevole e appagante. Un libro di cui si può leggere qualche paginetta ogni sera, senza il timore che la stanchezza privi delle risorse che servirebbero per un trattato, ma con il piacere di andare a dormire sentendosi un po’ meno ignoranti.

sabato 29 ottobre 2016

Discorso e Verità

Titolo: Discorso e Verità
Autore: Michel Foucault
Anno di Pubblicazione: 1996
Genere: Saggio
Recensione di: Chiara Bortolin

C’è una discrepanza tra un sistema egualitario che riconosce a tutti il diritto di usare la perresia e la necessità di scegliere tra i cittadini quelli in grado (in virtù della loro condizione sociale e delle loro qualità personali) di usare la perresia in un modo che risulti effettivamente benefico per la città. A differenza della isonomia (l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge) e della isegoria (il diritto riconosciuto a ciascuno per legge di esprimere la propria opinione) la peserai non infatti definita chiaramente in termini istituzionali.

Metto subito le mani avanti: il testo non è così complesso come questo singolo periodo può far temere. Ho scelto questa citazione perché racchiude, a mio avviso, alcuni concetti cardine esposti in questa raccolta di lezioni che Foucault tenne sul tema.
E il tema è davvero affascinante e attuale. Si tratta di verità, come il titolo esplicita, ma considerata da un punto di vista molto particolare ovvero di chi sia tenuto a dire la verità. Solitamente quando si tratta di verità ci si arrovella in modo più o meno elevato nella speculazione della verità stessa, quindi nelle sfumature che vanno tra la negazione di essa, una menzogna spacciata per verità, e la verità assoluta, oggettiva, incrollabile, di un fatto. Discussioni queste per lo più si chiudono con un elegante soggettivismo “Questione di punti di vista” o con un disinteressato “D’altronde…”. 
In questo caso la verità è tale e indiscutibile, il problema è chi sia in diritto di rivelarla. Naturalmente l’Autore considera diversi contesti in cui questo svelamento può prendere forma: ambito privato e ambito pubblico, con impatti diversi e con conseguenze variegate. 
L’aspetto a cui Foucault dedica più attenzione tratta della verità pubblica e più precisamente della verità politica. Per essere del tutto precisi, Foucault si propone di esaminare il concetto di paressia (franchezza nel dire la verità) attraverso un intrigante excursus tra gli Autori della Grecia classica. L’importanza della gestione della cosa pubblica per i pensatori classici è risaputa ed è quindi evidente che l’uso politico del dire la verità trovi in tutti i testi antichi riferimenti piuttosto ricchi.
Chiaramente il dire la verità su un tema di pubblico interesse è un atto giusto e nobile, tanto più quando il rivelatore è in una posizione di subalternità rispetto al potere. Questa situazione può vedere protagonista un esponente di una fazione di minoranza in un Consiglio cittadino oppure un Consigliere rispetto a un Monarca o un Ufficiale di basso rango nei confronti di uno di rango superiore.
Ma i filosofi classici erano degli speculatori e non si accontentavano di risposte semplicistiche. Se dire la verità è giusto e nobile, è pur vero che la credibilità di colui che la rivela è fondamentale. Il dichiarazione di verità deve provenire da un uomo probo. E qui si arriva alla nota dolente. La definizione di uomo probo è complessa e lascio al Lettore il piacere di scoprirla. Anticipo, tanto per sollecitare la curiosità, che la conclusione a cui giungono i senatori classici è che non tutti possono dire la verità.
Nel recedere con la lettura si arriva così a scoprire che non tutti possono, per la loro statura personale, dire la verità, che non tutti ne sono degni. La democrazia, di cui i Greci furono i fondatori, ammette l’uguaglianza di fronte alla legge e il rispetto delle opinioni, ma non che sono tutti uguali per pensiero, per credibilità ed educazione. 
Il testo si legge con piacere perché Foucault spiega con precisione ogni passaggio, lasciando molto spazio alle citazioni dei testi, come se facesse da guida in un viaggio attraverso la classicità. Le lezioni sono accessibili e piacevoli anche per chi non frequenti abitualmente la filosofia e la letteratura classica. 

Un libro garbato per concetti complessi. Alla fine il testo stesso sembra realizzarsi: molti possono capire, ma non tutti possono pensare ed esprimere gli stessi concetti nello stesso modo. La consapevolezza della propria ignoranza non solo offre a chi l’accetta innumerevoli occasioni di stupore, ma ridimensiona il concetto di sé. Il concetto di parità di pensiero quali-quantitativo fra tutti i cittadini è facilmente smontabile, d’altronde.

sabato 22 ottobre 2016

Delle librerie e delle storie che raccontano

Osservare la libreria di una persona ha un che di indiscreto, lo ammetto. L’aspetto curioso è che un elemento così intimo viene normalmente esposto allo sguardo degli ospiti senza pudore, anzi talvolta con orgoglio. D’altre parte se non sei nella cerchia dei fortunati che possono disporre di una biblioteca nella propria abitazione, l’unica soluzione logistica alternativa è trattare la libreria come un elemento d’arredo ed esporla al giudizio altrui come un tavolino o una poltrona confidando nell’indifferenza altrui.
Nel mio caso, questa speranza è vana, perché la mia psicopatologia da collezionista di libri prevale sulla mia abituale discrezione. Naturalmente, procedo con metodo. Prima di tutto, se ci sono due persone, è necessario individuare a chi appartiene una sezione piuttosto che un’altra: si condividono le spese, si mangia insieme, ci si scambiano fluidi corporei, ma i libri si tengono separati. Qui i miei, lì i tuoi. Tu il tuo ordine, io il mio. Se leggi uno dei miei libri, lo rimetti al suo posto. Prima di acquistare dei libri che interessano entrambi si aprono le trattative su chi ne potrà vantare la proprietà successivamente, di avere una parte in comune neanche a parlarne, piuttosto se ne coprano due copie, sia mai.
Il secondo passo è capire gli interessi e la qualità dei medesimi. Ci sono librerie che hanno sezioni specialistiche, legate alla professione o a una passione. Qui si aprono orizzonti impensati tra manuali di fisiologia, saggi sulle forbici dei giardinieri e ricettari di ogni parte del mondo. Talvolta si rivelano lati sconosciuti della persona, vite precedenti di cui non si è mai parlato, desideri per il futuro coltivati all’ombra di pagine patinate.
Il vero pezzo forte è il resto della libreria. Ciò che si legge oltre al codice penale o all’arte di coltivare le gardenia. L’elenco delle possibilità è immenso. Narrativa: gialli, fantasy, fantascienza o letteratura scolastica, letteratura con la L maiuscola, romanzi rosa, romanzi denuncia, romanzi storici. Saggistica: classici latini e greci, filosofia, storia, arte, architettura oppure saggistica contemporanea, biografie, testi religiosi. Di rado si trova anche qualche libro di poesia, ma chi ne ha di solito ne ha di buona qualità e con discreta scelta.
Da ciò che le persone leggono si possono capire così tante sfaccettature della personalità che quasi mi viene da arrossire quando il padrone di casa mi porge un bicchiere di vino e mi rivolge una domanda di cortesia.
Ma non ho ancora finito, scusa, devo ancora capire come conservi i tuoi libri. Devo capire l’ordine logico. Il disordine è di chi ha così pochi libri da non necessitare un disposizione organizzata. Chi dispone di una libreria ha necessità di riporre i libri in modo da poterli trovare rapidamente, ma ciascuno riflette le proprie priorità: si possono trovare libri disposti per autore, per argomento, per casa editrice, per sfumature cromatiche, per dimensione e poi all’interno di ogni sezione deve esserci una sottosezione per numero, per data di acquisto, per date di pubblicazione.
Infine: la cura verso l’oggetto libro. I libri chiamano la polvere e la polvere li consuma più dell’usura. I libri possono essere molto puliti, molto impolverati, protetti da un vetro, ancora sigillati nella confezione se nuovi. Possono ancora essere abbigliati con una fascetta o avvolti da un cofanetto. Oppure possono aver subito dei guasti, essere stati rattoppati alla meno peggio, essere stati rilegati.
Se avessi ancora un minuto, prima di sedermi a tavola, facendo finta di niente, guarderei un po’ meglio le edizioni. Forse ci sono più edizioni di uno stesso libro, forse ci sono edizioni di pregio per veri cultori, forse possiedi edizioni economiche per non sentirti in colpa a portarle in borsa per leggere sul tram. Forse hai delle edizioni vecchie che ti ha regalato un parente anziano, forse hai edizioni rare. Forse non ci pensi neanche e compri semplicemente quello che ti interessa.

Forse non hai nemmeno pensato che qualcuno si prendesse la licenza di conoscerti attraverso i tuoi libri. La discrezione sta nel prendersi cura di questa nuova intimità, di questa confidenza sottintesa, di questa pagina di diario della tua vita che si chiama libreria.

sabato 15 ottobre 2016

No, Nobel, No Cry

  • Boia d’un boia! Questo non ha mai scritto niente!
  • Come non ha mai scritto niente?
  • Niente di niente, ti dico! 
  • Boia d’un cane! ma, dico, un romanzetto? una raccolta di poesie alla mamma? un ricettario di cucina tibetana?
  • Niente! Manco una lettera a un giornale!
  • Porca trombetta! E come glielo diamo il Nobel per la letteratura?
  • Di’, Svedy, e se tornassimo a dare il Nobel per la letteratura a chi fa letteratura?
  • Unstrunz, ti prego! Vuoi sollevare uno scandalo? Dare il nobel per la letteratura a chi fa letteratura! Ti ha dato di volta il cervello?!

Che il Nobel per la letteratura non si occupi, se non incidentalmente, di letteratura è ormai un sospetto fugato. Lo si deve ammettere, a malincuore, perché davanti a un Pirandello, a un Ungaretti, a un Montale, ci  si inchina.
E bisogna anche riconoscere che le carte sono state ben mischiate, un po’ di soddisfazione a chi al Nobel crede è stata data, anche negli ultimi decenni. Kertez, Gordimer, Mahfuz… delle ragioni diverse della letteratura di potevano anche intravedere, ma si lasciava correre, si perdonava. C’era la letteratura e tanto bastava. 
Altri nomi lasciavano perplessi: Coerzee, Kenzaburo, Aleksievic… romanzi discreti, non da commuoversi, non eccellenze, ma, il Nobel premia un titolo per l’intera carriera letteraria, bisognerebbe conoscere meglio prima di giudicare. Si la riserva, per prudenza.
Di altri proprio la ratio era oscura e il sospetto riaffiorava: ogni nuova assegnazione metteva in allerta. Con l’assegnazione a Bob Dylan ogni dubbio è stato risolto. 
Si prende atto che il premio Nobel per la letteratura è diventato un premio politico e che, a seconda della causa da perorare, e non della penna da eleggere, si sceglie un papabile. E siccome di cause da perorare, di scuse da profondere, da perdoni da chiedere e faccende da chiudere ce ne sono molti, il panorama delle prossime buone cause è ampio.
Da umanista la faccenda non mi rassicura affatto: toppi sono gli esempi nella storia degli scempi fatti alla cultura quando a decidere è stata una buona causa da perorare. E che non si sollevi l’obiezione dei mecenati rinascimentali: loro esaltavano il proprio potere attraverso l’eccellenza dell’ingegno, operazione molto diversa, dal definire eccellenza il medio per ottundere il piccolo.
Non resta che confidare nell’ovvio: che il genio preservi la propria eccellenza nel mantenersi libero, come Sartre, che il Nobel lo rifiutò, per non farsi istituzionalizzare. Potrebbe rifiutarlo anche Dylan, che pare non essersi reso reperibile. Oppure si potrebbe sperare che i desiderata politici incontrino qualche eccezione letteraria e che, di tanto in tanto, ci regalino ancora la possibilità che il potere premi il migliore e non il più utile.
E infine resta la certezza consolatoria che il genio non necessita dei riconoscimenti per esprimersi. Ci saranno sempre dei Pasolini, dei De Andrè, dei Celine che semplicemente fanno quello che sanno fare: scrivere. 

Con o senza Nobel.

sabato 8 ottobre 2016

Se Questo è un Uomo

Titolo: Se Questo è un Uomo

Autore: Primo Levi

Anno di Rappresentazione: 1947

Genere: Racconti

Recensione di: Chiara Bortolin


Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno:
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scoprite nel vostro cuore
stando in casa, andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Bertrand Russell sosteneva che la cultura di un uomo non si valuti dal numero di libri che ha letto, ma dal numero di libri che ha riletto. Questa considerazione appare tanto più veritiera quanto più denso di significati è un libro: alcuni testi sono così ricchi di significati da regalare a ogni rilettura un concetto nuovo e Se Questo è un Uomo ne è un esempio.
Che questo testo vada letto non pare sia argomento da perorare. Non credo nemmeno sia il caso di spiegare i motivi per cui, a una lettura imposta a scuola in adolescenza, debba seguire una lettura spontanea in età adulta. 
Preferisco piuttosto dedicare qualche riga a uno degli aspetti che ritengo più sottaciuti, ma più interessanti, almeno per la mia sensibilità. Il tema è quello della cultura come strumento di evasione. 
Primo Levi era un uomo di grande cultura e, sebbene avesse avuto una formazione accademica scientifica, come molti della sua generazione che avevano potuto studiare, godeva, fin da giovane di un notevole bagaglio umanistico.
Tale conoscenza viene evidenziata in uno dei racconti di Se Questo è un Uomo, che si intitola non a caso Il Canto di Ulisse. Nel racconto Levi riporta di aver recitato a un suo compagno di prigionia i versi danteschi riguardanti l’Ulisse.
La considerazione di Levi in questo episodio si condensa nel valore che la memoria della bellezza, la consapevolezza della grandezza dell’ingegno umano, la conservazione del sapere, siano elementi indispensabili per poter sopravvivere nel campo di concentramento. 
Due sono i motivi fondamentali. Il primo é riuscire a continuare a credere che al di fuori di quel perimetro,al di fuori di quel luogo, esistesse ancora un mondo, esistesse il mondo. Auschwitz, con tutto ciò che conteneva e rappresentava, non può essere la fine di tutto. Ricordare la bellezza vuol dire ricordare la vita.
Il secondo motivo è personale. I carcerieri possono togliere tutto: il cibo, il vestiario, i nomi, la dignità, ma non possono togliere la memoria. E ciò che ogni uomo ricorda, ciò a cui si aggrappa, è ciò che ha conosciuto, ciò che gli è caro, ciò che lo rappresenta. Un uomo senza memoria è un uomo senza identità.
L’importanza data da Levi al ricordo della bellezza mi ha sempre commossa. Almeno fino a quando non ho letto Karshaw, uno dei massimi storici del Nazismo, che ne Hitler e l’origine del consenso snocciola una serie di dati e numeri circa i campi di detenzione i campi di sterminio e, tra questi, un’indagine sui sopravvissuti in cui si scopre che la maggior parte di questi aveva un’istruzione superiore.
La motivazione è lì, lampante e crudele: coloro i quali avevano la capacità di evadere con la propria memoria avevano più possibilità di sopravvivere.
Levi apre Se Questo è un Uomo con l’omonima poesia che esprime l’interrogativo di fondo di tutto la sua opera: cosa definisce un uomo? La profondità di questa domanda credo sfugga ai più, che fortunatamente non si sono trovati nella situazione di doversi chiedere quando un essere umano smetta di essere un uomo. Non credo sia un caso che lo stesso interrogativo abbia invece tormentato molti di coloro che si sono confrontati con esperienze di privazioni materiali e psicologiche estreme.
Verrebbe da chiedersi se per poter riflettere sulla risposta sia davvero necessario vivere queste esperienze, portarsene l’onere della memoria, lottare per preservarne l’essenziale purezza dalla retorica di ampollose risposte.
Verrebbe anche da chiedersi se, tra i tanti farneticamenti di presunti vaccini contro un ripetersi della storia, venga mai il dubbio che il deterrente più efficace possa essere la conoscenza. Varrebbe la pena di chiedersi se invece di far lacrimare i ragazzi propinando film strappalacrime, non potrebbe essere meglio insegnare loro a preservare la loro immaginazione. Varrebbe la pensa forse insegnare che la libertà si basa sulla consapevolezza e questa si basa sulla conoscenza. 
Levi, nell’inferno peggiore che memoria storica ricordi, rievoca l’Ulisse dantesco che incalza i suoi marinai: 
Fatti non foste per viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza

E allora a me pare piuttosto semplice rispondere alla domanda: ditemi voi se questo è un uomo.

Dedica

Ad Andrea, certo che 'l trapassar dentro è leggero